Visioni

Tutto cambia perché nulla cambi

Alfonso Pascale

Luigi Caricato, con la sua consueta sensibilità di scrittore e giornalista attento alle trasformazioni culturali e antropologiche della società italiana, coglie un tratto caratteristico dell’Italia contemporanea (“Siamo tutti coldirettiani”: QUI). Noi italiani siamo fatti così perché siamo stati per lo più democristiani e comunisti. La Dc e il Pci sono stati i principali artefici della rinascita della democrazia che era stata uccisa dal fascismo. Tuttavia, questi partiti, nei primi decenni di vita repubblicana, si sono contesi il consenso, sicuramente con gli strumenti della democrazia ed educando le masse alla democrazia, ma rinverdendo le forme di rapporto tra Stato e società e tra Stato ed economia sperimentate dal fascismo. E’ stato, infatti, il fascismo a inventare le moderne forme politiche e rappresentative dell’organizzazione del consenso in una società di massa. In età giolittiana esisteva una netta distinzione tra le forme organizzate della società civile, il mercato e lo Stato.

Il problema italiano è che siamo stati democristiani e comunisti e mai autenticamente liberali, pur adottando una Costituzione fondata sulla democrazia liberale.

Il principio di fondo del pensiero liberal è che la democrazia e la volontà della maggioranza non devono mai travolgere i diritti e le autonomie dei singoli. Ma questo principio fondamentale si può attuare solo se la società è autenticamente pluralista, critica, raziocinante, disposta alla mediazione politica; se è una società capace di tenere sotto controllo i rapporti tra poteri economici e politica.

Ancora non c’è nessun partito o formazione sociale in Italia che si prefigga questa primaria funzione di tutela e rafforzamento della democrazia liberale.

Nel nostro paese, solo uno sparuto numero di singole persone opera effettivamente per il rispetto assoluto della legge senza guardare in faccia a nessuno; è impegnata costantemente affinché ci siano regole capaci di stroncare la formazione di rendite economiche e politiche, premiare il rischio imprenditoriale, il merito e il successo ed evitare che il premio poi degeneri in monopolio, rendita o potere d’influenza su altre sfere della società.

L’agricoltura italiana, nelle sue forme di intervento pubblico e di organizzazione sociale ed economica, non fa altro che rispecchiare questa acuta assenza di cultura liberale dell’intera società nazionale.

E l’attuale successo della Coldiretti deriva proprio dal fatto che – caduti necessariamente i vecchi emblemi e ideologismi dei partiti di massa della prima Repubblica sotto le macerie del Muro di Berlino – è l’unica organizzazione ad aver conservato il marchio d’origine da quel lontano ottobre del 1944 quando fu fondata sulle ceneri della vecchia federazione fascista dei coltivatori diretti. Un marchio rassicurante che dice – senza dirlo mai esplicitamente ma, anzi, fingendo di affermare il contrario – agli italiani: “Tutto cambia perché nulla cambi”. E’ questo il motivo principale – al di là di quelli meno nobili e forse inconfessabili – per il quale schiere di giornalisti velinari ogni giorno dispensano a piene mani e in modo acritico ogni notizia, finta o reale che sia, costruita a palazzo Rospigliosi. E’ il marchio che fa presa. L’unica icona di un mondo ormai scomparso, volutamente rimosso dalla memoria collettiva, ma che viene brandita come il “nuovo che avanza”. Un inganno mediatico che appare come una innovazione ben riuscita.

Sta qui il motivo per cui nessuno storico di professione si sia mai cimentato nel raccontare la vera storia della Federconsorzi e del suo fallimento e, successivamente, della costruzione del più sofisticato e costoso sistema di gestione della PAC esistente in Europa.

Leggiamo “Coldiretti” e pensiamo tirando un sospiro: “Meno male. Dopo tutto, siamo ancora noi, nonostante i nostri innumerevoli vizi e le nostre scarse virtù”.

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