Visioni

Un Natale sotto la luce di Adriana Zarri

Alfonso Pascale

Per Natale, quest’anno, ho pensato di farvi gli auguri proponendovi una pagina del bel libro che ho trovato oggi al “Ri-ciclo del Libro” a Tor Pignattara. Ci vado spesso in questa libreria senza prezzi e a offerta libera, gestita da volontari. E così scovo testi preziosi e di rara bellezza. Come Erba della mia erba. Resoconto di vita di Adriana Zarri (Cittadella Editrice, 1981). In questo libro sono raccolti e rielaborati i pezzi che la teologa-scrittrice aveva creato per la rubrica “Lettere dall’eremo” e che uscivano quindicinalmente sulla rivista “Rocca”.

Adriana Zarri era stata una protagonista molto attiva nei dibattiti preconciliari in cui emergeva, in diversi ambienti cattolici, una forte domanda di cambiamento all’interno della chiesa e nei rapporti da questa intessuti con la società. Aveva poi preso parte alle aspre polemiche del dopo concilio, finché, dal 1975 scelse di lasciare Roma e di vivere in una vecchia cascina solitaria delle campagne piemontesi, nella preghiera e nel silenzio.

Non era quella scelta un “ritirarsi” dal mondo ma un vivere in solitudine e nel silenzio “per assumere la storia e i problemi di tutti”. Aveva intensificato, infatti, l’impegno di giornalista e scrittrice, occupandosi dei temi più scottanti che emergevano nella società: dalla difesa della legge sull’aborto ai problemi sociali (scuola, sanità, ecc.).

Aveva deciso di essere un’eremita di campagna. E spiegava così quella scelta: “C’è da chiedersi se non siamo culturalmente provinciali a parlar sempre in dimensione urbana, mentre l’economia scopre che ‘il piccolo è bello’, la storia prende i cammini del locale, la scienza denuncia i danni ecologici e psichici dell’urbanesimo, l’amministrazione tende al decentramento, la cultura scopre i dialetti, la sensibilità comune rifiuta il modello cittadino, anche se spesso è costretta a subirlo e, nelle sue punte più giovanili, conosce la riscoperta della terra”. Ma subito precisa per evitare equivoci: “Il problema perciò non è la difesa ad oltranza del vecchio modello urbano e industriale come il luogo privilegiato della politicizzazione, e della crescita dell’uomo; né la falsa e nostalgica retorica del ‘ritorno alla terra’: il problema è di assistere questo processo perché sia progressivo e non regressivo, non un ‘tornare’, con nostalgia, guardando indietro (e certe fasce ecologiche peccano certo di questa regressione) ma un andare, uno scoprire, un intraprendere cammini nuovi che non rinnegano la dimensione urbana, industriale, tecnica, politica, ma ne sorpassano le vecchie forme storiche per viverle in maniera diversa”.

Tra le pagine del libro di Adriana ho trovato un brano intitolato “Gesù Bambino nella greppia”. Ecco il testo:

“Quest’anno, ho fatto due presepi: uno in casa e un secondo nella stalla. Disponendo di una stalla, con tanto di greppia, mi pareva che quella fosse la collocazione più adeguata: tanto che poi ho deciso di lasciarlo, anche durante l’anno. Anziché un’altra immagine sacra, egli è lì, tra il disordine e i topi, come forse neanche a Betlemme gli mancavano. Poiché accanto alla casa non si coltiva grano, non ho paglia; e tutti gli anni il fornitore è Giacomo. Viene con una mezza balla (e me ne basta molto meno; il resto farà da strame per le bestie) e io ci colloco sopra la statuina di gesso. È un presepe da poveri. La paglia, Gesù Bambino e basta (in quello di casa, per ornamento, c’è solo un volo d’angeli: una ceramica di Faenza, essa pure un regalo di amici di là). È un presepe da poveri, ma è il Signore che seguita a nascere, ogni giorno: e non finisce mai di nascere, e non finisce mai di morire, e non finisce mai di risorgere, nella carne e nel mondo. Nasce non tanto «nell’anima», come un’ascesi tutta spiritualistica ci ha insegnato a ripetere: nasce nella vita; nasce dal nostro ascolto, dalla nostra attesa, dal nostro umile e docile accordarci con i ritmi profondi delle cose. E noi gli siamo utero, cesto, nido.

L’incarnazione non è una storia privata: è la storia del mondo e Cristo non nasce solo nella greppia. Il Verbo sposa la terra e si fa terra, carne, tempo, storia, finitezza, condizionamento, situazione umana nella sua complessità, e nella sua povertà, vita del mondo, con la sua concretezza e i suoi limiti. E la vita – questa vita assunta da Dio – è fatta di me, di voi, di storie e destini innumerevoli, di vicende cosmiche e piccoli accadimenti quotidiani. Anche di neve è fatta, la vita, e di germogli che dormono, di gatti che ronfano, di stufe che borbottano e di polente che inondano le tavole come lune d’inverno.

Dopo gli incontri dolci con gli amici, che hanno sfidato freddo e neve per i doni e gli auguri natalizi, torna la solitudine compatta. Non mi sono lasciata sedurre dai tanti inviti. Per le feste una persona sola sembra che faccia pena (che pena sprecata, nel mio caso!) e gli inviti si moltiplicano. Ma io ho sempre difeso il mio Natale, anche quando non ero un’eremita, ma il monachesimo ce l’avevo dentro, in un bisogno di silenzio; e così Pasqua e le festività importanti. Se mai un pranzo potrà essere accettato nei giorni successivi.

Ricordo quando abitavo a Roma, in una di quelle case con le pareti di carta velina, con i rumori che passavano muri, soffitti, pavimenti. E mi giungeva, confuso, il chiacchiericcio vuoto di tavolate che si intuivano convenzionali, con discorsi di nulla. Io «là sola come un cane» facevo pena a loro: ma loro facevano assai più pena a me. Sentivo il pomeriggio che naufragava in chiacchiere sempre più stanche; e il mio silenzio, invece, a onta di quelle interferenze, si faceva più denso, più compatto, più felice. Tanto più adesso, che la mia casa ha solide pareti contadine e al di là c’è soltanto la stalla e lo starnazzare dei polli.

I mesi freddi – l’ho già detto – sono più solitari. Il periodo precedente il Natale è una parentesi di incontri – dolce come sarà poi dolce il silenzio – ma dopo la parentesi si chiude. La chiude il freddo, l’inclemenza del tempo, la sorda barriera delle nebbie, il desiderio di ciascuno di restare più in casa, di coltivare la domesticità. Ed io ricado nel bianco silenzio dell’inverno, illuminato dalla neve, come su di un lenzuolo bianco che accoglie la mia contemplazione. Sono stata grata agli amici per essere venuti a salutarmi; ora sono loro grata perché mi lasciano in silenzio.

Il telefono aveva squillato a lungo, con chiamate da tutte le parti d’Italia: di amici e anche di sconosciuti; ed era stata una dolce manifestazione di affetto. Ora tace anche lui. Sul tavolo ho ancora i segni delle festività: resti di panettoni e di liquori con cui tanti hanno voluto ricordarmi. E io prolungo le ricorrenze liturgiche, contestando le stolte contrattazioni tra Vaticano e stato per la riduzione delle feste che hanno abolito l’Epifania in favore dell’Immacolata. Si capisce proprio che le trattative sono state condotte da diplomatici che non sanno nulla di storia, di liturgia e di teologia. Ma al Molinasso l’Epifania si festeggia ancora, con la medesima solennità di un tempo. Questo Natale dei pagani, questo Natale ecumenico ha, nella mia cappella, la risonanza che merita e che la storia e la liturgia gli hanno decretato fino a oggi.

Gesù Bambino nella stalla si sta ambientando a un clima certo più rigido di quello di Betlemme. Un topo gli ha rosicchiato la vestina scoprendo un angolo di carne nuda. L’ho ricoperto con la paglia senza eccessive preoccupazioni. Dopo tutto, se voleva, poteva mandarlo ben via; se l’ha tenuto vuol dire che il topettino gli piaceva, e magari ci ha conversato un poco.

Del resto il mio Signore non è esigente. L’ho abituato bene e, se non ci sono fiori, non pretende che vada dal fioraio: costa troppo. Si contenta di qualche pannocchia di granturco, qualche zucchina ornamentale, qualche fiore secco, qualche ramo. Del resto l’idea che soltanto i fiori freschi facciano decorazione è molto restrittiva e molto ingiusta verso altri pezzi di natura non meno belli: come un cesto di frutta, o un’erica seccata che serba il suo delicato color viola, un mazzo di spighe (bellissime le varietà dei prati: bellissime verdi ed essiccate); o anche soltanto un ramo. I biancospini hanno rami elegantissimi. D’inverno la mia casa non ha fiori, ma è sempre adorna di qualche pezzo di mondo che mi entra dentro a farmi compagnia. In questo momento, in cappella, c’è un nido d’uccello con le ovette. Naturalmente non sono andata a rubarlo sulla pianta, come fanno i monelli: l’ho trovato ai piedi di un albero e l’ho portato ai piedi del Signore. E credo proprio che gli piaccia. Se non gli piacesse, dimostrerebbe di avere scarso gusto, ed è un’ipotesi che non posso prendere in considerazione”.

 

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