Economia

Di che olio stiamo parlando?

E’ una nazione fortemente deficitaria di materia prima, l’Italia. Siamo il Paese dell’olivo e dell’olio per eccellenza, è vero – almeno è quello che in molti pensano di noi. Tuttavia la produzione di olio da olive nostrana non è sufficiente a garantire né il consumo interno, né tanto meno a soddisfare le esigenze dell’export. Tutti, nonostante questa clamorosa farsa, fanno finta di nulla

Olio Officina

Di che olio stiamo parlando?

Secondo i dati del nuovo registro telematico Sian, la produzione olearia nazionale è in costante calo. Nella campagna olearia 2012/2013 la produzione si attestava a 403.216 tonnellate, in quella 2013/2014 ammontava invece a 324.739 tonnellate, mentre, nell’ultima campagna, la 2014/2015, per tutti ormai “la più difficile di tutti i tempi”, sono registrate appena 204.558 tonnellate d’olio. E’ una débâcle.

A essere onesti, occorre riconoscere un arretramento senza precedenti, pesantissimo. Non sono dati confortanti, sia in considerazione del fatto che l’Italia è tradizionalmente da ritenere un consolidato Paese consumatore, sia considerando il fatto che nel 2014, le esportazioni di olio da olive da parte delle aziende italiane, secondo i dati forniti da Assitol, hanno superato di gran lunga quota 400 mila tonnellate, un dato per molti versi esaltante, visto che si conferma in tal modo la storica leadership delle imprese italiane sul fronte export – onore al merito. Già, ma con quale olio?

Il commercio d’olio con l’estero – sempre secondo quanto riferito da Assitol – ha movimentato circa 410 mila tonnellate, per l’esattezza. Si è registrato un incremento del 6,6% degli scambi, per un valore complessivo, per il solo export, pari a 1.369.732.855 euro.
Il dato su cui riflettere è che lo scorso anno, proprio per sopperire alla scarsità della produzione nazionale, si è stati costretti a importare olio per oltre 660 mila tonnellate. Non è un dato da sottovalutare. Occorre avere il coraggio di ammettere che non abbiamo più olio, ma, soprattutto, che non ne produciamo.

Sono dati alquanto preoccupanti, proprio a testimonianza di un forte stato di disagio, pur nonostante il largo successo commerciale delle aziende olearie italiane. Tutto procede come ai vecchi tempi, senza che il successo delle aziende olearie nostrane venga in qualche modo scalfito.
Le imprese italiane – come si legge nei dati diffusi da Assitol – contano più di un miliardo di euro della bilancia commerciale, per un fatturato complessivo di oltre 2 miliardi. I dati sarebbero anche rosei, ma a preoccupare in vista del futuro è in realtà la progressiva perdita delle più prestigiose marche italiane, di cui cui continuano a fare incetta altri Paesi.

A confortarci, almeno per ora, sono i successi sul mercato statunitense. Per ora, almeno. Così, nonostante alcune oggettive difficoltà che si sono registrate negli ultimi anni alla dogana per via della presenza di un alto contenuto di clorpirifos riscontrata nei nostri oli, gli Stati Uniti rappresentano tuttora il nostro principale punto di riferimento, con una quota del 29,7%, e un incremento degli acquisti dell’11,2% (+ 8.268 tonnellate). Segni positivi, inoltre, sono stati registrati anche nei mercati di Germania (con una quota del 10,9%), e, a seguire, sui mercati di Francia (7,9%), Giappone (6,1%), Canada (6,8%), Regno Unito (3,4%) e Cina (1,7%).

Il quadro della realtà ce lo offre sempre il registro Sian. Al momento risultano operativi in Italia 5898 frantoi, 4531 confezionatori, 2193 commercianti d’olio e 308 commercianti di olive. Sono invece 37 i sansifici e 8 le raffinerie. Alquanto difficile indicare invece il numero degli olivicoltori, un dato preciso e attendibile di fatto non esiste. Sono spesso numeri campati in aria, perché facevano comodo a molti esibirli. Un tempo si parlava di oltre un milione di olivicoltori, ma quelli professionali, che vivono di olivicoltura, sono decisamente molto meno, rappresentando una quota senza dubbio inferiore al 5%.

Secondo i dati forniti dall’Istat, sono invece 1.144.422 gli ettari investiti a olivo, con la quota più alta attribuita alla Puglia (40,07%), cui segue la Calabria (22,38) e la Sicilia (10,47).
Da evidenziare il fatto che senza la Puglia, l’Italia sarebbe un Paese olivicolo marginale. Non è un caso che nell’ultima campagna olearia la quota produttiva della Puglia, stando quanto meno ai dati del registro Sian, con 124.063 tonnellate d’olio prodotte, ammonta al 60,65% della produzione nazionale (non si considera evidentemente la quota pugliese trasferita in altre regioni).

Considerando inoltre la problematica del batterio Xylella fastidiosa negli oliveti del Salento, di cui tanto si parla e si scrive (sicuramente a sproposito), è giunto ora il tempo di ripensare l’Italia dell’olivo e dell’olio e trovare una finestra aperta al futuro.
Servono infatti nuovi investimenti, per rendere autosufficiente un Paese tradizionalmente grande consumatore ed esportatore di olio da olive. Sarebbe il caso di ripartire dall’agricoltura, piantumando nuovi olivi e razionalizzando la coltivazione in modo da abbattere i costi di produzione e ottenere maggiori quote d’olio e, possibilmente, anche una più alta qualità – perché, a scanso di equivoci, le quote di olio vergine lampante, o comunque vergine tout court, sono ancora elevate.

La foto di apertura è di Luigi Caricato

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