Economia

Il futuro della Pac

Alla fine se ne parla sempre, di questa Pac. D’altra parte, quando si tratta di agricoltura, tutti si concentrano sulle necessità materiali, di cui si ha sempre urgente bisogno. Ma a chi vanno i fondi destinati all’agricoltura? I problemi legati alla gestione dei fondi sono enormi, tant’è che si continua a parlare di semplificazione e modernizzazione. La Pac non è una politica qualsiasi. Il suo bilancio, pari a 408 miliardi di euro per il periodo 2014-2020, rappresenta il 38% dell’intero bilancio Ue

Alfonso Pascale

Il futuro della Pac

Il Presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, ha annunciato la futura presentazione di una comunicazione della Commissione europea al Parlamento europeo e al Consiglio sul futuro della PAC. La comunicazione che la Commissione europea adotterà entro la fine del 2017, avrà come obiettivo la semplificazione e la modernizzazione della PAC. Al fine di predisporre il testo della comunicazione, la Commissione europea darà avvio, all’inizio del 2017, ad una consultazione pubblica sulla PAC post 2020 così da ricevere i contributi di chiunque abbia interesse a farlo e decidere l’orientamento che tale politica strategica dovrà avere nel futuro.

Per fare delle proposte sensate è necessario esaminare correttamente come questa poilitica comune ha effettivamente funzionato e quali esiti ha prodotto. Ci può allora aiutare una relazione informativa su “La riforma della PAC: modalità, diversità, effetti redistributivi e altre scelte degli Stati membri nell’applicazione della riforma dei pagamenti diretti” (relatore Mario Campli) che l’Assemblea del Comitato Economico e Sociale Europeo ha adottato il 2 luglio 2015 e trasmesso alle istituzioni della UE.

La PAC non è una politica qualsiasi. Il suo bilancio, pari a EUR 408 miliardi per il periodo 2014-2020, rappresenta il 38% dell’intero bilancio dell’UE. Il primo pilastro, pari a 313 miliardi, rappresenta il 77% della spesa totale PAC. I pagamenti diretti, pari a 294 miliardi, rappresentano il 94% del primo pilastro. Questa tipologia di intervento pubblico è la più importante (in termini finanziari) politica “comune” dell’UE. Se questa non funziona, non fallisce solo una politica ma è l’insieme dell’idea di Europa che è messa in discussione e perde di credibilità.

Il testo diffuso dal CESE è molto articolato perché esamina le decisioni prese dagli Stati membri nell’ambito delle settanta aree di intervento attribuite alla loro discrezionalità. Nella proposta legislativa della Commissione gli ambiti in cui gli Stati membri avevano piena autonomia decisionale erano venti. Il regolamento uscito dalla negoziazione tra il Parlamento, il Consiglio e la Commissione accresce di altre cinquanta le aree di intervento degli Stati membri. Qual è il significato di tale evoluzione? Come mai si è giunti ad un esito siffatto? Quali conseguenze si prevedono per la stessa tenuta del processo di costruzione europea?

Una PAC senza strategia come merce di scambio politico

Da una semplice lettura della lista delle attribuzioni risulta che si tratta di un insieme disorganico di materie e di scelte, alcune di maggiore rilevanza, altre di dettaglio. Con tutta la buona volontà non è possibile individuare alcuna strategia sottostante la flessibilità offerta agli Stati membri. E le decisioni adottate dai governi nazionali non fanno altro che produrre automaticamente, nell’insieme dell’Unione, un effetto moltiplicatore sia nella quantità delle scelte sia nella diversità delle stesse. Un effetto domino che accresce a dismisura la complessità e la farraginosità di questa tipologia di intervento pubblico.

Per procedere ad una lettura d’insieme di tali decisioni il CESE ha adottato una metodologia di analisi articolata in tre passaggi: a) individuazione delle decisioni veramente cruciali; b) individuazione di un sistema di misurazione per esprimere una visione complessiva delle scelte effettuate nell’insieme del territorio dell’Unione, di tipo quali-quantitativo (su una scala da 1 a 5); c) applicazione dell’analisi fattoriale, come tecnica di analisi finalizzata a sintetizzare la complessità delle relazioni tra le variabili trattate. Il sistema di misurazione è basato sulla rilevazione delle scelte adottate, collocate tra i due estremi della scala.

Ne vien fuori un’articolazione molto ampia di modalità che produce effetti redistributivi non valutabili in quanto manca una chiara strategia a livello comunitario e manca anche un quadro coerente e credibile delle presunte strategie nazionali adottate.

L’impressione generale che se ne ricava è quella di un grande e confuso scambio politico (una volta si chiamava, con linguaggio greve ma efficace, “clientelismo”) che vede protagonisti, da una parte, i governi nazionali e i parlamentari europei disponibili a soddisfare qualsiasi richiesta, e, dall’altra, le organizzazioni agricole che rivendicano cose anche contraddittorie tra loro, pur di mettere in bella mostra un ruolo di rappresentanza che di fatto da tempo hanno dismesso.

Elementi costitutivi di una politica dannosa

La relazione informativa del CESE rileva che già la riforma in sé contiene elementi fortemente discutibili. Il primo elemento risiede nella stessa scelta di conservare una PAC basata su due pilastri, e soprattutto di assegnare, nell’ambito del primo, un ruolo prevalente ai pagamenti diretti. La formula dei pagamenti diretti presenta il difetto di una vaga e poco definita relazione tra obiettivi della politica agraria e strumenti adottati per perseguirli, con il rischio di un’inefficiente distribuzione delle risorse. D’altra parte, il loro frazionamento in una serie di misure (pagamento base, inverdimento, giovani, ecc.) ha aggiunto complessità all’intervento.

Il secondo elemento si lega alla scelta di assumere l’ettaro di superficie come misura dell’equità distributiva tra agricoltori europei. Seppure tale soluzione può apparire quella più facilmente praticabile, non è sulla base dell’unità di superficie che si possono comparare tra di loro le agricolture europee. La scelta dell’ettaro si traduce in un premio alle agricolture più estensive e a più basso valore aggiunto, oltre che, indirettamente, in un rischio importante di trasferire l’aiuto diretto dall’agricoltore affittuario al proprietario della terra. Inoltre, l’aumento dei valori fondiari costituisce un ostacolo alla mobilità fondiaria e al rinnovo generazionale.

Il terzo elemento risiede nella duplicazione e sovrapposizione delle misure tra 1º e 2º pilastro. Segnatamente nei due pilastri sono contemporaneamente comprese misure per la sostenibilità ambientale, i giovani e le aree con vincoli naturali. A parte quest’ultima opzione, che è stata attivata soltanto (ed in misura modesta) dalla Danimarca, le altre due, e soprattutto l’inverdimento, pongono non pochi problemi di compatibilità tra obiettivi e strumenti.

In aggiunta alle suddette criticità insite a monte della stessa riforma della PAC, il CESE ha individuato altri elementi problematici che fanno molto riflettere.
Il primo è che se le politiche comuni europee sono il risultato di scelte così farraginose e rese ancor più disarticolate e contraddittorie con il sistema di governance messo in piedi – che prevede una laboriosa ed estenuante negoziazione tra le tre istituzioni – è evidente che la tela dell’unicità delle politiche tenderà nel tempo a lacerarsi. In altre parole, il sistema decisionale sperimentato con la riforma della PAC contiene in sé un virus che determina automaticamente un processo di rinazionalizzazione di politiche che i Trattati definiscono “comuni”.
C’è poi un altro rilievo importante che la relazione informativa contiene e che va sottolineato. Tutti i regolamenti base sulla riforma della PAC prevedevano un coinvolgimento della società civile nel suo complesso nelle decisioni autonome adottate dagli Stati membri. Da una indagine condotta dal CESE attraverso i suoi membri, risulta al contrario che questa mobilitazione della società civile non è avvenuta. In realtà hanno partecipato alle scelte dei governi nazionali solo le organizzazioni degli agricoltori. In altre parole, il maggior capitolo di spesa del bilancio comunitario viene utilizzato attivando canali partecipativi opachi e ristretti che impediscono ai cittadini europei organizzati di esprimere le proprie valutazioni sulle decisioni politiche che li riguardano.

Dunque, la politica agricola comune risulta meno “comune” che in passato; l’analisi delle informazioni relative alle scelte compiute delinea chiaramente questa percezione. Inoltre, come gli agricoltori e gli operatori stanno sperimentando, la PAC non è affatto più spedita. La relazione del CESE registra che il risultato finale della riforma e delle successive scelte effettuate dagli Stati membri, sulla base di una platea di oltre settanta opzioni delegate, non è una PAC più semplice. La scomposizione dei pagamenti diretti in una serie di misure (pagamento base, inverdimento, ecc.) si sta traducendo in maggiori complicazioni amministrative. In alcuni casi, peraltro, la flessibilità non è poi stata utilizzata, anche in ragione della complessità burocratica.

Resta poi il limite di fondo della PAC che non si riesce ad eliminare perché l’opinione pubblica non se ne rende conto e nessuno dà un’informazione corretta per aiutare a far crescere una consapevolezza intorno a questo problema enorme di giustizia sociale. L’economista Alan Matthews, attraverso la rielaborazione di dati della Dg Agri della Commissione europea, è riuscito a calcolare che circa il 55% dei pagamenti diretti è riservato ai 750mila agricoltori con il reddito più alto. Il risultato, oltre a mostrare l’elevata disuguaglianza della distribuzione dei pagamenti rispetto al reddito, conferma quanto si poteva intuitivamente supporre: agli agricoltori con il più elevato reddito agricolo vanno gli aiuti diretti di importo maggiore.

Dagli anni Sessanta i maggiori beneficiari della PAC sono sempre gli stessi. A prendere meno soldi sono le agricolture più innovative, quelle che s’inventano nuovi prodotti, nuovi servizi e nuovi processi, sono le agricolture inclusive, sostenibili, intelligenti e sono le aree interne, dove si sono aggravati i fenomeni di abbandono. Ad essere premiati sono stati i più pigri, quelli che campano di rendita, quelli che non vogliono mai rischiare niente. Mentre avremmo bisogno di una PAC in grado di sostenere l’innovazione ed eliminare le rendite di posizione e i privilegi consolidati; di introdurre potenti misure strutturali per non perdere in competitività in un mercato via via più aperto e globale; di rafforzare l’efficienza delle imprese e così attrarre i giovani; di puntare sull’integrazione tra le imprese sia in senso orizzontale che verticale: di far leva non solo sull’agricoltura, ma anche sullo sviluppo locale nel territorio nel quale essa è insediata.

Dinanzi a tutte queste incertezze, incongruenze e contraddizioni, forse è davvero giunto il tempo di decidere di chiudere una volta per sempre questo capitolo degli aiuti diretti – che sempre più si rivela un inutile spreco di risorse pubbliche – e di finalizzare i finanziamenti a concreti ed efficaci progetti di sviluppo rurale, gestiti localmente in modo condiviso dalle comunità. Anche qui, adottando un percorso fortemente semplificato nella produzione di elaborati e documenti e privilegiando forme efficaci di accompagnamento nei processi partecipativi dal basso.

Quello che dovrebbe rimanere come utile politica “comune” andrebbe racchiuso in un’unica azione: assicurare la sicurezza alimentare (garanzia delle forniture e tutela degli agricoltori e dei consumatori) nei confronti della crescente volatilità dei prezzi, attraverso la gestione del rischio fondata su schemi assicurativi e fondi mutualistici, anche in relazione alla necessità della regolazione dei mercati, sempre più aperti e non regolati. È questa la vera riforma della PAC che si attende da 25 anni. Gli aiuti diretti introdotti dalla riforma MacSharry del 1992 dovevano durare solo cinque anni. Ma ancora oggi non riusciamo a liberarcene perché su questa tipologia di intervento pubblico abbiamo costruito un apparato faraonico di gestione che non sa come riciclarsi. Il tutto sulla testa degli ignari cittadini e degli stessi agricoltori europei che subiscono silenti e rassegnati.

La foto di apertura è di Luigi Caricato

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