Il nuovo mondo dell’olio avanza
La volontà di affermazione americana parte da lontano. La California vuole ripetere il successo ottenuto con il vino. Se questo è l’obiettivo, riusciranno a conseguirlo. Anche perché le strategie messe in atto sono molto ben congegnate, e nulla è lasciato al caso. Dopo la rottura con il Consiglio Oleicolo Internazionale, si intende contrastare l’egemonia del vecchio mondo. Le aziende italiane sono facilmente attaccabili in virtù della collaborazione della nostra “intelligence”. Così, in chiave prospettica, a perderci saremo soprattutto noi, i più collaborativi nel favorire l’avanzata del successo californiano
La rivista economica Bloomerg Businessweek in un articolo dello scorso 25 gennaio (QUI) così titolava: “E’ arrivato il momento dell’olio di oliva americano?”
Se si facesse riferimento ai soli dati produttivi attuali degli Usa, pari a circa 10 mila tonnellate contro, ad esempio, le 1,5 milioni prodotte in Spagna o le 300 mila tonnellate dell’Italia, ci sarebbe da rispondere che, il momento non è ancora arrivato.
Tuttavia la questione non è da porre in questi termini.
La volontà di affermazione americana parte da lontano. Gli Stati Uniti, e in particolare lo Stato della California, vuole ripetere il successo del vino, quando nel lontano 1976, una vendemmia della California fu giudicata superiore a quella dei concorrenti Europei. Quindi Bloomberg sostiene che la stessa cosa potrebbe succedere all’olio di oliva.
Attualmente, infatti, gli Stati Uniti sono il quarto produttore mondiale di vino alle spalle di Francia, Italia e Spagna. Se il loro obiettivo è quello, riusciranno a conseguirlo, anche perché le strategie messe in atto sono molto ben congegnate e nulla è lasciato al caso.
Sul magazine Olive Oil Times, espressione del mercato oleario americano, parlano apertamente della imminente costituzione di una organizzazione rivale del Consiglio Oleicolo Internazionale, complice anche la debolezza mostrata da chi lo governa. A tale organizzazione dovrebbero aderire tutti i Paesi nuovi produttori, tra cui Cile, Argentina, Uruguay, Sud Africa oltre che gli ideatori, Stati Uniti Australia e Nuova Zelanda.
Dopo la rottura con il Consiglio Oleicolo Internazionale da parte di Australiani e Americani che avrebbero voluto introdurre nuovi parametri, ecco che si è giunti al momento cruciale di costituire un nuovo organo internazionale che avrà l’obiettivo di contrastare l’egemonia del Coi, con sede a Madrid, perpetuata da oltre cinquant’anni, come scrive Olive Oil Times.
In buona sostanza, una sorta di rivolta contro la “pseudo nobiltà” in decadimento, rappresentata dal Coi.
Le strategie messe in atto per arrivare a nuovi standard, a far aumentare i prezzi di cessione del prodotto e far entrare gli Usa nell’Olimpo dei Paesi Produttori, perseguendo l’obiettivo della conquista e della espansione del mercato americano, sono ancora in atto, ma c’è ancora molta strada da fare.
Le considerazioni alla base di questa “mission” sono state le seguenti:
a) il mercato americano è il principale mercato di sbocco dell’olio di oliva europeo, al di fuori della Ue e in particolare di quello italiano;
b) il prodotto italiano reale è in forte discesa, per l’assenza di investimenti;
c) l’Italia è leader negli Usa per il prodotto di blending europeo ed extra europeo;
d) i consumi, inoltre, sono ben al di sotto del consumo pro capite di Grecia, Italia e Spagna, pari a 0,8 litri contro i 13 – 14 kg dei Paesi produttori europei;
e) noi abbiamo molta terra da poter destinare alla coltivazione degli ulivi;
f) in Italia c’è un malcontento dei produttori che ha scatenato una guerra contro quelle aziende che sono leader nel nostro mercato. C’è divisione e quindi gli italiani si possono attaccare anche grazie alla collaborazione della nostra “intelligence”.
La cronistoria
Per questo motivo decisero di screditare i prodotti di importazione, ed in particolare quelli italiani, non guardando peraltro ai vari “italian sounding” di matrice americana, e compiendo una serie di passi nell’arco di otto anni. Così nel 2008 venne costituito dall’Università della California a Davis, un centro di ricerca sull’olio, finanziato dalle principali aziende californiane; successivamente, attraverso il giornalista Tom Mueller, che in realtà scrisse negativamente fin dall’agosto del 2007 sul New Yorker (QUI) e più avanti nel libro Extravirginity con la testimonianza di alcuni operatori italiani, strumentalizzati per l’occasione, giacché avevano abboccato perché era loro concessa una qualche forma di visibilità e perché ritenevano di essere dalla parte dei buoni e riconosciuti, anche in seguito, come tali.
Nel 2010 il centro di ricerca UC Davis pubblicò un primo report in base al quale si sostenne che il 69% degli oli di oliva venduti nei supermercati californiani non rispettassero gli standard internazionali cui fecero seguito altri reports; sempre nel 2010 gli Usa modificarono giustamente gli standard qualitativi del 1948 consentiti dalla Fda, che lasciava molte maglie larghe e quindi molte frodi grossolane, seguì il libro di Tom Muller, del 2012, che, nel frattempo, si era guadagnato le simpatie di molte associazioni e di alcuni politici italiani (rimasti poi in imbarazzo di fronte alle dichiarazioni in seguito rilasciate alla Cbs e prima ancora in un tweet, poi cancellato in seguito alle vignette apparse sul Nyt, nel 2014, soprattutto perché coincideva con la presentazione ufficiale del libro in Italia – badate bene: in una saletta del Parlamento italiano!).
Nel 2013 la U.S. International Trade Commission, pubblicò il report sulla competizione tra Stati Uniti e i principali fornitori europei: QUI
Sempre nel 2013, partì dagli Stati Uniti il divieto di importare oli extra vergini di oliva con tracce di clorpirifos etile, pesticida usato per combattere la mosca dell’ulivo in Europa, ma non negli uliveti Usa, pur essendo accettato in altri prodotti agricoli americani.
Nel 2014 il New York Times pubblicò alcune vignette contro l’Italia a firma Nicholas Blechman, a cui fecero seguito i complimenti di Tom Mueller.
Nel 2016 le dure dichiarazioni rese da Tom Mueller, durante la trasmissione “60 minuti”, andata in onda nel 2016 sulla Cbs, in base alle quali molti prodotti italiani, dal formaggio al pomodoro, per finire all’olio extra vergine di oliva, sarebbero intrisi di sangue mafioso: “Mafia che si infiltra dalla produzione, attraverso il forzato reclutamento di manodopera, fino alla distribuzione e quindi nei supermercati”.
Anche dal punto di vista dell’etichettatura, gli Stati Uniti, attraverso una class action, unico Paese al mondo, ha vietato, di fatto, la possibilità di inserire in etichetta frontale la dicitura “Imported from Italy” quando nella retro etichetta l’origine degli oli è diversa da quella italiana (QUI).
La rivista on line Olive Oil Times, per il resto, riprendeva e riprende tutto ciò che accade in Italia o contro l’Italia dell’olio, amplificandone la portata e spingendo l’industria americana dell’olio e californiana innanzitutto, verso l’olimpo della produzione mondiale.
In ultimo, la rivista Forbes, titolava a firma della giornalista Cecilia Rodriguez: It’s reliably reported that 80% of the Italian olive oil on the market is fraudulent, Why Do You Keep Buying It.
Così dal famoso 69% degli oli “fake”, si è passati all’80% fake, e pensare che c’è ancora chi pensa di poter sfruttare commercialmente la situazione a proprio vantaggio, sostenendo di rientrare in quel restante 20%. Alcuni ce la faranno, ma la stragrande maggioranza no.
Nel campo della moda, ad esempio, la crisi l’hanno patita i fasonisti, ossia coloro che lavoravano per conto di grandi imprese che avevano deciso di delocalizzare per motivi di economicità e competitività.
A conti fatti, in chiave prospettica, gli oli italiani saranno relegati a ricoprire piccole nicchie, con perdite di posizioni sia dei grandi che dei piccoli , a vantaggio di altri Paesi, in primis l’America stessa, perdendo non solo la leadership in quel Paese, ma anche peggiorando drasticamente l’economia olivicola-olearia attuale.
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La foto di apertura è di Massimo Occhinegro
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