Economia

Il sottocosto degli extra vergini esiste perché c’è troppa retorica

Non c’è rimedio, se non attraverso azioni mirate. A sostenerlo è un analista di mercato che conosce bene l'olio e le dinamiche dei consumi. Questa patologia del mercato viene analizzata solo con strumenti sbagliati, proprio mentre il settore sta morendo e il prodotto sullo scaffale viene svilito. Mancano i buyer nella Gdo. I vecchi buyer se ne sono andati. I nuovi sono pressati dalla ricerca dei margini sempre più scarsi. C’è poca attenzione al prodotto e soprattutto (molto spesso) i buyer non sono in grado di assumersi il rischio di gestire quel che nell’olio è un “must”, cioè un obbligo, vale a dire la coda lunga, l’assortimento profondo

Daniele Tirelli

Il sottocosto degli extra vergini esiste perché c’è troppa retorica

Daniele Tirelli è analista di mercato e fondatore di Amagi. Con lui abbiamo portato avanti una interessante indagine sui consumi presentata proprio a Olio Officina Festival, due anni fa. Lo studio era stato condotto su un campione di consumatori della Lombardia. Tirelli conosce molto bene le dinamiche dei mercati e proprio a lui abbiamo pensato in questa sessione di Olio Officina Festival 2020, di venerdì 5 febbraio, per affrontare il grande e irrisolto problema del sottocosto che avvilisce un grande prodotto qual è l’olio extra vergine di oliva. A lui, le considerazioni sul tema. Il testo che qui riportiamo non è stato scritto dal professor Daniele Tirelli, ma è la trascrizione fedele di quanto è stato da lui pronunciato a Milano nel corso del festival.

Non è la prima volta che affrontiamo questo tema, anche in questa sede, a Olio Officina Festival. Quindi, partiamo da un concetto molto semplice: noi siamo di fronte a una patologia del mercato.

Partiamo da un concetto logico. Nel senso che in contesto in cui molti prodotti acquistano valore, e là dove il valore è sempre un valore percepito, alcuni prodotti acquistano un valore che molto spesso non è spiegabile sulla base della razionalità. Oggi per esempio si è accennato al sale. Ecco, il sale, al di là del fatto che in quantità eccessive possa fare male. In realtà, il sale è l’esempio di una commodity, cioè di un prodotto banale che è stato oggi rivalutato attraverso delle attività di comunicazione e valorizzazione, soprattutto attraverso una sapiente attività di distribuzione, proprio perché il veicolo più efficace consiste nel portare il prodotto a disposizione del consumatore finale. Per questo oggi il sale si presenta come qualcosa di totalmente nuovo.

Qualcosa di analogo si sta tentando di fare anche con lo zucchero. Perché, sì, lo zucchero ha lo stesso potere dolcificante, ma c’è chi tenta sul mercato – anche all’estero – di qualificarne l’origine, per cui si parla di zucchero che viene dal Malawi, o da altri paesi esteri. Mentre invece, per l’olio extra vergine di oliva la situazione è degenerata e credo anche che peggiorerà ancora, nel tempo.

Ebbene, mi è capitato tra le mani uno studio che feci quando ero molto giovane, quando lavoravo a Bologna per Promotea. Questo studio riguardava l’abbigliamento, con le tendenze in atto dell’import/export del settore, basate sui dati Istat. Erano gli esercizi che si facevano allora, nel 1985/19886. Ricordo che quando si guardavano i dati dell’India, dell’Indocina, c’era un certo sorriso tra gli addetti ai lavori. Si diceva, testualmente: “la qualità dell’abbigliamento italiano non sarà mai erosa da quello che sarà l’import futuro”. Oggi è inutile dire che anche alla luce di quello che sta succedendo, i riflessi che noi avremo dal flusso import-export in questo mercato allargato si avvertiranno in maniera palese. Ecco, la stessa cosa avverrà per l’olio, in quanto le zone potenzialmente vocate alla coltivazione dell’olio, come ha detto il dottor Zefferino Monini, sono tante nel mondo, così come sono tante per il vino, e se noi seguiamo la traccia del vino – che in qualche maniera è il prodotto più vicino all’olio – oggi scopriamo che ci sono degli eccellenti vini che vengono da Cile, Argentina, Paraguay, dall’Australia, e così via, là dove il “Learning by Doing”, cioè l’imparare facendo, porta a risultati lenti ma che poi diventano estremamente pressanti sul settore.

Quindi, questa patologia del mercato va analizzata senza retorica, perché in questo settore si sta morendo di retorica, a mio parere. Si sentono dire tante stupidaggini: andiamo nelle scuole, insegniamo, parliamo, oppure si esalta l’aspetto della sostenibilità. Sì, certo: tutte cose giuste, ma sulla carta. Il marketing è qualcosa di diverso.

Il marketing serve ad ogni prodotto se non vuole perdere valore, perché oggi noi stiamo parlando di qualcosa che è percepito e non di qualcosa che corrisponde alla realtà.

Vi faccio un esempio: se noi seguiamo i canali più avanzati, che sono quelli del biologico, ci rendiamo conto del futuro che verrà. Come si sta verificando in Francia: “Le Grand Paris bio”. Ecco svelato un piccolo segnale, che probabilmente si realizzerà completamente in un decennio, là dove l’olio viene presentato e targhettizzato sulle varie fasce di età. Quindi, c’è l’olio per bambini appena svezzati, l’olio per i bambini un po’ più adulti, l’olio per le persone mature, l’olio pr le persone anziane, l’olio per chi fa attività sportiva; ma non è olio: è un cocktail di olio extra vergine con oli che derivano da altri sei biooleaginosi.

Ora, la visione del settore oleario deve essere una visione globale, perché al di là delle virtù dell’olio d’oliva in quanto tale, esistono numerosi fenomeni che sul piano psicologico comportamentale sono minacce, in quanto anche loro promettono benefici veri o presunti che contrastano con quello che è la lotta per catturare l’attenzione dei consumatori finali, e quindi, se noi partiamo dall’enfasi, dal mito, dal culto attuale, possiamo comprendere che anche l’olio da semi di zucca, o di noci o di altri ancora attraggono. Sono già nella testa di molti consumatori, soprattutto di quelli che hanno più potere di spesa, in quanto sono gli esploratori, quelli che vanno alla ricerca delle soluzioni miracolose per quanto riguarda la salute, e costoro costituiscono un grosso problema, che io individuo con un termine: la “frattalizzazione dei mercati”, ovvero ogni mercato ogni categoria si spezzetta in tante altre alternative, andando sempre di più nel dettaglio, come capita per i biscotti, come capita per ogni prodotto di raro consumo. Quindi, anche in questo settore la segmentazione è il problema e la strategia vincente.

Non c’è rimedio a quello che noi chiamiamo sottocosto, se non attraverso delle azioni mirate che devono essere concertate da tutti gli attori della filiera, e cioè da chi produce, ma soprattutto da chi distribuisce e anche dalle stesse istituzioni che dovrebbero supportare, senza sprecare i soldi, ricerche di mercato serie, dimostrazioni, sperimentazioni nei confronti dei consumatori, in maniera tale da far passare concetti che sono banali, ma efficaci. Ad esempio, l’anno scorso in una nostra indagine mettevamo in luce come la prima distinzione da fare dovrebbe essere quella dell’uso dell’olio in cottura, a caldo, o dell’uso a freddo, così come la capacità di far penetrare determinanti concetti in aree in cui la cultura del consumo non è pronta ad accettare l’olio extra vergine di oliva.

Il fatto di aver fatto un’indagine e scoprire che gli oli vincenti al nord sono quelli liguri, perché sono quelli più delicati, o considerati, con il termine improprio, più dolci e, viceversa, scoprire che gli oli meno amati di certe regioni italiane siano gli oli possenti, come gli oli pugliesi, gli oli sardi, eccetera. Ecco, tutto ciò ci dice che occorre costruire prima di tutto una cultura fra gli operatori, e gli operatori sono di fatto i retailer che gestiscono il mercato di massa, i quali sono in una crisi profonda, perché oggi si parla del tempio dei consumi, l’ipermercato, che sarebbe il luogo dove ospitare una grande varietà di oli, e si parla invece della progressiva diffusione e conquista del terreno da parte dei discount.

Il 2019 è stato l’anno della ascesa dei discount, perché i tre player che sono Eurospin, Lidl, Aldi hanno conquistato spazio ma non solo spazio economico, hanno conquistato spazio mentale, con un riconoscimento di quello che è il rapporto qualità/prezzo che a volte può sorprendere. Quindi, l’unico strumento è la cultura di consumo, che non è la cultura calata dall’alto in maniera elitaria, ma è quella che negli anni ‘30 i primi esperti di marketing, i cosiddetti persuasori occulti, chiamavano “consumer engeenering”, cioè l’ingegneria del consumatore che ha delle tecniche che non possono essere volgarizzate.

Il settore dell’olio di oliva è di fatto dominato oggi dalla frammentazione dei produttori. Il marketing delle grandi aziende, delle multinazionali, non può essere adattato alle centinaia di produttori che fanno alta qualità e che oggi si trovano di fronte alla incapacità perfino di farsi vedere nei circuiti che effettivamente contano, cioè la grande distribuzione, la quale oggi è impreparata perfino a riconoscere e apprezzare la qualità, anche perché quello che dicono molti amici che sono al vertice di queste aziende la situazione non è rosea.

Mancano i buyer. I vecchi buyer se ne sono andati. I nuovi sono pressati dalla ricerca dei margini sempre più scarsi, prestano poca attenzione al prodotto e soprattutto molto spesso non sono in grado di assumersi il rischio di gestire quel che nell’olio è un “must”, cioè un obbligo, vale a dire la coda lunga, cioè un assortimento profondo.

Oggi se confrontiamo la distribuzione americana, potremmo dare una cifra intorno ai 200-250 referenze di oli da olive che si scontrano con il massimo che si raggiunge in Italia, che penso ancora sia dell’Esselunga, che ne referenzia 70-75.

Perché un assortimento profondo? Perché con 200 referenze io posso gestire quello che è la declinazione della regionalità, della qualità, della tipicità e quant’altro. Con 70 referenze, che sono già tante per i distributori nostrani, ovviamente non riesco a disinnescare il meccanismo del sottocosto. Mi fermo qua, poi, ovviamente, le tecniche sono tante e potrebbero essere utili al fine di contrastare quella che dico essere una patologia del mercato, una patologia che nel caso specifico dell’olio non farà altro che peggiorare.

C’è come un mantra che è stato ripetuto diverse volte: le cose sembrano difficili, ma in realtà a volte sembrano banali.

Chiudo con una riflessione. Mi chiedo: avendo assistito a uno spreco di denaro incredibile in vari eventi in Italia, all’estero, per iniziative a sostegno dell’olio, interventi che non hanno prodotto niente, ma solo grandi mangiate, party e quant’altro, mi chiedo se sia possibile che a nessuno sia venuto in mente un’idea banale? MasterChef, una trasmissione che seguo puntualmente da nove edizioni. Avete mai sentito parlare – al di là di tutte elucubrazioni sull’equilibrio, i sapori, le sfumature e quant’altro – di oli monocultivar, che possono essere adattati con questa gelée di pomodoro, con cetriolo eccetera? Ma è così difficile pensare a un product placement, all’interno delle trasmissioni culto che vengono seguite da tanti telespettatori, attraverso cui avvalorare un concetto certo semplice e banale, e cioè che gli oli non sono tutti uguali e che sono importanti quanto lo sono le altre spezie? Perché in queste trasmissioni televisive abbiamo parlato di curcuma, abbiamo parlato di plancton, abbiamo parlato delle cose più esoteriche e non c’è mai stata una menzione riservata all’olio extra vergine di oliva? Riflettiamoci, prima di parlare di sottocosto. Questo è il marketing.

La foto di apertura è di Gianfranco Maggio per Olio Officina Festival

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