Economia

L’ambientalismo? Quando è autolesionistico potrebbe ridurci alla fame

Il modo in cui l’Italia affronta i problemi ambientali è dettato da contraddizioni e incongruenze tra pensieri e azioni concrete. Così, nonostante il nostro Paese disponga di un’elevata quantità di metri cubi di metano in fondo al mare, pari a 90 miliardi, il 95% del fabbisogno di gas viene importato. Un altro forte limite dell’ambientalismo si rispecchia nella definizione di sicurezza alimentare: lo scenario attuale, dettato da conflitti e rincari dei costi delle materie prime, potrebbe incrementare il deficit alimentare sia in Italia, sia in Europa

Alfonso Pascale

L’ambientalismo? Quando è autolesionistico potrebbe ridurci alla fame

Quando si parla dei guasti di un ambientalismo ideologico l’attenzione va immediatamente a tre problemi concreti: i termovalorizzatori, il nucleare e il gas.

Sul primo problema, la situazione è sicuramente farsesca.

Ci sono grandi città come Roma che si rifiutano di costruire un termovalorizzatore per smaltire i propri rifiuti e trasformarli in energia.

Ma poi spendono milioni e milioni di euro per portare, con camion tra l’altro molto inquinanti, i propri rifiuti in altre città italiane in cui i termovalorizzatori funzionano, non inquinano e producono energia.

Per il nucleare la situazione è ancor più tragicomica.

Da decenni l’Italia è contrarissima a questa fonte d’energia. Ma poi non si fa scrupolo di acquistare il 5 % di energia dalla Francia, che la produce con le centrali nucleari.

Il problema del gas è paradossale. Il nostro paese non si preoccupa di sfruttare gli oltre 90 miliardi di metri cubi di metano in fondo al mare italiano che potrebbero arrivare a quota 120-130 miliardi se si considerano le risorse potenziali di gas non ancora accertate. Preferisce, invece, importare il 95 per cento del suo fabbisogno di gas.

Ma c’è un altro problema concreto che un ambientalismo nostalgico e magico ha contribuito a creare e di cui poco si parla.

Vediamo di che si tratta.

Da oltre vent’anni, in Italia e nell’Ue, le biotecnologie vegetali sono bloccate.

Contrapposizioni ideologiche hanno impedito a ricercatori, agronomi e agricoltori di usare uno degli strumenti più promettenti per ottenere produzioni bio.

Si è voluto negare, con una buona dose di malafede e disonestà intellettuale, che la transgenesi è lo strumento più raffinato e sicuro per abbassare la dose di agrofarmaci senza ridurre la produttività delle piante.

E si è voluto stabilire, meccanicisticamente e in modo astratto, un inesistente conflitto tra agricoltura biologica e biotecnologie, attualizzando il vecchio mito russoviano che vuole contrapposti il naturale e l’artificiale.

Su questo assunto, del tutto falso sul piano scientifico, è stato assegnato alla transizione ecologica dell’agricoltura un obiettivo sbagliato e controproducente: ridurre l’uso di agrofarmaci del 50%, di fertilizzanti del 20%, di antimicrobici negli allevamenti e in acquacoltura del 50%, anziché mediante le pratiche agricole conservative e inclusive e le innovazioni tecnologiche, come due facce della stessa medaglia, attraverso l’aumento delle superfici dell’agricoltura biologica dall’attuale 7,5% al 25%.

Ma un’agricoltura biologica idealizzata come “agricoltura di una volta” e, dunque, incompatibile con il biotecnologico, sia nella tradizionale modalità transgenica sia in quella più recente dell’editing del genoma.

Un’agricoltura destinata inesorabilmente a indebolirsi sul piano produttivo e imprenditoriale, come esito di un’estensivizzazione forzata dall’alto.

E tale scenario, già disastroso di per sé, si viene ora a connotare di risvolti raccapriccianti se si guardano le ultime vicende mondiali.

Siamo, infatti, in presenza di un forte aumento dei prezzi dei cereali che potrebbe sfociare in una crisi alimentare di proporzioni gigantesche.

Le truppe russe potrebbero invadere l’Ucraina che non è uno staterello irrilevante.

L’Ucraina è il primo paese europeo per superficie a seminativo, si colloca al terzo posto come esportatore di grano a livello mondiale.

L’Italia è, invece, un paese deficitario ed importa il 64% del proprio fabbisogno di grano.

Un eventuale conflitto bellico farebbe lievitare enormemente i prezzi di questo prodotto e, in generale, di tutti i seminativi.

C’è, inoltre, un ulteriore elemento da valutare.

Il 24 gennaio scorso, il ministero dell’agricoltura cinese ha pubblicato le linee guida preliminari per l’uso di colture geneticamente modificate.

La Cina si appresterebbe a “promuovere la ricerca su varietà più gustose, resistenti ai parassiti e meglio adattate a un mondo in surriscaldamento”, come scrive Smriti Mallapaty su Nature dell’11 febbraio 2022.

Nel frattempo, il governo di Pechino, entro la prima metà dell’annata agraria 2022, potrebbe far incetta del 51% di tutto il grano prodotto sul pianeta.

E se non si avvieranno immediatamente negoziati multilaterali per trovare soluzioni condivise ai conflitti commerciali, non è da escludere che lo spettro delle carestie potrebbe aggirarsi anche nei nostri paesi ricchi.

L’Ue, ormai da tempo, ha di fatto smesso di costituire scorte strategiche delle principali derrate per garantire la catena dei rifornimenti alimentari.

Basta scorrere gli obiettivi del cosiddetto “piano di emergenza per l’approvvigionamento e la sicurezza alimentare in tempi di crisi”, adottato dalla Commissione Ue nel novembre scorso, per rendersi conto che non si fa alcun cenno alla costituzione di scorte strategiche.

Alla sicurezza alimentare non viene più dato il significato di disponibilità certa di cibo ma esclusivamente quello di riduzione delle tracce, peraltro valutate innocue (Ref Efsa), dei fitofarmaci.

E non si considera che la rinuncia all’impiego delle tecnologie nell’agricoltura e negli allevamenti incrementerebbe drammaticamente il deficit alimentare in Italia e in Europa, oltre a impedire l’aumento produttivo necessario nei Paesi a basso reddito.

Sui gravi rischi che si profilano all’orizzonte non c’è alcun dibattitto sia nelle istituzioni sia nella società civile.

Non è stato facile convincere la stragrande maggioranza dei deputati che occorresse non inserire in una legge dello Stato una forma surrettizia di legittimazione dell’agricoltura biodinamica.

Si è trattato di una piccola grande battaglia politico-culturale che ha visto protagonisti alcuni parlamentari particolarmente sensibili, come Riccardo Magi; ampi settori della comunità scientifica, a partire da Elena Cattaneo e Giorgio Parisi; e pochissime testate giornalistiche, dal quotidiano Il Foglio al magazine Olio Officina.

Determinante è stato il segnale di attenzione al problema lanciato dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico all’Università La Sapienza.

Ora bisogna fare in modo che il successo si consolidi al Senato, chiarendo in modo inequivocabile che nemmeno un euro di natura pubblica dovrà essere sprecato in ricerche che riguardino il biodinamico.

Ma, al di là di questo aspetto indubbiamente minore sul piano pratico, benché enormemente importante sul piano dei principi (la stregoneria non può essere riconosciuta in una legge), c’è una follia autolesionistica più estesa che da tempo aleggia in Italia e nell’Ue e che andrebbe fermata.

In apertura, foto di Olio Officina©

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