Economia

L’olio non convenzionale

Il buono racchiuso nel bello. Perché anche il mondo dell’olio, quando vuole, dimostra di essere fuori dagli schemi. Non tutti ci riescono, per la verità. Infatti, sono rari i casi di successo. Ne è una dimostrazione concreta la Casa Olearia Taggiasca, che nel 2020 festeggerà 25 anni di attività. Lo farà a partire da un libro, 15 chef fuori posto, edito da Mondadori; e noi abbiamo curiosato indagando questo ammirevole caso aziendale, con l’intervista a Marco Bonaldo

Luigi Caricato

L’olio non convenzionale

Si può fare impresa senza essere uguali alle altre aziende, assumendo un atteggiamento radicalmente discontinuo rispetto alle consuetudini. Così, in quest’ordine di idee, per festeggiare un venticinquennale si è messa in campo perfino l’ironia. Quando occorre, scegliere una strada alternativa aiuta sempre.

Intanto le date: 1995/2020. In questo arco di tempo è stato compiuto un percorso completamente inedito da parte della società ligure Casa Olearia Taggiasca, che ha scelto la cultura adottando un taglio estremamente insolito, dando luogo a un libro che Marco Bonaldo ha scritto a quattro mani con Alessandro Maria Ferreri. Si intitola 15 chef fuori posto ed è edito da Mondadori.

Marco Bonaldo è tra coloro che ha ricevuto non a caso il Premio Olio Officina Cultura dell’Olio, a dimostrazione di una progettualità ben congegnata.

“Chi mi conosce – ammette Bonaldo – sa che da sempre cerco di pormi lontano dagli schemi e dai luoghi comuni”.

Ecco allora un’idea originale che l’imprenditore ligure aveva da tempo, e cioè pensare in quale modo un grande chef organizza un pranzo o una cena nel suo privato.

Il libro si propone di raccontare in modo irriverente un mondo che è stato sempre letto in chiave troppo seriosa.

Non è un caso che nella stesura del volume gli autori abbiano chiesto agli chef di abbandonare i propri panni abituali per vestire quelli personali. Ma del libro non vogliamo anticipare molto, qui, anche perché sarà recensito sul prossimo numero del mensile Oliocentricoa novembre.

INTERVISTA A MARCO BONALDO

Bonaldo, si prospetta una festa importante il prossimo anno…

Sì, è così. Dopo tanti anni, è giunto il tempo di riflettere su quanto abbiamo svolto finora. E posso dire che siamo decisamente orgogliosi. Abbiamo ricevuto tanticomplimenti e ciò sicuramente ci sprona a continuare ulteriormente nel percorso che abbiamo intrapreso.

Com’era venticinque anni fa lo scenario in cui vi muovevate?

Estremamente complesso e problematico, ma noi abbiamo compiuto senza esitazioni le scelte che ritenevamo essere allora le migliori e le più opportune. Si doveva necessariamente uscire fuori dagli schemi comuni, soprattutto rispetto a un settore, quello in cui avevamo deciso di operare, poco incline al cambiamento. Alla fine, questo nostro atteggiamento ha fatto la differenza.

Tutti parlano di tradizione pensando a qualcosa di immobile, ma la tradizione ha bisogno di essere svecchiata. Voi lo avete fatto in maniera decisa, senza mai rinnegare il passato…

Esattamente. Proprio così. Quando iniziammo la nostra impresa fu una autentica scommessa. Non era facile. Il settore oleario era estremamente tradizionale e rifuggiva da ogni benché minima idea di cambiamento, soprattutto sul fronte del packaging. Noi abbiamo sposato l’idea che tutto dovese avvenire in una ottica differente e decisamente discontinua.

Marco Bonaldo ritratto da Settimio Benedusi

In questo vostro approccio la cultura è al primo posto…

Sì, la cultura e l’unica leva per giungere a una economia più appagante. La percezione che si aveva quando ho esordito da imprenditore era completamente diversa: non esistevano le Dop, non vi era alcuna conoscenza del prodotto olio extra vergine di oliva. Il consumatore si limitava ad acquistare e a consumare. Molti però non riuscivano nemmeno a distinguere tra olio di oliva ed extra vergine. L’olio era genericamente l’olio, un condimento quotidiano di cui servirsi senza far troppo caso a cosa si comprava.

Quando avete iniziato nel 1995 lo avete fatto inizialmente con il marchio Terre Bormane, poi, in un momento successivo, con Galateo & friends. Come siete stati accolti?

Abbiamo stupito i nostri interlocutori. Ci siamo presentati in tanti modi: con una bottiglia fasciata in carta velina, o con una bottiglia satinata, o con una bottiglia verniciata, o con una etichetta stampata sulla bottiglia, o con bottiglie di porcellana, o con etichette in foglia di argento, o con molto altro ancora…

Insomma, avete spiazzato un po’ tutti…

Si, è vero: con questo nostro approccio il mercato si è trovato spiazzato. Proprio così. Piacevamo, ma in realtà non si è immediatamente compreso il nostro modo di innovare. Le nostre proposte apparivano forse anche ardite, ma resta il fatto che abbiamo dovuto affrontare non pochi problemi prima di imporci all’attenzione generale. Non era facile, anche perché il consumatore non era ancora pronto.

Il packaging l’avete rivoluzionato voi…

Posso dire che le nostre modalità di concepire il packaging oggi sono in parte comuni e ormai acquisite da molti. Si accettano, ma venticinque anni fa le nostre proposte non erano affatto comprese e nemmeno accettate. Abbiamo fatto un percorso consapevole e coraggioso, ne siamo fieri. Nessuno aveva mai provato a realizzare scelte così radicali, e su questo aspetto siamo stati senza dubbio dei veri precursori.

Essere stati antesignani vi ha favorito?

A distanza di tempo sì, ma come sempre accade per tutti quelli che fanno da apripista, posso dire che abbiamo anche accolto non solo gli onori, ma anche sopportato tutti gli oneri dei nuovi progetti, facendo un po’ da “cavie” nelle varie sperimentazioni.

Problemi tecnici da risolvere, per esempio. È così?

Sì, le bottiglie verniciate si scheggiavano. Quelle satinate si rigavano. Quelle porcellanate si rompevano…

Il peso dell’innovazione grava sempre su chi ha il coraggio di osare…

Esatto. Tuttavia, nel corso degli anni le modalità di realizzazione siamo riusciti sempre ad affinarle, e questo anche grazie a fornitori che definisco illuminati, che hanno creduto in noi, in queste nostre idee, e siamo riusciti a ottenere produzioni di grande pregio, riconosciute ormai da un pubblico internazionale molto esigente, che pretende giustamente manufatti impeccabili.

Cosa c’è alla base della vostra visione?

Intanto la bontà della nostra produzione di olio da olive Taggiasca, ma soprattutto vi è l’idea di “nobilitare” l’olio e di concedergli una nuova chance. Abbiamo fatto tutto ciò puntando su un bell’abbigliaggio, su una presentazione accattivante, sul valore dell’eleganza, su un appealing che all’epoca solo alcuni distillati avevano. Per noi vale un concetto che da sempre contraddistingue la nostra mission: il buono racchiuso nel bello.

Possiamo dire che con voi l’olio diventa quasi unarappresentazione grafica, un prodotto alimentare di alto design…

Grazie. Effettivamente sì, per noi l’olio si apre a nuovi sguardi. Si entra nella sfera del design. Abbiamo cercato in tutti questi anni di coinvolgere chef, artisti, architetti, designer, creativi e perfino influencer. Abbiamo cercato di realizzare con il nostro lavoro delle vere e proprie contaminazioni con l’intento di creare quelle che abbiamo chiamato signatures,temporary collectionso capsule “su misura”, allo scopo di avvicinare il nostro prodotto ad altri mondi, ad altri settori, ad altri ambienti. Abbiamo puntato a partneship, per non essere soli, per non sentirci soli in questo percorso. L ’olio per noi diventa un veicolo per comunicare anche dei contenuti, delle storie, e promuovere di fatto l’olio come prodotto d’uso quotidiano ma sempre inteso come bene prezioso.

L’Italia e l’estero, dove avete avuto maggiore sostegno?

Chi ha creduto nel nostro progetto lo ha fatto convintamente. Il fatto di rivolgerci principalmente ai mercati esteri è stato per noi provvidenziale, anche perché da sempre sono stati all’estero più ricettivi, e direi pure open minded, verso progetti innovativi come i nostri.

Con questo approccio siete entrati di diritto nel canale del luxury…

Quello che per noi è stato fondamentale è l’aver costruito negli anni una percezione “luxury” del nostro brand. Il mercato del luxury desidera un marchio “must have”, che si trovi nei posti giusti, con una immagine giusta e un concept adeguato, abbinato a elementi non food; e anche in questo caso siamo stati i primi a farlo con alcune collezioni tableware. Ecco, questo è stato il nostro lavoro, costruito a poco a poco, e che, nel corso degli anni, ci ha posizionato quale azienda di nicchia super premium.

Tutto questo è avvenuto quando era ancora inimmaginabilepensare l’olio in uno scenario così fashion…

Sì, è avvenuto quando ancora gli chef erano cuochi e gli hotel non erano ancora gestiti dal mondo del fashion: Bulgari, Versace, Dsquared, Armani, Fendi e molti altri. Noi avevamo già coltivato questi settori, ancora poco esplorati dai nostri concorrenti. È successo, dunque, che nel momento della loro massima esplosione, i nostri marchi si erano già costruiti una propria credibilità nel food service stellato, nella hotellerie di lusso e persino nel fashion. Sono nate da qui le nostre collaborazioni con grandi chef e con grandi catene alberghiere che ci hanno consentito di farci conoscere e apprezzare un po’ in tutto il mondo.

In apertura foto tratta dal volume 15 chef fuori posto, edito da Mondadori. Nel corpo dell’articolo, l’immagine della copertina del libro, e il ritratto di Marco Bonaldo a firma di Settimio Benedusi

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