Economia

La fabbrica delle Dop

Può apparire paradossale, ma, di fatto, a volte si scade nel grottesco. Ci sono tante Dop fantasma, nel comparto oleario italiano. Denominazione di origine protetta sprovviste addirittura di un consorzio di tutela, ovvero di quell'organismo così fondamentale in quanto attraverso di esso è possibile mettere in atto le giuste dinamiche in modo da rendere pienamente operative e di successo tutte le attestazioni di origine. Si tratta di oli a marchio Dop che, oltretutto, vengono ogni volta citate nel lungo elenco di quelle riconosciute, legittimate a pieno titolo, ufficializzate, ma, poi, completamente assenti sul mercato. E il bello è che nessuno ci fa caso o si scandalizza

Luigi Caricato

La fabbrica delle Dop

Sono tante le parole che vengono pronunciate o scritte in merito alle attestazioni Dop e Igp per gli oli extra vergini di oliva, ma sono solo parole, nient’altro che parole. Concretamente: aria fritta. Noi crediamo fortemente nelle attestazioni di origine, ma non sembra che tutti le abbiano davvero a cuore. Abbiamo dedicato il numero 18 della rivista in edizione cartacea OOF Magazine proprio alle Indicazioni geografiche e qui di seguito riportiamo integralmente l’editoriale del n ostro direttore Luigi Caricato. Ciò che stupisce, è l’indifferenza, l’assenza di dibattito, ma forse, visto lo stato in cui versa il comparto, non c’è proprio nulla di cui stupirsi: è ordinaria amministrazione. È possibile avere il numero 18 di OOF Magazine, cliccando QUI. Buona lettura.

Quando penso alle attestazioni di origine, penso a qualcosa di magnifico, di bello, fantastico e sensazionale. Prestare attenzione al proprio territorio è fondamentale, farlo attraverso un istituto giuridico che attesti ufficialmente l’origine, certificandola, mi sembra lo strumento perfetto, nonché la soluzione ideale per dare riconoscibilità, valore e prestigio alle produzioni territoriali.

Tante di queste attestazioni di origine, tuttavia, pur essendo un’occasione di vanto e motivo di orgoglio per chi le ha proposte e ottenute, peraltro dopo un lungo iter per conseguire il riconoscimento, rappresentano spesso un corpo vuoto, solo un nome che vaga nell’indefinito e nulla più.

Vi sono addirittura Dop fantasma, sprovviste di un consorzio di tutela che crei le giuste dinamiche per renderle pienamente operative e di successo. Dop, oltretutto, che vengono ogni volta citate nel lungo elenco di quelle riconosciute, legittimate a pieno titolo, ufficializzate, ma poi, di fatto, completamente assenti dalla scena. Perché a volte, già solo trovare una sola bottiglia di alcune di queste Dop fantasma sugli scaffali diventa un’impresa ardua, se non impossibile. Tutto questo darsi da fare per non concretizzare nulla, appare così sbalorditivo, così assurdo, così grottesco, che a volte ci si chiede a cosa serva mettere in piedi una Dop se poi non ci si cura di farla crescere, ancor prima di farla sopravvivere. E così, accade che vi siano Dop esibite sulla carta ma non sugli scaffali dei punti vendita.

La fabbrica delle Dop è una fabbrica che ha funzionato a meraviglia quando si è trattato di istituire di nuove Indicazioni geografiche, ma poi, a distanza di tempo, ci si è accorti invece che qualcosa non è andato per il verso giusto. I numeri come sempre non perdonano e non lasciano spazio a equivoci. Il rapporto presentato da Ismea nell’aprile 2024 ci fa comprendere lo stato della realtà in tutta la sua evidenza: disponiamo di 42 Dop e 8 Igp, che, insieme, fanno in tutto 50 attestazioni di origine per la categoria merceologica olio extra vergine di oliva.

Esaminando però il peso effettivo di queste Indicazioni geografiche, si scopre che tutto fa perno su quattro denominazioni, le quali, complessivamente, rappresentano il 74% della produzione totale degli oli a marchio di origine certificato. In tutto sono tre regioni a imporsi sul mercato: la Puglia con la Dop Terra di Bari (37%), la Toscana con l’Igp Toscano (14%) e la Sicilia con l’Igp Sicilia (12%) e la Dop Val di Mazara (11%). Per il resto, al di là delle microaree produttive virtuose, con buone performance di mercato, come nel caso della Dop Garda e della Dop Riviera Ligure, il cui unico limite è costituito solo dalle ridotte superfici olivetate, vi sono per contro areali con vasti oliveti che potenzialmente potrebbero avere tante chance ma le cui produzioni non vengono in alcun modo valorizzate. Sta dunque qui il grande e irrisolto paradosso delle Indicazioni geografiche: sono tante, forse troppe, quelle riconosciute, poche, invece, quelle realmente efficaci e vincenti sul mercato.

Alcune Dop partono svantaggiate già per il nome, inadatto a essere compreso e associato al territorio, anche perché molto spesso richiamano contesti e luoghi di un passato lontano, tanto lontano e distante dal presente da non essere nemmeno del tutto compreso e interiorizzato dagli stessi soggetti presenti in loco.

Altre Dop faticano invece perché sprovviste di Consorzio di tutela, altre perché non ci sono olivicoltori, frantoiani e confezionatori interessati a certificare l’origine e a proporla sul mercato. Alcune Dop sono affidate a direttori e presidenti dormienti, alcuni dei quali pur essendo operatori del settore nemmeno danno il buon esempio certificando loro per primi l’olio che producono. Vi sono inoltre consorzi di tutela che per battaglie intestine ed esacerbanti diatribe di potere non esistono più proprio per via dello scontro feroce e senza esclusione di colpi tra le varie organizzazioni di categoria nel tentare di avere il pieno controllo del consiglio di amministrazione.

E poi ci sono a volte Comitati di assaggio professionale dediti alla valutazione sensoriale degli extra vergini in attesa di certificazione così severi da arrivare al punto di confondere gli oli destinati al commercio, e dunque al consumo corrente, con gli extra vergini in gara in concorsi in cui si selezionano solo oli di assoluta eccellenza (perché l’olio di media qualità non fa molto chic).

E poi, non dimentichiamo, c’è pure il fatto che il territorio stesso rifugga in molti casi, e talvolta con ostinazione, dagli oli certificati, considerandoli prodotti alieni da avversare – provate a fare un giro per ristoranti, alberghi e bar per verificare se dispongano di oli Dop e Igp. Gli stessi consumatori prediligono un generico extra vergine, puntando a prezzo più basso e solo in apparenza più conveniente. Che piaccia o meno, la realtà è questa.

Se poi aggiungiamo anche l’eccesso di burocrazia, i costi di certificazione, lo scarso appeal di tali oli sul mercato, la complessità di gestione delle attestazioni di origine è tale da far desistere in molti. Eppure il valore delle Indicazioni geografiche è immenso. Non comprenderlo è così illogico e incongruente. Forse è mancato, nei trent’anni e più dalla pubblicazione del Regolamento del Consiglio delle Comunità europee, il numero 2081/92, la consapevolezza di quanto sia importante tale strumento per farne comprendere il senso profondo. Certo è che da un lato vi sono soggetti virtuosi che faticano a ottenere il riconoscimento, e invece sarebbero da favorire nel tortuoso iter proprio perché ben disposti a crederci e altrettanto determinati nell’ottenere il riconoscimento secondo un atteggiamento diverso e discontinuo rispetto al passato – e chissà se la nuova riforma delle IG consentirà per davvero un cambio di passo. A fare la differenza, come sempre, sono le persone.

Fin quando non si libereranno le IG dal predominio delle organizzazioni sindacali che si frappongono al solo scopo di esercitare e gestire un potere, e soprattutto di intercettare finanziamenti pubblici, le Dop e le Igp dell’olio non decolleranno mai. Tutto dipende dalla qualità, anche morale oltre che professionale delle persone, e dal gruppo di soggetti cui si dà l’occasione e la concreta possibilità di occuparsene.

I casi virtuosi ci sono e sono emblematici. Un  esempio edificante che mi sembra giusto citare lo trovo nell’operato della sindaca di Cavaion Veronese Sabrina Tramonte, che non solo ospita in una propria struttura dotata di oliveto la sede del Consorzio dell’olio Dop Garda, ma a sua volta è socia del Consorzio e certifica pure gli oli che ricava dagli olivi di proprietà comunale, dando così plastica dimostrazione di quanto anche le Istituzioni locali possano credere fattivamente nelle attestazioni di origine, attivandosi in prima persona.

Altro esempio da seguire, in questo caso un imprenditore di Castel San Pietro Terme, alle porte di Bologna, Carlo Gherardi, fondatore di Palazzo di Varignana, il quale con Agrivar, una grande azienda agricola, moderna ed efficiente, espressione di molteplici identità e di un nuovo modello economico e sociale, ha saputo valorizzare sia il settore agricolo, sia quello dell’ospitalità, tutelando nel contempo il paesaggio ne riponendo la massima attenzione alle risorse umane e naturali del territorio. E così, proprio sui colli bolognesi, oggi, dopo secoli di abbandono, è stato possibile avviare una vera e propria olivicoltura, non più realtà marginale, ma coltivazione di primaria importanza, nello stupore generale, anche perché in pochi potevano scommettere sulla pianta dell’olivo in modo così determinato e tenace, piantando migliaia di olivi su centinaia di ettari, solo qualche anno fa impensabili in un territorio alle porte di Bologna. Eppure la determinazione è stata tale da puntare perfino alla richiesta di una Igp Colli di Bologna, avvalendosi del supporto scientifico dell’Università di Bologna e dell’Università di Firenze. Fin qui tutto bene, tranne il fatto che si sono mosse delle azioni di contrasto pur impedire il raggiungimento dello scopo. Qualcuno si è affacciato all’orizzonte cercando di imporre un’altra Igp, a nome Emilia-Romagna, così da escludere quella denominata Colli di Bologna, cui si sta lavorando alacremente.

L’obiettivo dell’Indicazione geografica protetta per l’olio extra vergine di oliva prodotto nell’area che comprende la provincia di Bologna fino ai colli Imolesi, a sud della via Emilia, unisce una rete di imprese che si riconosce nell’olio felsineo, perdere questa opportunità per creare una Igp inutile come quella che contrappone una nota associazione di categoria non è la soluzione migliore per far decollare il sistema delle IG. In questo caso le pubbliche Istituzioni dovrebbero cogliere le opportunità provenienti dai territori e non lasciarsi sedurre dalle sirene di certi organismi di potere che ovunque entrano fanno terra bruciata. Ci vuole un’etica anche nell’ambito delle attestazioni di origine, se veramente si vorrà far qualcosa di concreto a tutela delle produzioni territoriali.

Chiudo con un ultimo esempio. In Piemonte e Valle d’Aosta sta rinascendo una olivicoltura che era scomparsa da secoli, e anche in questo caso sarebbe auspicabile che a occuparsi di una possibile quanto auspicabile Dop o Igp siano soggetti reali, imprenditori che operano nel territorio con scienza e coscienza, slegati da gruppi predatori. È ammirevole, al riguardo, l’operato del Consorzio per la tutela dell’olio extra vergine di oliva Piemonte e Valle d’Aosta: tanti piccoli passi, si sa, possono compiere il grande miracolo di restituire alle IG lo spirito originario con le quali sono state concepite: valorizzare le produzioni territoriali, non far diventare terra di conquista ogni minimo spazio di potere.

In apertura, un particolare della illustrazione di Doriano Strologo per OOF Magazine numero 18

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