Nani o bambini? Dop e Igp dell’olio a un quarto di secolo dalla loro comparsa
Volgendo lo sguardo tra passato, presente e futuro, le indicazioni geografiche olearie non hanno mai trovato terreno fertile tra i consumatori. Poco è stato fatto per favorire la diffusione di una cultura della differenziazione. Tante le criticità irrisolte. Presentiamo l'analisi del direttore di Ceq, Consorzio extra vergine di qualità, e Unifol, Unione italiana famiglie olearie
Mauro Meloni
Nani o bambini? È la domanda che ci si pose alla conferenza di presentazione del primo studio sulle nascenti IG dell’olio di oliva. Due prospettive diametralmente opposte che si sarebbero potute presentare all’orizzonte. Non era ancora iniziato il millennio quando, nella splendida cornice del parlamentino del Ministero dell’Agricoltura, si tenne la prima conferenza per discutere i risultati di uno studio condotto dall’osservatorio economico di Unaprol sulle prospettive delle nascenti Dop olivicole.
A distanza di un quarto di secolo, rileggendo la pubblicazione, non sono poche le considerazioni che hanno avuto riscontro. L’olio extra vergine di oliva potenzialmente certificabile, solo nelle aree Dop oggetto dell’indagine (Canino, Terra di Bari, Terra d’Otranto, Riviera Ligure, Lametia e Terre Tarentine), era stato stimato in 50 mila tonnellate, equivalente a un terzo della produzione complessiva del territorio preso in esame. Se ci soffermassimo ai 13,5 mila tonnellate di oli IG complessivamente certificati nel 2022, (con i riconoscimenti arrivati a quota 50), dovremmo parlare di totale fallimento, almeno sul piano numerico.
La frammentazione della produzione, l’incapacità delle numerose e minuscole unità produttive a rispettare i requisiti e i controlli, la difficoltà di organizzare le vendite, l’obbligo imposto per alcune dop di rispettare le menzioni geografiche aggiuntive, frazionando ulteriormente il territorio, la ridotta possibilità in molte aree di assicurare una massa critica, l’utilizzo di nomi di riferimenti geografici e territori sconosciuti, l’esistenza di un diffuso autoconsumo e mercato locale che non aveva necessità di una certificazione terza, nonché l’impatto dei parametri qualitativi restrittivi sulle produzioni dell’area, sono solo alcune delle criticità chiare già all’epoca, che hanno ragionevolmente compromesso lo sviluppo del comparto.
Le Dop non hanno mai trovato terreno fertile tra i consumatori, perché poco è stato fatto per favorire la diffusione di una cultura della differenziazione, sia essa intesa come caratteristiche distintive delle diverse varietà che come funzioni d’uso più articolate e sofisticate, alternative rispetto all’uso tradizionale come condimento generalizzato.
L’industria nazionale non era preparata ad un cambiamento di passo così radicale per abbandonare la logica che l’aveva guidata sin dai suoi primi passi, connotata dall’abilità di selezionare masse di olio di oliva all’interno del bacino del mediterraneo per proporre proprie “ricette” standardizzate a prezzi competitivi. Si sarebbe trattato di rinunciare a quella flessibilità nella selezione delle masse che la gestione di piccole partite localizzate non avrebbe più consentito. Un salto nel buio. Troppi vincoli, soprattutto strutturali dal lato dell’offerta, deponevano sfavorevolmente per questo cambio di passo che di fatto non è mai avvenuto. Già all’epoca, nel rapporto, si segnalava tra gli elementi disincentivanti l’ingresso delle marche nazionali nel segmento, la difficoltà di garantire una minima completezza di gamma, la mancanza di un vocabolario descrittivo del prodotto che fosse acquisito dai consumatori; le varietà erano sconosciute, le caratteristiche sensoriali poco utilizzabili, le curiosità tecnologiche inesistenti. Inoltre, difficoltoso appariva per molti operatori intervistati all’epoca, utilizzare la Dop per costruire un vantaggio competitivo rispetto ad un concorrente di un’altra Dop e in larga parte mancava tra di loro una cultura di campo, in quanto le aziende di marca erano storicamente poco integrate a monte e non disponevano di competenze interne da dedicarvi.
Le premesse non potevano far sperare per uno sviluppo numerico elevato, come difatti è avvenuto, ma forse è stato addirittura inferiore alle più prudenziali aspettative per diverse ragioni.
Riflettendo ex-post, qualche conclusione potrebbe essere tratta. In primis, il ruolo differenziato dell’origine. L’origine può essere un valore oggettivo per un prodotto quando identifica un territorio al quale i consumatori riconoscono un plus qualitativo rispetto ad altri, o comunque quando gli riconoscono un legame con i caratteri distintivi di valore per quel prodotto. In assenza di tali presupposti, l’origine è un’informazione generica che può assumere valore solo in maniera soggettiva. E non pochi sono i casi in cui può funzionare esattamente al contrario, certificando una reputazione negativa. Fermo restando che informare i consumatori sulla provenienza di un prodotto è un valore imprescindibile, quello che ci interessa qui è piuttosto se e in quali condizioni questa informazione potrebbe creare un valore aggiunto.
Nel caso delle Dop/Igp, se ci riferiamo alla qualità/tipicità del prodotto, non tutte le origini potevano fare leva sulla buona reputazione del proprio territorio. A parità di condizioni, la differenza di reputazione spiega parte della differenza di successo tra le Dop. Qualità e tipicità non sono sempre state distinte e comunicate con chiarezza e l’ossessione di restringere la griglia dei parametri in alcuni territori ha finito per limitare le adesioni al disciplinare. Comprensibile l’ambizione di premere per certificare gli extra vergini di qualità del territorio, ma per contro la tipicità non sempre era in linea con la qualità imposta dal disciplinare.
I nomi utilizzati per indicare le dop non sempre sono stati una scelta felice. Alcuni di questi nomi erano sconosciuti appena fuori dall’area di produzione e in coincidenza di una limitata disponibilità di prodotto da certificare, che è il caso più frequente, l’affermazione del marchio avrebbe richiesto un impegno in comunicazione proibitivo. D’altronde, se si considera che ad oggi le prime 4 indicazioni geografiche rappresentano il 75% dei volumi complessivi certificati appare evidente l’eterogeneità del valore e dell’impatto dello strumento sul settore, a seconda dei casi.
Un caso emblematico è stato il successo dell’Igp Toscano, dove in presenza di un nome particolarmente noto e suggestivo, lo sviluppo commerciale ha avuto gioco facile nell’attrarre aziende e consumatori, con l’unico limite dato dalla disponibilità di prodotto.
Altro elemento che ha offerto un impulso molto limitato rispetto alle sue potenzialità è stata la componente sensoriale, sia nella fase descrittiva del disciplinare, dove i testi non riescono mai ad andare oltre un bagaglio lessicale ripetitivo e superficiale e dove ancor peggio non riescono a differenziarsi sufficientemente tra loro e sia nella fase di valutazione da parte delle commissioni di assaggio dove – vuoi per una normativa penalizzante sulla libertà descrittiva, vuoi per una formazione dei panelisti troppo ancorata ai difetti e vuoi per un ritardo nella ricerca di metodi e strumentazione scientifica di supporto – non si è creato quel volano emozionale necessario per cambiare il terreno di gioco del segmento rispetto al resto della categoria.
Un altro aspetto critico è connesso alla stessa garanzia Dop/Igp che in teoria, attraverso il riconoscimento del bollino, dovrebbe acquisire valore soprattutto per le vendite dirette fuori dal territorio, dove invece, la vicinanza al luogo di produzione, la tradizione familiare di approvvigionarsi dal frantoio locale, la diretta conoscenza del produttore, rendono superflui la garanzia della certificazione e i relativi costi che questa comporta. La conseguenza è che in molti territori di produzione Dop, dove l’offerta non può contare su volumi, expertise e dimensioni delle imprese sufficienti per giustificare un’attività commerciale organizzata, le certificazioni Dop/Igp hanno avuto difficoltà a incrociare gli interessi dei consumatori e di conseguenza degli operatori. Probabilmente il ricorso crescente al commercio online potrebbe cambiare in positivo taluni assetti e la prospettiva di crescita di alcune realtà marginali, fermo restando l’esigenza di disporre di competenze digitali e risorse per la promozione.
Sul piano dell’attrattività del segmento, già all’epoca appariva probabile, come poi è stato che alcune IG, in particolare quelle dove alcune variabili del marketing-mix erano più robuste, avrebbero potuto avere maggiori opportunità di trovare posto nei portafogli delle marche nazionali e soprattutto delle marche delle insegne. Per queste ultime in particolare, quando nella loro fase di maturità, oltre alla convenienza, puntano a rafforzare la fedeltà all’insegna, alcune IG sono diventate funzionali allo sviluppo dei negozi.
Anche se lentamente, la cultura intorno al prodotto continua fortunatamente a crescere. Negli ultimi anni sono cresciuti gli oli monovarietali, che hanno dato un’identità alle cultivar, sono cresciuti gli oli biologici, quelli made in Italy anche di alta qualità, gli oli sostenibili e quelli diversamente certificati, per non parlare delle innovazioni di processo e prodotto, che hanno introdotto anche nuovi materiali e forme nelle confezioni. Tutto ciò sta avvenendo in un clima di rinnovato interesse anche del mondo dei confezionatori agli investimenti agricoli, con un’ottica imprenditoriale e spesso in territori Dop/Igp, per non parlare della positiva recente comparsa delle nuove Igp, con le quali si è cercato di porre rimedio all’eccessiva frammentazione di talune Dop.
Si tratta in tutti i casi di tendenze innovative che affiancano il lavoro di differenziazione dell’extra vergine e segmentazione dei consumatori avviato a suo tempo dalle Dop e Igp. A loro spetta il merito di avere picconato per primi il monolite dell’extra vergine avviando quel processo di differenziazione che è alla base della costruzione del valore, tant’è che i loro prezzi medi di mercato doppiano quelli medi della categoria, anche se per alcune IG i prezzi non si discostano molto dall’extra vergine convenzionale, almeno non tanto da incentivarne la crescita.
In altre parole, anche se disomogeneo tra i territori e sotto le attese in termini numerici, il contributo delle IG per un cambio di passo della percezione del consumatore dell’enorme variabilità sensoriale dell’extra vergine e del vasto mondo culturale che racchiude e che esprime è stato ed è tuttora insostituibile.
Questo articolo è stato pubblicato sul numero 18 della rivista in edizione cartacea OOF Magazine, volume interamente dedicato agli oli a Indicazione geografica: “Oli con nome e cognome. Dop e Igp, l’origine certificata”
In apertura, illustrazione di Doriano Strologo per Olio Officina
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