Solo l’innovazione può sconfiggere caporalato e atti vandalici
La brutale morte di Satnam Singh a seguito di un braccio amputato e la distruzione di un campo sperimentale, il primo in Italia sviluppato con le tecniche di evoluzione assistita, sono due terribili episodi di stretta attualità che ci riportano al duro e inquietante stato in cui versano le campagne italiane. In una società che conserva e difende a spada tratta un’idea fantasmagorica di agricoltura, frutto di illusioni, sentimentalismi e sguardi nostalgici rivolti al passato, la demonizzazione dell’agricoltura tecnologica porta proprio a queste estreme e nefaste conseguenze. Ci vorrebbe un cambio di prospettiva e l’avvio di un grande progetto di ringiovanimento degli addetti con l’immissione di una forte dose di innovazione e di professionalità

A distanza di un paio di giorni si sono verificati due episodi raccapriccianti. Il primo nelle campagne di Cisterna di Latina, dove è tragicamente scomparso Satnam Singh. Si era amputato il braccio con un macchinario agricolo. E anziché essere soccorso e assistito dal proprio datore di lavoro, è stato brutalmente trasportato davanti alla sua baracca, con l’arto gettato in una cassetta della frutta. Un tetro gesto di infinita disumanità.
Il secondo episodio è accaduto a Mezzana Bigli in provincia di Pavia. Qui un campo sperimentale di riso, il primo in Italia sviluppato con le Tecniche di evoluzione assistita (Tea) per contribuire ad abbattere l’impiego di fungicidi, è stato gravemente vandalizzato nella notte. Un atto di violenza contro delle piante frutto della ricerca pubblica. Un atto disperato per fermare la conoscenza e la prospettiva di un mondo migliore.
Apparentemente sono due vicende che non hanno niente in comune. Eppure c’è un filo rosso che in modo inscindibile le annoda. Entrambe ci riportano all’essenza dell’agricoltura: un’attività produttiva, fatta di persone che lavorano, che mettono a frutto competenze e capacità professionali e utilizzano strumenti e tecniche messi a disposizione da scienziati e ricercatori.
Viviamo, invece, in una società che ha dell’agricoltura un’idea fantasmagorica, frutto di illusione e immaginazione. Linea Verde e i grandi quotidiani e rotocalchi ci propinano una quantità gigantesca di informazioni sui cibi e i mille modi per cucinarli.
Tuttavia, non riusciamo mai a vedere o a leggere un’inchiesta seria su come sono fatte le aziende agricole, come funzionano, chi ci lavora (con quali mansioni, in quali condizioni, con quali redditi), come sono fatte le tecnologie utilizzate in agricoltura, come funzionano i laboratori di ricerca e i centri sperimentali dove si crea la conoscenza agricola, chi ci lavora e in quali condizioni.
Solo quando accadono fatti delittuosi ricompare la realtà. E caschiamo dalle nuvole, come se il caporalato fosse un fenomeno recente. E come se le vandalizzazioni di campi sperimentali non fossero pratiche già adottate in passato per bloccare la ricerca genetica.
L’agricoltura è raccontata sull’onda di sentimentalismi e malinconie con lo sguardo nostalgico rivolto al passato. Si rimpiangono le campagne di una volta. Attenti a nascondere però la miseria, lo sfruttamento e lo schiavismo su cui esse si reggevano. Si collezionano ricette della nonna in ogni regione o comune. Ma poi evitiamo di svelare le loro radici molto lontane; i motivi per i quali le abbiamo adattate agli standard igienico-sanitari, alle comodità e alla sensibilità di oggi e l’apporto scientifico resosi necessario per conservarle.
Si demonizza l’agricoltura tecnologica. E si dimentica che essa ha, come prima finalità, proprio l’eliminazione del lavoro servile. Pretendiamo ortaggi e frutta raccolti accuratamente a mano. Guai se è stato usato un mezzo meccanico. Oddio! E ora come li digerisco? Ma evitiamo scrupolosamente di associare quel pomodoro o quell’albicocca comprati al negozio ai volti di tanti immigrati che li hanno raccolti, sotto il sole cocente o in una serra infuocata.
Ci piace, invece, ricordare quella volta che, in un agriturismo di montagna, un agricoltore e i suoi bambini ci coinvolsero nella raccolta di fichi e di ciliegie. E sogniamo estasiati quell’esperienza indimenticabile. Ma non riusciamo a distinguere appunto un’attività ludica o esperienziale da un lavoro di tutti i santi giorni, ripetitivo, faticoso, alienante. Le pretendiamo raccolte a mano le pesche e le mele. Altrimenti niente. Non hanno il sapore dei frutti della nonna. Ma sanno di fabbrica, di mezzi meccanici, di robot. Meglio niente.
Sono trent’anni che Carlo Petrini scrive di due agricolture, quella contadina e quella industriale. E che dovremmo preferire la prima e ostacolare l’altra. In che modo? Bloccando la conoscenza. Tanto ai contadini, poveri ignoranti, bastano e avanzano i saperi del passato. Gli hanno fatto il verso Michele Serra, Mario Capanna, Piero Bevilacqua e altri intellettuali nostalgici. E così, vent’anni fa, politici non del tutto sprovveduti, ma privi di scrupolo, come Massimo D’Alema e Giuliano Amato, si sono lasciati convincere che bisognava vietare i famigerati Organismi geneticamente modificati. Avremmo così venduto il nostro fantomatico modello contadino in ogni parte del mondo come un souvenir. Lasciate pure che il popolo ignorante pensi che gli Ogm fanno male alla salute e all’ambiente, benché la scienza dica il contrario. Tanto ormai il messaggio è passato e non si può più tornare indietro. C’è un marketing su cui lucrare: vendiamoci come paese che rinuncia all’agricoltura tecnologica. Che idiozia! Eppure l’hanno pensata proprio così.
Ovviamente nessuno racconta che questi pestiferi Ogm vengono tuttora importati al ritmo di 10 mila tonnellate al giorno, tutti i giorni, 365 giorni all’anno. 10 mila tonnellate al giorno solo di soia Ogm, non di tutti gli Ogm in commercio. Tutti i maggiori prodotti tipici più prestigiosi dell’agroalimentare italiano, si fanno usando mangimi con Ogm. Li possiamo mangiare ma non produrre. Non c’è paese al mondo che non ci ride dietro.
Così il caporalato. Già nel 2008 Alessandro Leogrande, con la sua inchiesta “Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud”, ci spiegò per filo e per segno quali forme stava assumendo il fenomeno.
Oggi leggiamo in una relazione inviata alla Prefettura di Latina, elaborata grazie ai dossier del comando provinciale dei Carabinieri, che gli immigrati punjabi arrivano dall’India nell’Agro pontino, mediante catene migratorie organizzate, già in una condizione di sfruttamento. Ad essi viene offerto al momento del reclutamento un intero pacchetto di servizi comprensivo di costi di trasferimento, accoglienza all’arrivo, con alloggio incluso, inserimento al lavoro perlopiù nel settore agricolo. Gli intermediari chiedono fino a 20 mila euro a persona, costringendo l’immigrante e la sua famiglia ad un indebitamento a vita.
Dietro questo traffico ci celano società fantasma che offrono un posto di lavoro fittizio, utile solo a ottenere un nulla osta e far entrare un immigrato, che difficilmente dopo sottoscriverà un contratto regolare. Gran parte di queste società sono in mano alla criminalità organizzata. Queste scatole vuote assicurano un significativo guadagno sulle indennità di disoccupazione e altre prestazioni percepite dai loro dipendenti, mediante l’assunzione e il successivo licenziamento di falsi braccianti agricoli. Un danno enorme per le casse dell’Inps. Le società spesso servono solo per far “raggiungere il numero di giornate lavorative che danno diritto a prestazioni previdenziali”.
Accanto alle società fittizie ci sono poi le reti d’azienda, all’interno delle quali è possibile far “girare” la manodopera senza bisogno di aprire nuove posizioni contrattuali. Una possibilità concessa dalle normative statali ma che in questo caso, secondo gli inquirenti, sarebbe utilizzata impropriamente.
Nella relazione c’è scritto che la struttura appare, dunque, articolata in due sottosistemi di micro delinquenza: “caporali di origine punjabi” e “impiegati o funzionari pubblici corrotti”. Poi ci sono altre figure: il “caponero”, che organizza le squadre e il trasporto; il “tassista”, che gestisce il trasporto; il “venditore”, che predispone le squadre e la vendita di beni di prima necessità a prezzi spesso molto alti; l’”aguzzino”, che sistematicamente usa la violenza o provvede alla sottrazione dei documenti di identità, in maniera tale da ottenere un controllo totale sul migrante. La figura apicale è il “caporale”: l’amministratore delegato del sistema, l’uomo fidato che gestisce per conto dell’imprenditore l’intera campagna di raccolta dei lavoratori.
Il caporalato è questo marchingegno organizzativo che assume sembianze leggermente diverse nelle differenti aree territoriali.
In Italia, il contributo di lavoratori stranieri in agricoltura non è quantificabile a causa della presenza di lavoro irregolare. L’ultimo dato delle Forze di Lavoro dell’Istat (2019) registra un valore medio nazionale di 166 mila (18,3% del totale, in posizione dipendente nella stragrande maggioranza). Nello stesso tempo, le persone che nell’arco dell’anno lavorano in agricoltura, anche per periodi limitati, sono molto più numerose. Infatti, secondo i dati INPS 2019, gli operai a tempo determinato stranieri sono 360 mila (su un totale di quasi 966 mila).
Nel gruppo degli operai a tempo determinato stranieri, gli extra-unionali rappresentano la parte predominante, con un peso crescente (62,7%).
Secondo l’indagine ultraventennale che svolge il CREA, i lavoratori extra UE considerano del tutto transitorio l’impiego in agricoltura, tendendo ad occuparsi in settori produttivi a maggior reddito o a trasferirsi in altri paesi dell’Unione.
L’occupazione in agricoltura è, dunque, caratterizzata da un’ampia presenza di operai a tempo determinato (893.560 unità nel 2022 – senza contare il lavoro illegale che l’ISTAT stima in un quarto del totale – e di queste unità il 40 per cento è formato da lavoratori stranieri) per lo più impegnati nelle operazioni di raccolta e mediamente per 51 giornate annue.
Questi dati mostrano con estrema chiarezza la presenza nel settore agricolo di un forte elemento di arretratezza, dovuto ad una carenza di innovazione. Le aziende che ricorrono al caporalato per le operazioni di raccolta da almeno trent’anni non fanno più investimenti e non innovano prodotti, processi e organizzazione.
Nel Mezzogiorno, le aree più innovative negli anni Settanta – come esito delle trasformazioni agrarie avvenute con la diffusione dell’irrigazione – sono tornate ad essere latifondo, cioè prive di capacità innovativa. Dopo quegli investimenti iniziali, non ce ne sono stati altri. E soprattutto sono mancati un rapporto con la ricerca e un moderno sistema di trasferimento dei risultati della ricerca nel sistema produttivo. Si è, pertanto, consolidata una lunga fase di stagnazione e immobilità. E dove c’è stagnazione e immobilità s’innestano inevitabilmente tutti i fenomeni negativi, compreso il reclutamento illegale di manodopera.
Sono sicuramente necessarie norme repressive e misure che incoraggino l’emersione del lavoro irregolare. Ma ci libereremo del caporalato in agricoltura se faremo ogni sforzo per meccanizzare le operazioni di raccolta dei prodotti. Capisco l’obiezione: come si fa con tassi d’invecchiamento degli imprenditori agricoli da capogiro? Ci vorrebbe un grande progetto di ringiovanimento degli addetti e di immissione di una forte dose di innovazione e professionalità. Ma la guerra ai caporali la potremo vincere solo in questo modo.
In apertura, un oliveto devastato dalla Xylella nel Salento. Foto di Luigi Caricato
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