Una nuova distribuzione moderna. Da punto vendita a point of education
Intervista a Giorgio Santambrogio. Secondo il ceo del Gruppo VèGè, nonché vicepresidente di Federdistribuzione e di Retail Institute Italia, occorre andare al di là della vecchia dizione di Grande Distribuzione. Non è un caso che molti retailer oltre ad avere diverse linee di marche del distributore spesso producono autonomamente intere categorie merceologiche. Già ora, ma sempre di più domani, il cliente vorrà scegliere l’insegna di riferimento in base all’empatia valoriale che si riuscirà ad avere con l’insegna di riferimento
Per il numero 15 di OOF International Magazine, monografia dedicata all’olio nei supermercati, abbiamo incontrato Giorgio Santambrogio, amministratore delegato del Gruppo VèGè, per prendere in esame le dinamiche evolutive delle imprese della distribuzione. Dopo l’esordio come docente di Economia delle aziende del grande dettaglio presso l’Università Bocconi, ha intrapreso la carriera di dirigente d’azienda e ricoperto l’incarico di presidente dell’Associazione Distribuzione Moderna, fino al 2020. È attualmente vicepresidente di Federdistribuzione e di Retail Institute Italia.
INTERVISTA A GIORGIO SANTAMBROGIO
In vista del futuro, che prospettive si aprono per la Grande Distribuzione organizzata? Ha un suo desiderio al riguardo?
Mi permetta di iniziare con una battuta: occorre cambiare la vecchia dizione di Grande Distribuzione in Distribuzione Moderna, o meglio ancora in Industria del Commercio. Ciò in quanto non necessariamente il moderno si connota con la dimensione dei punti di vendita, oltra al fatto che il termine Grande Distribuzione nel corso degli anni è stato strumentalmente portato ad indicare una sorta di valenza negativa.
Cioè?
È come se la Grande Distribuzione, essendo tale, sia una sorta di antagonista mortale della piccola distribuzione. In verità non c’è più una divisione tra grande distribuzione, distribuzione associata o piccola distribuzione, perché oggi vi è un mix armonico tra canali, formati e touch point. E poi, non c’è neanche più il concetto della Grande Distribuzione come modello vincente rispetto alla piccola. Questo era un po’ il cavallo di battaglia dei retroguardisti degli anni Ottanta e Novanta, contrari alla creazione di punti di vendita di grandi dimensioni, in quanto potenzialmente competitors del piccolo negozio. Un po’ come se adesso si volesse fermare l’E-commerce perché mina le performance dei punti di vendita fisici.
Andrebbe riformulato tutto, allora. Anche in termini linguistici…
Sì, noi amiamo farci chiamare Industria del Retail. È una sorta di emancipazione culturale rispetto all’eccessiva semplificazione di Philip Kotler, che aveva teorizzato il retail come un’ancillare dimensione industriale, introducendo, nelle 4 P, la P appunto di Place. Invece, chiaramente, in realtà, nel corso degli anni il settore si è progressivamente evoluto, andando ad assumere valenze e connotazioni ben più ampie. Noi siamo a tutti gli effetti un’industria. Tanto è vero che molti retailer, oltre ad avere diverse linee di Marche del Distributore, spesso producono autonomamente intere categorie merceologiche, ad esempio gastronomia, panetteria e pasticceria.
E in questa logica, qual è una delle caratteristiche che i punti vendita del futuro dovranno avere?
Per differenziarci ed acquisire un vantaggio competitivo maggiormente marcato rispetto alla concorrenza, occorre lavorare molto in quella che io definisco area valoriale.
Sia chiaro, non sto mettendo in discussione Kpi tradizionali (Key Performance Indicator) quali le caratteristiche dell’assortimento (ampio o profondo che sia), la valenza decisamente positiva della convenienza, la qualità dell’offerta, l’intensità promozionale reale o percepita, la capacità di essere realmente orientati al cliente, una location accogliente, ecc., ma la mia sensazione è che già adesso, ma sempre di più in futuro, il cliente vorrà scegliere l’insegna di riferimento, coeteris paribus, in base all’empatia valoriale che si riuscirà ad avere con l’insegna di riferimento.
Quindi?
Quindi il lavoro è più profondo. Nelle caratteristiche poc’anzi citate, basta essere bravi, competenti e non commettere errori (e già questo non è di per sé assolutamente facile) e un’offerta a misura di clienti è proponibile. Introducendo il concetto di empatia valoriale, invece, in primis è tassativo non barare con proclami meramente demagogici, e poi occorre sempre di più lavorare saggiamente con la psicologia del cliente. Oltre a essere semplicemente esperienziale, se un cliente entra in un pdv di una determinata insegna e percepisce che esercita un ruolo attivo, vero ed auspicabilmente continuativo nel tempo nel campo della responsabilità sociale, che è realmente attiva nella lotta allo spreco, che è attenta ai bisogni della comunità, che trova fattive soluzioni alle esigenze sociali, ambientali dei clienti, ecco, allora questo cliente avrà il percepito che l’insegna è uguale a lui o comunque è uguale all’archetipo a cui lui (o lei) ambisce. Tutto ciò solo se l’insegna riesce a trasmettere questi valori, con reali, oneste e trasparenti azioni concrete.
Si tratta di scendere in campo con una nuova visione, mi pare di capire…
Sì, e molte insegne stanno riuscendo in questa complessa ma, nel contempo, affascinante missione. Ciò che quindi trovo stucchevole, e ritorno a ciò che ho accennato in precedenza, è questa aura di negatività che connota la Distribuzione Moderna. Basta! C’è un settore del commercio che in un drammatico periodo come quello della pandemia e del conseguente lockdown, ha dimostrato con fatti veri cosa significhi avere a cuore i cittadini. Il personale di punto vendita, stoicamente, ha reagito con coscienza e responsabilità sociale, facendo il proprio dovere anche nelle prime settimane quando non vi erano mascherine, igienizzanti, plexiglass o altri dpi.
Questo senso di responsabilità, che ha ammantato in ogni caso l’intera filiera, è un capitale valoriale che molti tendono a dimenticare.
Anche ora, che l’onda drammatica sanitaria è passata e le problematiche sono di tutt’altro tipo, ovvero un’inflazione sia all’acquisto oltre che conseguentemente anche alla vendita, peraltro un’ondata inflativa a livello mondiale, il percepito di molti stakeholder non è positivo.
In primis, per quanto concerne la dinamica dei prezzi, da sempre la Moderna Distribuzione, o meglio, l’industria del commercio, ha recitato responsabilmente il ruolo di istituto deflattivo. Per ciò che attiene invece a un diverso approccio del retail, nella sua interezza, si sta accentuando, o comunque si dovrebbe accentuare un nuovo fenomeno, superando, paradossalmente ed iperbolicamente, l’ovvio (speriamo) tradizionale paradigma del semplice igienico orientamento al cliente: ritornare infatti maggiormente ad un orientamento di prodotto, ovviamente prodromico ad un miglior servizio.
Questo cambio di prospettiva dovrà coinvolgere necessariamente anche il personale…
Certo! Il personale del punto di vendita deve dismettere di essere semplicemente un cassiere, un repartista o, ad esempio, un gastronomo ed evolvere verso una sorta di food consultant. Tutti dovrebbero conseguentemente diventare consulenti a vantaggio dei clienti finali. Se entra un cliente nel mio punto vendita e chiede informazioni in merito a prodotti per celiaci, io devo saperne indirizzare correttamente la scelta, così come devo sapere tutte le informazioni inerenti a prodotti speciali, che siano rich-in, free from, halal, kosher, vegan, bio, etc: il cliente deve entrare in un punto di vendita e deve essere assecondato nelle richieste culturali sul prodotto. Bisogna fare educazione. Non più la logica del vendere tanto prodotto, quanto quella di assecondare le nuove peraltro articolate e talvolta complesse esigenze nutrizionali della diversa clientela. Quindi, e l’ho ribadito più volte, occorre lavorare ancor più sui fondamentali di prodotto, per arrivare a divenire un nuovo luogo: non più semplicemente un punto di vendita (point of sale) ma Point of education.
In apertura, illustrazione di Doriano Strologo per Olio Officina (particolare)
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