Economia

Breve storia dell’olivicoltura

L’Italia è stata vittima di un modo indiscriminato e diseducativo nell’erogare i sussidi. All’epoca, c’era chi si opponeva, ma Bruxelles finì con il mettere sullo stesso piano tutti gli olivicoltori. Una buona spinta verso il progressivo declino è avvenuta con il “disaccoppiamento” e la “condizionalità”. Nel frattempo, il nutrito "esercito dei furbi” ha saputo attingere a piene mani

Angelo Godini

Breve storia dell’olivicoltura

Nel settembre 1966, il Regolamento CEE n.136 dal titolo: “Attuazione del mercato comune nel settore dei grassi” (la cosiddetta “integrazione”) divenne oggetto di un convegno a Bari, alla Fiera del Levante. Allora – frugo nella memoria – furono illustrati i criteri di assegnazione dei sussidi e discussi prospettive, limiti e possibilità offerti dalla nuova normativa a sostegno dell’olivicoltura.

All’epoca, i beneficiari erano solo due: Francia (ancora oggi poca cosa in termini di superfici e produzioni) e Italia. Punto cardine in discussione: il criterio d’assegnazione dei sussidi, che si fondava sulla dichiarazione aziendale della produzione di olive a prescindere dalla qualità del prodotto finale, se olio extra vergine, vergine o lampante.

Proprio l’aspetto cardine del Regolamento destò malumore in una parte degli olivicoltori presenti, soprattutto andriesi e bitontini, che ritenevano quel modo d’erogare i sussidi indiscriminato, diseducativo e portatore di progressivo rallentamento delle cure all’olivo e conseguente degrado della coltura e del suo miglior prodotto, l’olio extravergine. All’insegna del “chi ce lo fa fare”, insomma.

Perché andriesi e bitontini si sono messi a protestare? Perché nella loro zona, la Puglia centro-settentrionale, le tecniche di coltivazione dell’olivo erano da tempo improntate all’ottenimento di olio extra vergine, attraverso potatura annuale, difesa, nutrizione, gestione corretta del suolo, raccolta dei frutti dall’albero (a mano oppure a macchina) e molitura entro ore dalla raccolta. In altre parole, in quella parte di regione che, senza soluzione di continuità, da Bari si spinge fino a Cerignola e riprende poi a San Severo e Torremaggiore, si potevano (e si possono ancora) ammirare i tre modelli pugliesi più intelligenti, ma anche più costosi di coltivazione dell’olivo e di produzione dell’olio extra vergine di Puglia: il vaso Sanseverese, il vaso Andriese-Coratino, i colli d’oca bitontini.

Il pensiero di quegli olivicoltori l’ho interpretato così: poiché il sussidio era elargito esclusivamente sulla base delle olive prodotte, Bruxelles finiva col mettere sullo stesso piano e premiare allo stesso modo gli olivicoltori che adottavano le cure e le tecniche più evolute e costose per l’ottenimento di oli extra vergini e quelli che lavoravano al risparmio e si limitavano a mantenere in vita l’oliveto per la produzione dei più “vili” oli lampanti. Senza nessun criterio meritocratico. Tuttavia, almeno per alcuni decenni nulla è cambiato in Puglia: la produzione veniva tranquillamente raccolta e laddove si produceva olio extra vergine si è continuato a produrre olio extra vergine di oliva; laddove si produceva olio lampante, si è continuato a produrre olio lampante.

All’entrata nel terzo millennio, quella preoccupazione ha preso a concretizzarsi, diffondendosi lentamente come subdolo morbo. E questo non tanto in qualche dove in Puglia, ma di più – mi giunge voce – in altre regioni italiane, dove con maggiore incidenza ci sono fasce di coltura classificate come “olivicoltura marginale”, perché polverizzata in minuscoli appezzamenti e esercitata in zone di collina e montagna difficili. Si tratta di zone dove, al netto dell’integrazione dell’UE, il costo di produzione può arrivare anche a raddoppiare il prezzo di vendita del chilo d’olio.

Sembra che siano sempre più numerosi gli olivicoltori che hanno preso a trascurare le cure agli alberi riducendo le spese, raccogliendo lo stretto necessario per il fabbisogno familiare d’olio e accontentandosi d’incassare (poco o molto che sia) il sussidio comunitario. Stiamo vivendo un’annata, 2016/17, di produzione nazionale di olio d’oliva molto bassa, che sembrerebbe essersi ridotta al 50% di quella standard. Solo il prossimo futuro ci dirà quanto dell’attuale, importante calo di produzione è stato dovuto a una generalizzata e vistosa “annata di scarica”, e quanto invece alla decisione di rinunciare a raccogliere le olive, risparmiando le spese di una sempre più impegnativa, costosa e non sempre remunerativa campagna di raccolta.

Secondo alcune fonti, la riduzione della produzione d’olio per abbandono degli oliveti tenderebbe oggi a sfiorare il 30%. Anche se questa cifra oggi a me sembra eccessiva, chiedo al lettore di credermi quando dico che sto riportando solo quanto scritto da altri. A dimostrazione, valga l’annuncio dell’Accademia dei Georgofili, che in “Georgofili.Info” del 24 Maggio 2017 informa che il 26 maggio 2017, a Firenze, si sarebbe tenuto un dibattito dal titolo: “Crisi dell’olivicoltura nazionale”, così spiegata: «Siamo di fronte a due importanti contraddizioni: continuano ad aumentare gli oliveti abbandonati a se stessi, proprio mentre è in crescita la richiesta di olio extravergine di oliva».

Certamente mi sento di affermare che una buona spinta verso il degrado della coltura è stata data proprio dall’UE quando ha introdotto “disaccoppiamento” e “condizionalità” in una delle PAC degli ultimi quindici anni. Mi sono più volte chiesto cosa frullasse nella mente dei burocrati brussellesi quando presero quella decisione e ho immaginato la seguente risposta per spiegare tanta iniziativa:

“Cari amici olivicoltori, noi che operiamo da Bruxelles ci rendiamo conto delle vostre difficoltà a fare quadrare i bilanci delle vostre aziende, gravate da uscite quasi sempre superiori alle entrate ed è perciò che rinnoviamo i sussidi a vostro favore, anche se inferiori a quelli di un ancora recente passato. Dovete comprendere che non siete più solo voi italiani e francesi a goderne, ma anche altre Nazioni nel frattempo entrate nell’UE, prima fra tutte la Spagna, che hanno più che raddoppiato le superfici e le produzioni del 1966; di conseguenza, anche le uscite dell’UE sono aumentate”.

“Da noi transalpini (e transpirenaici), abituati a sostanze grasse di altra origine e natura, i consumi di olio d’oliva sono insignificanti e non vediamo perché ci dobbiamo preoccupare per le sorti di una coltura che la maggior parte conosce solo per averla vista in fotografia. Tanto più oggi che, all’Europa rispettosa del principio del libero scambio, interessa poco o punto che soltanto l’olio d’oliva comunitario debba avere diritto di circolazione all’interno dei 27 Paesi membri. I mercati si sono allargati, l’Europa ci sta ormai stretta e abbiamo bisogno di esportare i prodotti della nostra industria, dal peso economico – ci consentirete – molto, ma molto più importante e imponente del Pil dell’agricoltura mediterranea. Al tempo stesso, per effetto di quella che si chiama bilancia commerciale, dai paesi ai quali vendiamo i prodotti della nostra industria, dobbiamo importare i beni ch’essi producono per equivalente in valore (o quasi) come petrolio, metano, materie prime strategiche non energetiche, ma anche prodotti dell’agricoltura”.

“Voi dite di non avere nulla in contrario all’importazione di beni che non producete, come banane e ananas, ma vi lamentate e protestate insieme con le vostre Organizzazioni per l’importazione di beni che anche voi producete, come l’olio d’oliva. Perché a prezzi stracciati. E noi vi rispondiamo di non avere alcuna responsabilità se, appena attraversato il Mare Mediterraneo si incontrano Paesi dove il costo della manodopera è molto più basso e i prodotti agricoli sono ottenuti a costi tanto stracciati da finire col mettere fuori mercato i vostri omologhi. Noi, Unione Europea, vogliamo spiegare a voi, olivicoltori italiani, che ciò che ci importa è solo che non smantelliate i vostri oliveti, per il loro fondamentale ruolo di difesa del suolo e paesaggistico, e che li preserviate dall’altrimenti inevitabile scomparsa. Per questo vi paghiamo, ma al tempo stesso vi diciamo: non ci interessa che voi vi danniate l’anima e vi riduciate in miseria per potare, difendere, raccogliere il frutto delle vostre fatiche per ottenere olio di qualità superba, ma riteniamo sufficiente, in cambio dei nostri sussidi, che voi non distruggiate un patrimonio di decine di milioni d’alberi cui tengono molto anche i gruppi ambientalisti, che in Europa sono tanto più chiassosi, potenti e uniti di voi.

“Voi protestate dicendo che in tal modo l’Europa sarà costretta a importazioni sempre più massicce di olio d’oliva a più basso costo.E noi vi rispondiamo che, per Bruxelles, è importante solo che l’olio d’oliva, meglio se tutto extra vergine, non manchi mai sulle vostre tavole, dovunque prodotto e purché non offenda la salute. Per questo ci basta che, per fruire del sussidio, voi siate in grado di dimostrare di tenere pulito il terreno dei vostri oliveti dalle erbe infestanti, onde evitare distruttivi incendi estivi, e che potiate i vostri alberi una volta almeno ogni cinque anni, turno adeguato per scongiurare l’irreversibile decadimento degli impianti, dovunque situati: da più o meno fertili pianure, a soleggiate e riarse colline, a ingrati e impervi siti di montagna. In conclusione, dopo quanto detto risulterà chiaro che a noi che operiamo da Bruxelles interessa poco o punto che voi coltiviate l’olivo per produrre l’olio”.

“Ma poi, ci viene da dire, quando varammo la Direttiva n 136, tra le righe auspicavamo anche che vi deste da fare per innovare la vostra olivicoltura per ridurre i costi di produzione. Crediamo che al riguardo poco sia stato fatto. Vi chiediamo allora perché insistere nel continuare a produrre olio d’oliva a costi proibitivi, quando ci risulta che oggi è possibile produrre il chilo di olio extra vergine a costi di gran lunga inferiori a quelli che voi siete costretti a sopportare e che sono imposti dai vostri modelli olivicoli tradizionali. Modelli bellissimi certamente, aristocratici e lussuosi anche, ma troppo spesso antieconomici. E al lusso, se uno non se lo può permettere, bisogna sapere rinunciare”.

Così potrebbe avere parlato Bruxelles.

Come già scritto, per circa vent’anni l’entità delle sovvenzioni è stata vincolata alla produzione di olive dichiarata dagli olivicoltori. Il lettore capirà che, di fronte a così generosa elargizione di fondi, più d’uno degli olivicoltori beneficiari (pochi, molti?) abbia cercato d’approfittare dichiarando produzioni superiori al reale: a volte aumentando la produzione per albero, a volte aumentando il numero di alberi. Tanto, essi pensavano, chi controllerà mai? Non che tra i popoli degli altri paesi membri dell’UE regni l’onestà assoluta. Anche altrove si approfitta dei sussidi comunitari, ma, a differenza da noi, chi lo fa lo fa con maggiore discrezione e, soprattutto, in silenzio. Molti olivicoltori devono avere esagerato, generando nei responsabili dell’erogazione dei sussidi il sospetto che qualcosa nei conti non tornasse. Nacquero così numerosi contenziosi tra le dichiarazioni degli olivicoltori e le produzioni accertate dagli organi di controllo.

Alla Comunità europea non andava d’essere raggirata tanto che partirono anche esplicite accuse alla categoria degli olivicoltori italiani; essa decise così di modificare i criteri di attribuzione dei benefici passando dalla produzione per albero al numero di alberi posseduti, data la produttività media storica degli alberi di un areale sufficientemente omogeneo (metodo sbrigativo, ma iniquo e penalizzante gli olivicoltori più capaci). Per arrivare a tanto, nella seconda metà degli anni ‘70 l’UE approntò gli schemi per il censimento delle aziende olivicole attraverso la realizzazione di un costosissimo catasto (o schedario) olivicolo nazionale particellare, con spese a carico degli stessi olivicoltori da recuperare dai fondi per l’integrazione.

Insieme col Dr Piero Gervasi partecipai a Bruxelles, tra il 1975 e il 1977, ai lavori preparatori del catasto, quando si pensava di poterlo realizzare utilizzando le immagini inviate da satelliti, ma poi ci si convinse per più modesti rilievi fotogrammetrici aerei convalidati da verifiche a terra (ground truth o verità terreno). Furono così sorvolate le principali regioni olivicole italiane. Quello che seguì è storia recente e – credo – nota a tutti gli addetti al settore. Tutto risolto, dunque? Forse, sebbene io continui a pensare che l’esercito dei furbi si sia ridotto, ma non che sia scomparso del tutto.

La foto di apertura è di Francesca Stajano. Quelle interne all’articolo sono dell’autore, il professor Angelo Godini

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