Economia

Cosa significa il primo maggio

L’aver festeggiato questa giornata, oggi, è servito innanzitutto per riflettere su come il lavoro che non c'è si possa creare. L’imprenditoria non è un’erba spontanea che cresce e si espande in maniera naturale. Si tratta di iniettare una cultura imprenditoriale (che manca) e un atteggiamento di autodisciplina. Le paure vanno superate: non c’è alcuna contraddizione tra il recupero del legame con il territorio e l’internazionalizzazione dell’economia

Alfonso Pascale

Cosa significa il primo maggio

Si può creare lavoro se si ristabilisce un rapporto di fiducia tra le istituzioni e la società locale che si autorganizza per sprigionare il potenziale produttivo del proprio territorio. Si tratta di iniettare cultura imprenditoriale che manca: quell’autodisciplina per acquisire costanza, ingegnosità, conoscenza del contesto, capacità di inventare un’idea e pilotarla verso il successo. Ma non basta combinare imprenditorialità, organizzazione e contabilità aziendale. Occorre affrontare le dimensioni psicologiche, antropologiche, sociologiche, sociali, storiche, identitarie, ecc., della creazione del lavoro.

L’imprenditoria non è un’erba spontanea che cresce e si espande in maniera naturale. È il risultato di processi motivazionali che vanno stimolati, accompagnati e orientati verso le migliori pratiche, tenendo conto delle vocazioni e prerogative territoriali. È il frutto di legami comunitari, di beni relazionali, di fiducia da tessere costantemente. È l’esito di una guerra gigantesca da fare tutti i santi giorni contro la mentalità e la pratica assistenzialistica, che è causa ed effetto del clientelismo, della corruzione e dell’illegalità.

La capacità imprenditoriale è un valore che va coltivato come componente fondamentale di quell’aspirazione dell’uomo a incivilirsi, a elevarsi, mediante un percorso tortuoso che non ha mai fine per evitare di correre il pericolo di tornare indietro verso la barbarie. È un valore civile che caratterizza chi non agisce mai per mero profitto e non intende mai la sua impresa semplicemente come una macchina per far soldi, ma come qualcosa che esprime la sua identità e la sua storia; la responsabilità di dare un apporto diretto alla promozione della giustizia; la gioia di donare qualcosa ad altri oltre il dovuto in una relazione di reciprocità incondizionata. È ricerca continua dell’innovazione e del cambiamento che si contrappone energicamente alla semplice ripetizione della vita. È conseguimento, consolidamento e superamento di un risultato, cioè di un esito certo e misurabile di un’azione che ne convalida l’efficacia. È dinamismo, non è mai un punto di arrivo e neppure un plafond ormai assodato su cui si può sostare (e magari addormentarsi sugli allori).

Per essere dei buoni imprenditori bisogna abbandonare ogni visione centralistica dello Stato e dell’economia (tutto deve arrivare dall’alto) e praticare invece un federalismo democratico dal basso, come approccio alla costruzione di buone e sane relazioni di ognuno con le altre persone, con la comunità e con le istituzioni. La capacità imprenditoriale è anelito a conoscere altre culture e a mettere a disposizione la propria per produrre collaborazioni, processi di ibridazione, contaminazione, costruzione di novità. È superamento di ogni provincialismo, di ogni visione autarchica e neonazionalista per aprirsi alla relazione Italia-mondo, all’interazione tra culture, alla cooperazione tra le diverse comunità che vivono in Paesi differenti.

Non c’è alcuna contraddizione tra il recupero del legame con il territorio e l’internazionalizzazione dell’economia. Solo gli integralisti che difendono le proprie botteghe – in un mondo dove convive una pluralità di ethos del mercato e di modelli produttivi e di consumo – mettono in contrapposizione questi due elementi per tutelare i propri interessi particolari. La capacità imprenditoriale è un processo civilizzante di relazioni interpersonali e di conoscenza per superare lo stato di cose esistente e immaginare il futuro con ragionevoli speranze.

Tutti possiamo contribuire a creare lavoro se impariamo a effettuare le nostre scelte di consumo di beni e servizi, premiando le imprese civili e partecipando – in quanto consum-attori – alla realizzazione di progetti imprenditoriali fondati sulla buona occupazione. Ma questo presuppone la ricostituzione di un tessuto comunitario che è stato distrutto. La festa del primo maggio deve, pertanto, farci riflettere su come favorire la tessitura di nuove relazioni tra comunità, società civile e istituzioni intorno ad un progetto condiviso di società, di economia e di mercato, che metta al centro le persone, e ad un’idea di sviluppo come processo di espansione delle libertà reali godute dagli esseri umani.

In apertura: Renato Guttuso, Contadini al lavoro, 1950

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