Economia

Il Km 0 è un bluff?

Alimentazione sostenibile e circuito corto vanno necessariamente sempre assieme? Il reperimento del cibo in un raggio di 80 km e con un solo intermediario tra produzione e consumo è davvero l’optimum? Spesso il consumatore viene fuorviato da analisi più ideologiche che obiettive e scientificamente condotte. Ecco allora una minuziosa indagine sul tema

Alberto Guidorzi

Il Km 0 è un bluff?

A sentire i media, influenzati da correnti di pensiero più ideologiche che critiche, sembrerebbe che non ci piova su questo “matrimonio”, anzi sembra che sia vero in assoluto che il reperimento del cibo in un raggio di 80 km e con un solo intermediario tra produzione e consumo sia l’optimum. Una presentazione della problematica in questi termini fino ad ora ha convinto sia il consumatore (migliori riscontri sociali in un mondo globalizzato e anonimo) che il produttore (che vede di potersi accaparrare un introito maggiore nella vendita). Su questo poi si inserisce tutto il movimento del “consumare italiano”, della dichiarazione di provenienza sull’etichetta ecc. ecc, che esula dall’analisi che stiamo facendo.
Tuttavia se ci soffermiamo solo sull’impatto ambientale e se si vanno a vedere certi numeri ci si accorge che comunque più dell’80% dei consumatori ricorre ancora alla grande distribuzione (super, hiper e hardiscount), che sicuramente non ha come obiettivo principale il circuito corto ma solo il prezzo d’acquisto, e solo un 7% predilige il circuito corto o i punti di vendita contadini. La grande distribuzione poi ci pensa lei a pubblicizzare che fa esclusivamente scelte etiche e di maggiore eco-sostenibilità. Essa fa solo scelte di maggiori profitti, che non sono per la verità vietati.
Chiediamoci dunque se la scelta del circuito corto favorisce in assoluto il “benessere del pianeta Terra”? La casistica che si svilupperà in seguito per la verità dirà che le cose non stanno sempre così, specialmente per quanto riguarda i consumi energetici ed emissioni di GES (gas ad effetto serra). Alcuni esempi lo dimostreranno.

1° caso
Se guardiamo i soli consumi energetici e quindi i GES e rapportiamo il tutto al valore unitario in peso del bene che giunge sul mercato troviamo che il trasporto di una tonnellata di un TIR di 320 q a pieno carico o di una cargo navale transoceanico consuma rispettivamente 10 e 100 volte meno del trasporto fatto con un camioncino da meno di 35 q che è appunto il mezzo di trasporto tipico del circuito corto. Infatti, nei consumi sono i primi e gli ultimi kilometri percorsi che costano di più.

2° caso
a) Se osserviamo il fenomeno da un punto di vista dei GES allora vi è un preciso studio fatto in Francia dove si considera il trasporto del pomodoro in circuito corto e si arriva alla determinazione che, a causa delle piccole quantità, il trasportare un kg di pomodoro comporta emissioni di GES di circa 650 geCO2/kg per i pomodoro in circuito corto contro i 120 geCO2/kg del pomodoro del supermercato.
b) un secondo fattore da considerare è il percorso dell’acquirente per recarsi nel punto di vendita del circuito corto che spesso è molto più lontano del supermercato, dove, tra l’altro, si ha la possibilità di fare una spesa più completa con un solo viaggio. Sempre lo stesso studio francese dice che la vendita in azienda agricola di un kg di pomodori fa consumare 60 gep/kg in luogo di 55 dei pomodori del supermercato e il dato superiore è imputabile proprio al viaggio dell’acquirente.

Un altro fattore da esaminare è il modo di produzione del bene.

1° caso
Gli impatti del modo di produzione superano di gran lunga l’impatto del costo di trasporto. Infatti, la produzione in serra ha un impatto ambientale di 75 volte superiore al trasporto. E’ il caso di una insalata prodotta sotto serra in inverno in Belgio e trasportata in Francia. Un altro esempio sempre sull’insalata e il confronto tra un’insalata prodotta in Spagna in piena aria e quella prodotta in Germania in serra. Se ambedue le insalate fossero trasportate e consumate in Francia si dovrebbero registrare emissioni di CO2 doppie per quella della Germania rispetto alla Spagna (510 gr eqCO2 contro 240 gr eqCO2).

2° caso
Ancora più eclatante è il confronto a livello di consumo di carburante tra la carne di agnello prodotta in Nuova Zelanda e venduta in Germania e quella prodotta in Germania e consegnata con un camioncino in circuito corto. Il consumo di carburante è 7 volte inferiore per la carne neozelandese trasportata via nave frigo che ha percorso 20.000 km. Il calcolo fatto è di 1,5 KWh/kg contro 0,2 KWh/kg. Per spiegare ciò occorre vagliare le due filiere: 1° in Nuova Zelanda le pecore pascolano tutto l’anno, si spostano autonomamente e gli agnelli non sono ingrassati. In Germania le pecore pascolano solo una parte dell’anno e quindi occorre trasportarle a mezzo camion due volte, una per portale e l’altra per farle rientrare; inoltre durante la stabulazione occorre alimentarle e le materie prime (foraggi, derrate per fare i mangimi ed i mangimi stessi) sono trasportate nel luogo di stabulazione. In definitiva i consumi energetici degli allevamenti tedeschi non sono equiparati dalle spese di trasporto dal continente oceanico a quello europeo. Lo stesso discorso lo si può fare ad esempio per la carne bovina argentina.

Conclusione. Fossilizzarsi nel vedere i costi di un bene alimentare solo a livello di trasporti è fuorviante per darne un giudizio di migliore compatibilità ambientale. Pertanto è bene che il consumatore sappia che spesso è condotto fuori strada nei giudizi da analisi più ideologiche che obiettive e scientificamente condotte. Certo per completezza occorrerebbe poi passare anche ad analizzare quanto il circuito corto apporta in fatto di suddivisione del valore aggiunto sul prodotto e quindi di riconoscimento del lavoro dell’agricoltore perché ciò potrebbe orientare le scelte del consumatore ancora sulla preferenza del prodotto nazionale o locale. Qui però entriamo in un altro dibattito.

La foto di apertura e di Luigi Caricato

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