Economia

La leva dell’italianità

Vendere quello che non c’è. Siamo molto bravi in questo, e in tanti ci invidiano. Eppure c’è chi non comprende che è un nostro punto di forza. Da sempre carenti in materie prime, abbiamo dovuto costruire una “industria” dell’italianità. Altri Paesi, mentre noi litighiamo e ci facciamo male, sfruttano la buona immagine di cui godiamo nel mondo. Tra le contestazioni più rilevanti, in California spicca il divieto di apporre la dicitura “imported from Italy”, nel caso in cui l’origine della materia prima non sia italiana, pur essendo il prodotto “sviluppato” nel nostro paese

Massimo Occhinegro

La leva dell’italianità

L’Italia è uno dei Paesi produttori di olio da olive nel mondo. E’ stato il maggiore produttore molti anni fa, successivamente è divenuto il secondo produttore, posizione scalzata quest’anno dalla Grecia, ma rischia concretamente di retrocedere ancora con l’avanzamento di altri Paesi, questa volta extra europei, quali, in primis, Tunisia e Marocco, non solo quantitativamente, ma anche qualitativamente.

Se andiamo a ripercorrere la storia potremmo sostenere, come denunciato da più parti, che per molti anni i dati produttivi italiani siano stati “gonfiati”, al fine di ottenere maggiori contributi alla produzione dalla Unione Europea.

Se prima i dati produttivi erano divulgati unicamente dalle unioni di produttori che facevano e fanno tuttora leva sul loro potere nei confronti di una pletora di produttori, ed erano inaffidabili anche per la difficoltà oggettiva ad aggregare i dati produttivi di tantissimi produttori, oggi, con l’istituzione del registro telematico SIAN, e quindi con l’obbligo da parte di ogni produttore o confezionatore di trasmettere i propri dati direttamente al Ministero, ci stiamo forse avvicinando alla diffusione dei reali dati sulla produzione italiana.

Tali dati del SIAN, tuttavia, sconosciuti ai più in un continuo esercizio di “scarsa trasparenza” , ancora oggi sono in contrasto con i dati comunicati dalle associazioni dei produttori alle varie istituzioni nazionali ed europee, e inoltre presentano palesi contraddizioni che li rendono ancora inaffidabili. (LEGGI QUI)

In ogni caso, sappiamo con certezza da decenni che la produzione di olio di oliva italiana non è sufficiente a garantire il consumo interno di olio di oliva nel nostro Paese con un gap variabile dai 350 milioni di litri ai circa 500 milioni di litri, come in questa campagna olearia 2014/2015, rispetto al consumo annuale nazionale.

La cosa più sorprendente è che in un Paese che chiede sempre più “trasparenza” al consumatore medio, tale importante informazione viene sottaciuta, con una complicità storica giornalistica ma anche istituzionale, quasi come se fosse una vergogna.
In aggiunta l’Italia ha da sempre esportato olio di oliva per un quantitativo medio attuale di circa 350 milioni di litri.
Alla luce di quanto sopra dettagliato, l’Italia ha una sotto capacità produttiva attuale, rispetto al prodotto commercializzato in Italia e nel mondo, pari a circa 700 milioni di litri di prodotto.
L’Italia quindi è stata in grado, da sempre, di vendere e affermare nel mondo “l’italianità” ; non solo quindi con un olio prodotto da “mix” o “blend” di olive o oli italiani, ma anche con un olio ottenuto da tagli di oli provenienti da altri Paesi dai quali è costretto ad importare, facendo di necessità virtù.
Se analizziamo anche altri comparti produttivi riscontreremo che molti prodotti “italiani” sono in realtà frutto dell’uso di materie prime “non strettamente” italiane, ma prodotte con sapienza tale da essere apprezzati in molti Paesi del mondo.
E’ il caso del caffè , non certamente italiano ma torrefatto “all’italiana” , è il caso della pasta , realizzata con materie prime di altri origini, è il caso dei prosciutti, dei formaggi e di tanti altri prodotti.

L’Italia, da sempre carente di materie prime, e non solo in campo alimentare, ha dovuto costruire, per il suo successo e la sua affermazione, una “industria” dell’italianità oltre che dell’italiano. Pensiamo ad altri comparti come quello dei macchinari o delle auto o della moda ad esempio dove la capacità tutta italiana del “saper creare” oltre che del marketing, ha fatto superare il forte handicap di essere carente di risorse primarie.

L’Italia e gli italiani hanno avuto ed hanno tuttora il merito di riuscire a vendere quello che non c’è, puntando sulla creatività e sulla trasformazione, grazie a imprenditori capaci ed illuminati. E grazie a tutto questo l’Italia è stata in grado di diventare famosa nel mondo, distinguendosi da altri Paesi anche più vicini, come ad esempio la Spagna e la Francia, che hanno sempre invidiato questo nostro grande know -how.

Per poter sconfiggere lo strapotere dell’Italia soprattutto in campo alimentare, o nella moda, gli altri Paesi concorrenti non hanno potuto fare altro, nella strategia del “make or buy” che comprare marchi italiani, sollevando spesso, l’indignazione dei comuni cittadini ma anche di organizzazioni agricole o industriali.
Un esempio è quello di anni fa, della Galbani (Gruppo Lactalis francese) sul cui sito è riportato:
Tradizione: Dal 1882 siamo sulla tavola degli Italiani e portiamo la cultura dei formaggi italiani nel mondo. Già dalla nascita del “mitico” Bel Paese nel 1906 infatti è cominciata l’esportazione dei formaggi Galbani nel mondo. Oggi siamo il primo esportatore di formaggi italiani e siamo entrati a far parte del 1° gruppo mondiale nel settore caseario, Groupe Lactalis.

Oggi tanti marchi italiani sono di proprietà straniera e ciò ha determinato una diminuzione dell’occupazione nei relativi comparti in quanto sono state anche modificate le fonti di approvvigionamento della materia prima in alcuni casi, e il Paese di trasformazione, in altri casi.

Una fase di declino che sembra essere inarrestabile e i cui responsabili vanno spesso ricercati proprio all’interno del nostro Paese, nelle Lobby che appaiono come “non Lobby” agli occhi del consumatore medio e nei governi nonché nelle istituzioni per via di un loro potere politico non evidente, ma determinante e invadente, che influenza anche i media.

Alcuni ministeri – ad esempio quello dello Sviluppo economico – sono assolutamente latitanti, specie nel comparto dell’olio di oliva, legato com’è solo ed esclusivamente al Ministero dell’agricoltura.
La questione, se vogliamo, è paradossale, considerando la presenza di un forte squilibrio di dipendenza dall’estero della materia prima, e che ha fatto sì che lo sviluppo mondiale del comparto passi attraverso quella che si definisce alle volte “agroindustria” ma che spesso in modo dispregiativo, nonché semplicistico, di fronte a un quadro mondiale qualitativo e normativo molto complesso, viene definito come quello dei “confezionatori”.

Ritornando alla questione dell’italianità, è di pochi giorni fa la notizia di una sentenza di un giudice monocratico dello Stato della California che è scaturita da una class action portata avanti, almeno apparentemente, da un signore che risponde al nome di Rohini Kumar contro l’azienda (oggi di proprietà cinese) Salov, che commercializza nel mondo il noto marchio Filippo Berio.
Tra le contestazioni più rilevanti di cui ci vogliamo occupare, spicca senz’altro quella del divieto di apporre la dicitura “imported from Italy” nel caso in cui l’origine della materia prima non sia italiana, pur essendo il prodotto , “sviluppato” in Italia.

La questione sollevata è molto delicata e, aggiungerei, che la sentenza, al momento, è piuttosto sorprendente. Delicata perché la stragrande maggioranza dell’olio esportato dall’Italia è “Imported from Italy” , come spiegato in premessa, ed è sorprendente perché la questione non è mai stata ad esempio sollevata per altri prodotti alimentari, non solo negli stessi Stati Uniti ma anche in altri Paesi del mondo, semplicemente perché se applicata a livello globale sarebbero lesi i diritti alla concorrenza.
Ad esempio è lecito scrivere a proposito della Galbani, di proprietà francese che utilizza materia prima in prevalenza estera, che “porta la cultura dei formaggi italiani” nel mondo? Ed è lecito che possa usare un marchio Italiano? E’ lecito che sul prodotto finito possa essere riportata la scritta “Product of Italy”?

Facciamo qualche altro esempio che possa chiarire meglio l’idea. L’Italia è esportatrice di diversi prodotti alimentari quali ad esempio prosciutti o formaggi o pasta. Per questi prodotti nessuno ha sollevato eccezioni nel momento in cui, pur usando materie prime estere, per la carenza delle stesse, si scrive “product of Italy” o “made in Italy”. Seguendo lo stesso ragionamento anche questi prodotti, non solo non dovrebbero poter portare la suddetta dicitura, ma anche la scritta “imported from Italy” sarebbe proibita, pur essendo lavorati nel nostro Paese.

Se così fosse, limitandoci al comparto alimentare, e il discorso vale per l’olio così come per tutta una serie di prodotti, si lascerebbe campo libero a tutta una serie di prodotti “sounds italian” che non hanno nulla a che fare con l’Italia se non per il semplice marchio “italianeggiante” come già accade con molti prodotti. In questo caso, quindi, si rischierebbe una esplosione di prodotti dal nome echeggiante l’Italia, ma che in Italia non hanno né stabilimento produttivo, né direzione, né ovviamente materia prima.
E’ il caso nella moda, di “Massimo Dutti” dal nome italiano ma di proprietà al 100% spagnola, per intenderci, ma gli esempi potrebbero essere davvero tanti.

D’altra parte, se pensiamo al nostro Paese che importa caffè o olio di arachidi o di girasole , solo per fare qualche esempio, cosa si dovrebbe riportare in etichetta? Olio di arachidi “Made in USA” nonostante l’azienda confezionatrice è italiana? Oppure “Made in Colombia”, per il caffè; o ancora “Made in Canada”, nel caso della pasta? Il problema non si spiega evidentemente neanche con il concetto della trasformazione prevalente.

E’ evidente che qualora passasse questo principio sarebbe il tracollo dell’economia italiana, perché potrebbe contare solo ed esclusivamente sul suo “Made in Italy” (molto relativo nei quantitativi) con un aumento delle frodi connesse per apparire tale, mentre il sacrosanto diritto di dire che il prodotto è “importato” dall’Italia, quale è nella realtà , sarebbe bandito, equiparando il “sounds Italian” al prodotto realizzato ed esportato dall’Italia. La stessa industria americana “dell’immagine italiana” avrebbe un assist e ringrazierebbe.

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