Economia

Nei Paesi dell’ulivo

Avete mai sentito parlare di olivicoltura biorigenerativa? Va oltre il concetto di biologico e serve per garantire olive di maggiore qualità, più salutari e naturali. A questi aspetti si aggiungono le problematiche derivanti dai patogeni, come nel caso della verticillosi. Infine, nella rassegna stampa internazionale di questa settimana emerge il dato di una anomalia: a trainare i consumi mondiali di oli da olive non sono più Italia e Spagna

Mariangela Molinari

Nei Paesi dell’ulivo

Questa settimana la rassegna stampa comincia riprendendo il tema dell’ultima edizione di Olio Officina Festival: Io sono un Albero. Su Olimerca, infatti, si portano i riflettori sulla coltivazione dell’ulivo e la produzione di olive, sottolineando la necessità di un approccio equilibrato, rispettoso dei cicli naturali della natura e del benessere di tutta la filiera e di chi vi partecipa col proprio lavoro. È su questo che si basa la “olivicoltura biorigenerativa” che, come assicura l’esperto Juan Vilar nel suo sito web, garantisce frutti di maggiore qualità, più salutari e naturali. Certo, questo tipo di coltivazione suppone un cambio radicale e un allontanamento da una visione meramente economica, che intende l’uliveto come una macchina produttiva.
L’olivicoltura biorigenerativa va, in realtà, oltre quella biologica: non riguarda semplicemente il rifiuto della chimica a favore di soluzioni più naturali, ma prende in considerazione l’intero ecosistema in cui l’uliveto è inserito, con il fine di mantenerlo in equilibrio. Il che, in fondo, è un ritorno all’agricoltura dei nostri antenati e, al contempo, un passo avanti verso l’ottimizzazione degli uliveti tradizionali di montagna. Secondo Vilar, questa olivicoltura non solo è a vantaggio della natura, ma porterebbe gradualmente i prezzi dei prodotti bio e realizzati con un occhio di riguardo alla sostenibilità alla portata di tutti.

Restiamo in tema di coltivazione passando, però, alle pagine di Agroinformación, dove il dito è puntato sulla grande attenzione mediatica rivolta alla Xylella fastidiosa, che ha finito col mettere in ombra un’altra patologia devastante per gli uliveti, soprattutto di nuovo impianto: la verticillosi. Oggi è questo, infatti, il maggior pericolo fitosanitario del comparto, per tutta la Spagna ma particolarmente minaccioso per province come Jaén, dove si contano oltre 68 milioni di ulivi su 600mila ettari, e Cordova (353mila ettari).
L’agente patogeno che la provoca è un fungo, il Verticillium dahliae, che, oltre a specie arboree come l’ulivo, attacca colture erbacee e orticole.
Secondo Juan Carlos Romero, dei servizi tecnici di Asaja-Córdoba, negli ultimi anni tra lo 0,8 e il 2% della superficie degli uliveti provinciali ne sono stati affetti, ma il problema sono gli scarsi strumenti con cui combatterlo. Tra questi vanno annoverati l’uso di varietà resistenti di ulivi, un’adeguata potatura e la solarizzazione, una tecnica di geodisinfestazione sostenibile: sul terreno liberato da tutti i residui della coltura precedente, lavorato e irrigato, si stende un film di plastica e lo si lascia per una quarantina di giorni all’azione dei raggi del sole. Le alte temperature sviluppate nei primi strati del terreno hanno un’azione di sterilizzazione e abbattono entro certi limiti la carica fitopatogena.
Dal canto suo, Juan Luis Ávila di COAG-Jaén (Coordinadora de Organizaciones Agrarias y Ganaderas de Jaén) calcola che almeno 20mila ettari in territorio andaluso siano già stati affetti da verticillosi.
Cristóbal Cano, segretario generale di UPA Jaén, l’organizzazione che raggruppa e difende gli interessi dei piccoli e medi agricoltori, sostiene che questa fitopatologia ha guadagnato terreno parallelamente all’incremento delle superfici coperte a ulivo negli ultimi 15-20 anni su suoli destinati in precedenza alla coltivazione di ortaggi o cotone. Le spore del fungo, infatti, possono sopravvivere per anni nella terra, in forma latente.
Si tratta certamente di una questione di notevole gravità sulla quale le università stesse stanno conducendo studi e ricerche.

Cambiamo argomento ritornando sulle pagine di Olimerca, dalle quali apprendiamo che gli esportatori tunisini di olio di oliva puntano a incrementare il valore delle vendite sul mercato statunitense di un buon 40% da qui al 2020. Con questo obiettivo è stato lanciato il progetto “Export Lab” da parte del Centro di sviluppo delle esportazioni CEPEX, in collaborazione con la camera di commercio statunitense a Tunisi.

Restiamo in tema di economia passando a Revista Almaceite, che in un ampio articolo sottolinea come i maggiori Paesi produttori di olio di oliva a livello mondiale, concentrati nel Mediterraneo e con Spagna, Italia e Grecia in testa alla classifica, predichino bene e razzolino male. Se da un lato, infatti, le loro esportazioni hanno messo a segno una crescita costante in più di 140 mercati dei cinque continenti, dall’altro i consumi interni continuano a calare. Tanto che negli ultimi dieci anni il consumo complessivo di olio nei Paesi produttori europei è diminuito di ben 500mila tonnellate. Nel 2005 in Italia e in Spagna, insieme, il consumo domestico di olio di oliva in tutte le sue categorie superava gli 1,4 milioni di tonnellate, mentre oggi non arriva al milione.
La crisi economica che ha colpito in particolare la classe media, l’accesa concorrenza da parte di altri grassi vegetali, come l’olio di girasole e di semi, il cambiamento delle abitudini alimentari nelle giovani generazioni, la scarsa natalità e l’incremento dei pasti fuori casa hanno certamente contribuito a questo trend. Nelle ultime campagne, dunque, sono stati mercati quali gli Usa, il Brasile, il Giappone, l’Australia, il Regno Unito, la Francia, la Cina, il Messico e il Sud-Est asiatico a trainare i consumi mondiali di olio di oliva, compensando i cali registrati nei Paesi dell’ulivo.

In apertura una foto di Giorgio Sorcinelli (lo sguardo tra gli olivi a Saltara, in provincia di Pesaro e Urbino)

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