Economia

Un olio a filiera corta?

Quanto può valere garantirne la genuinità e autenticità con un contatto diretto produttore-consumatore non solo tra gli amici e i parenti stretti, ma anche con amici che si trovano a migliaia di chilometri di distanza? Ai produttori di olio californiani e australiani facciamo un grande favore se li liberiamo dalla concorrenza dei grandi oli italiani suggerendo loro gli argomenti per difendersi dai produttori italiani...

Wan Zu

Un olio a filiera corta?

Filiere corte. Qualche anno fa fu proposta questa espressione che viene ormai utilizzata correntemente, ma l’uso che se ne fa mi sembra seriamente alterato rispetto alle intenzioni iniziali.

Secondo me il concetto di filiera corta non ha tanto a che fare con la lunghezza chilometrica della filiera, quanto con la lunghezza della filiera delle responsabilità. Un produttore che produce l’olio con le proprie olive in Sicilia e poi lo vende ad un consumatore di Amsterdam o di Los Angeles è il protagonista di una filiera corta, cortissima. Mentre un ristorante che fornisce frutta e verdura della sua regione ma passando attraverso un paio di grossisti e un commerciante al dettaglio non può parlare di filiera corta.

C’è un problema di visibilità, di trasparenza, di responsabilità, di etica e di garanzia ed è questo che dovrebbe distinguere le filiere corte da quelle lunghe.

Propongo che la definizione di filiera corta sia la seguente: “Si dice filiera corta quella in cui un produttore che è responsabile di tutta la filiera fornisce il suo prodotto al consumatore finale”.
Ho sottolineato i due punti critici, in corrispondenza dei quali possono nascere degli equivoci.

E il “chilometro zero”?

Le mode, si sa, diventano presto dei pregiudizi, cioè qualcosa di cui non si può discutere senza essere tacciati di arretratezza o di insensibilità. Basta riflettere sulle mode del vestire o su quelle delle canzoni o dei comici: guai a dire male di quelli che “vanno di moda”.

Una di queste mode è quella del chilometro zero, che ha in realtà un fondamento solidissimo: non c’è alcun dubbio che un prodotto fresco raccolto e mangiato dove è prodotto – se è di buona qualità – è meglio, e talora molto meglio, di un prodotto raccolto, conservato e trasportato chissà dove per essere mangiato. Ma deve essere in partenza di buona qualità e valorizzato in piatti di buona qualità sensoriale e salutistica, altrimenti il beneficio del chilometro zero è molto modesto.

Ci sono prodotti – e l’olio extra vergine di oliva è uno di questi – che possono mantenere una qualità elevata per uno o anche due anni se prodotti e conservati in maniera appropriata. Forse molti loro estimatori capaci di comprenderne, apprezzare e pagare il valore sono al di là dell’oceano oppure all’altro capo dell’Europa. Quanto può valere garantirne la genuinità e autenticità con un contatto diretto produttore-consumatore non solo tra gli amici e i parenti stretti, ma anche con amici che si trovano a migliaia di chilometri di distanza?

Certo, ai produttori di olio californiani e australiani facciamo un grande favore se li liberiamo dalla concorrenza dei grandi oli italiani suggerendo loro gli argomenti per difendersi dai produttori italiani…

Ho incontrato giorni fa un amico veramente infatuato dal concetto del chilometro zero e dentro di me riflettevo sul fatto che si muove in SUV anche per andare al bar e alla Messa della domenica.

Non sono un rivoluzionario: volevo dire semplicemente che la realtà è più complessa e più interessante di quella che ci viene presentata dalle mode, soltanto questo.

La foto di apertura è di Olio Officina Festival

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