Economia

Un’operazione trasparenza per l’olio da olive

Le più grandi aziende olearie italiane adottano spesso strategie difensive e preferiscono camminare sul velluto, senza rischi nè responsabilità. Eppure tutto deve partire dal know-how del blend, un punto di forza che alcuni invece condannano, nonostante sia necessario per “aggiustare” oli fuori limite. Le strategie un cambio di passo

Massimo Occhinegro

Un’operazione trasparenza per l’olio da olive

Le più grandi aziende olearie italiane adottano spesso strategie difensive e non “osano” innovare, e con ciò rischiare. Preferiscono camminare sul velluto, quasi come se l’imprenditoria non implicasse anche l’assunzione di rischi e responsabilità

Partiamo dalla banale, ma doverosa premessa, che l’Italia è in deficit produttivo di olio di oliva.

Tutte le aziende olearie devono per forza di cose acquistare da altri Paesi. La bilancia sicuramente pende più dalla parte della Spagna, che offre i prezzi più bassi in assoluto, in una concorrenza globale che fa del prezzo l’arma competitiva principale.

A farne le spese, in questa bagarre, sono in primis i produttori, e non solo quelli italiani.

La distribuzione italiana non aiuta, anzi peggiora la situazione, causando un continuo circolo vizioso. Chiede prezzi bassi e gli imprenditori oleari sono costretti a loro volta a chiederli ai produttori, e poi ancora una volta, in una spirale che sembra senza fine.

La distribuzione chiede “olio extra vergine di oliva”. Lo richiede prevalentemente a prezzo basso, giacché la stessa distribuzione ha i propri competitors che , almeno in Italia, puntano sui prodotti civetta da volantino (tra cui l’olio), per attirare i consumatori all’interno delle proprie superfici di vendita.

All’estero, in estrema sintesi, si è alla mercé dell’importatore e del distributore, i quali nella catena del valore spesso sono quelli che marginalizzano di più.

Il risultato è che molte aziende sopravvivono pur in presenza di utili estremamente bassi, grazie alle banche. Se solo queste ultime decidessero di “chiudere i rubinetti” del credito, alcune tra queste chiuderebbero, con tutto ciò che ne conseguirebbe in termini di ricaduta occupazionale diretta e indiretta dell’indotto (produttori di bottiglie, di cartoni, di tappi, eccetera).

La cosa non è di poco conto, visto che ad acquistare gli oli italiani non sono certo gli spagnoli o i greci o i tunisini, ma molte tra le stesse aziende olearie italiane, e anche questo è un dato di fatto, mai dichiarato soprattutto dalle associazioni dei produttori.

Anzi l’Italia “oliandola” che esporta maggiormente, ha dovuto sopperire a questo crescente deficit produttivo, acquisendo sul campo il know-how del blend. L’arte del blend è anche necessaria per “aggiustare” valori chimici altrimenti fuori limite, sia per peculiarità territoriali tipiche che per microclimi avversi.

Questa preziosa conoscenza viene vista dall’esterno, anche dalle stesse Istituzioni, non come “assoluto punto di forza” e quindi come un valore su cui puntare, ma piuttosto come un punto di debolezza, da difendere o peggio, da condannare.

Gli artefici dei “blend”, conseguentemente, sono visti come “alchimisti”, piuttosto che per quello che realmente sono, ossia profondi conoscitori delle materie prime.

Per cambiare lo stato delle cose serve dunque un cambio di passo.

Cosa fare allora? Non è certamente questa la sede per tracciare le strategie, nonché le politiche commerciali che secondo me andrebbero perseguite. Cercherò quindi di dare alcuni suggerimenti, augurandomi che qualcuno tra i lettori di Olio Officina Magazine li colga.

Per prima cosa, sarebbe necessaria un’operazione trasparenza, che miri alla diffusione della cultura del prodotto.

– Tutti i confezionatori, senza vergognarsene, dovrebbero citare le varietà di olive usate nella composizione del blend sia che si tratti di oli europei (ad esempio: Spagna o Grecia) sia nel caso in cui si tratti di oli ottenuti da cultivar italiani, suggerendone magari gli abbinamenti con il cibo. Tale sforzo deve essere perseguito necessariamente partendo a monte del processo produttivo, costringendo quindi i produttori, anche esteri, a dichiararlo, indipendentemente dalla qualità dell’olio.

– Dovrebbero iniziare a commercializzare i monovarietali, inserendoli stabilmente nella propria gamma di prodotti.

– Non dovrebbero avere remore nell’inserire in etichetta, anche frontale, e in maniera chiara e leggibile , l’origine degli oli. Non è un tabù, ed è anzi un comportamento virtuoso, perché va nella giusta direzione della trasparenza: chi acquista oli di massa, continuerà a farlo indipendentemente dall’origine, ma in aggiunta potrà meglio comprendere le differenze di prezzo degli altri oli posti in commercio.

– Sarebbe anche auspicabile l’introduzione di oli completamente realizzati con oli spagnoli o greci o australiani o cileni, tunisini o di altri Paesi.

– Caratterizzare le caratteristiche gustative del prodotto, spiegando che le sensazioni di pungente e amaro, sono assolutamente attributi positivi e peculiari del prodotto ottenuto con olive frante “giovani e fresche”.

La comunicazione in etichetta è la prima comunicazione di massa valida e di reale impatto, con il grande vantaggio che non comporta alcun costo.

Il consumatore italiano, o estero, merita la conoscenza approfondita dell’olio che sceglie, e seguendo le poche “istruzioni” anzidette, imparerebbe a distinguerne le caratteristiche, per poi decidere quale acquistare. Ciò rappresenterebbe, inoltre, un’importante differenziazione rispetto ai prodotti della concorrenza estera.

Pensiamo al caffè Illy, che recentemente ha introdotto la monoarabica di caffè di diversa origine: Brasile, Guatemala, Etiopia.

Anche in questo modo si fa cultura di prodotto.

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