Alle radici dell’Alleanza dei contadini
L’attuale Confederazione italiana agricoltori, nota con l’acronimo di Cia, ha origine da un’esperienza unica, utile da conoscere e approfondire. “Noi dobbiamo essere orgogliosi delle conquiste conseguite in questi settant’anni”, ci confida lo storico dell’agricoltura Alfonso Pascale. “In Italia il processo di trasformazione da paese prevalentemente agricolo a paese prevalentemente industriale si è concluso nel giro di una generazione. In altri paesi europei, il processo ha avuto tempi molto più lenti”

Nell’ambito dell’iniziativa di Cia Umbria “Coltivare valore sostenere comunità”, che si è svolta a Bastia Umbra il 29 marzo 2025, c’è stata una sezione dedicata alla storia e alle radici dell’Alleanza dei contadini a settant’anni dalla nascita.
Intervista ad Alfonso Pascale
Quali furono le principali ragioni che portarono alla nascita dell’Alleanza dei contadini?
La ragione di fondo è stata quella di dare dignità e capacità di rappresentanza ai contadini in modo autonomo dai governi, dai partiti e dai sindacati dei lavoratori dipendenti. Il fascismo aveva inquadrato le categorie agricole nello stato corporativo. Dopo la caduta di Mussolini, Paolo Bonomi, con alcuni funzionari della ex Federazione fascista dei coltivatori diretti, aveva fondato nel 1944 una sorta di “partito contadino” associato alla Dc. Si era ricostituita la Federterra che aderiva alla Cgil. “Mi avete fatto presidente di una grande idea”, esclamò, a conclusione dell’assemblea costitutiva dell’Alleanza, Ruggero Grieco, con quel senso di autoironia che lo caratterizzava. La battuta serviva a sottolineare la difficoltà del percorso che si stava avviando. Una difficoltà che dipendeva soprattutto dal ritardo con cui era stata presa la decisione. Il ritardo era dipeso da difficoltà ideologiche.
Quali sono state le difficoltà ideologiche? Passiamole in rassegna…
Nei principali paesi europei, il movimento socialista era nato nelle città o nelle fabbriche. In Italia, invece, era sorto nelle campagne. E questa specificità va collegata alle antiche tradizioni civili del mondo contadino del Mediterraneo. Ai riti di ospitalità o alle veglie nelle serate invernali o allo scambio di mano d’opera o all’idea di vicinato legata ad una reciprocità di diritti e doveri tra persone che abitano terre o case contigue. Erano forme concrete di relazionalità con cui gli individui si aiutavano vicendevolmente. Una sorta di ruralitudine, rimasta inconsciamente nei caratteri di fondo degli italiani. In noi sono radicati semi come la libertà individuale che sa conciliarsi con lo spirito comunitario o come il senso dell’intangibilità della dignità umana che sa integrarsi con lo spirito di fraternità. Semi reinventati e rafforzati, sul piano teologico e filosofico, dal Cristianesimo. Su questo capitale sociale si erano innestati alcuni movimenti nelle campagne: “La boje!”, gli “Scarolianti”, le prime “leghe” bracciantili. Il faticoso passaggio dalla spontaneità all’organizzazione era stato favorito dall’incontro tra il movimento dal basso dei contadini e l’opera di propaganda dei primi “apostoli” del socialismo.
Agli inizi del Novecento erano sorte le prime organizzazioni di rappresentanza sociale. Ed erano state proprio le campagne a edificarle per prime. La Federterra era nata nel 1901 prima della Cgil che sarà costituita nel 1904. E in quel congresso si era consumato il primo scontro ideologico tra due visioni di rappresentanza contadina. La prima prefigurava un’organizzazione prettamente bracciantile. L’altra aperta anche ai ceti intermedi, ai mezzadri, affittuari, compartecipanti, coloni e piccoli proprietari coltivatori. La soluzione trovata era ambigua: fare due sezioni distinte, a patto che tutti operassero per la socializzazione della terra. Una parola d’ordine marxista in contrasto con le aspirazioni dei contadini.
Nel frattempo, si era avviato un processo di formazione di contadini proprietari. Grazie alle rimesse degli emigrati, un flusso continuo di moneta pregiata aveva permesso a braccianti e contadini poveri di comprare circa un milione di ettari di terra. Dopo l’avvento del fascismo, in alcuni settori della sinistra si era avviata una riflessione sulla crisi della democrazia e tra le cause della dittatura era stata individuata anche la mancanza di adeguate organizzazioni autonome delle diverse categorie sociali. Era, pertanto, maturata l’idea che i “piccoli contadini” o “contadini poveri” divenuti proprietari avrebbero potuto esprimersi come una categoria con pari dignità rispetto alle altre. Su impulso di Grieco, tra il 1924 e il 1926, era stata sperimentata, in alcune realtà del paese, una forma di organizzazione di piccoli contadini autonoma dal sindacato operaio. L’idea era il frutto di un ripensamento autocritico per aver sacrificato agli schematismi ideologici lo sviluppo di idonee forme di rappresentanza delle campagne. Tuttavia, il sogno di un’autonoma organizzazione dei contadini era stato spazzato via dal fascismo: Grieco era dovuto riparare in un lungo esilio fuori dell’Italia per 18 anni. Tornato nel suo paese dopo la caduta del fascismo, Grieco aveva ripreso a coltivare il suo sogno.
Alla base della nascita dell’Alleanza c’era, dunque, una riflessione che veniva da lontano sulle cause che, nel primo dopoguerra, avevano portato al fascismo. Tra queste cause c’erano la spaccatura tra Nord e Sud, tra città e campagne, tra industria e agricoltura e tra operai e contadini e la mancanza di una seria politica per il settore primario. Era una riflessione sugli errori commessi dai partiti democratici e dalle organizzazioni di rappresentanza sociale e sull’Italia dall’Unità in poi per capire i nodi storici non ancora risolti.
Quanto è stato fondamentale il senso di unità tra gli agricoltori nelle prime lotte sindacali e come la partecipazione del mondo agricolo ha aiutato i dirigenti a raggiungere quegli obiettivi?
Come ho già detto, nella cultura contadina mediterranea non c’è il conflitto e la contrapposizione ma la collaborazione e l’aiuto reciproco. Quella cultura relazionale e comunitaria ha profondamente intriso di sé il pensiero e la visione su cui si costruivano le proposte e le lotte dell’Alleanza. Una cultura che molti di noi dirigenti che non venivamo da una famiglia contadina abbiamo dovuto acquisire lavorando su noi stessi. Ci siamo, infatti, sottoposti ad un percorso di immedesimazione per imparare modi di pensare, linguaggi, tavole valoriali che ci hanno permesso di rappresentare al meglio la categoria.
Noi dobbiamo essere orgogliosi delle conquiste conseguite in questi 70 anni. In Italia il processo di trasformazione da paese prevalentemente agricolo a paese prevalentemente industriale si è concluso nel giro di una generazione. In altri paesi europei, il processo ha avuto tempi molto più lenti consumati nell’arco di uno o due secoli. E tale esito lo si deve per gran parte alla capacità dei contadini, organizzati in moderne associazioni di rappresentanza, di trasformarsi in imprenditori. Ai contadini si deve anche la trasformazione di molte aree del paese da territori malsani e di miseria in territori vivibili, il cui volto civile e sociale non ha nulla a che vedere con quello precedente. La modernizzazione dell’agricoltura italiana, nel contesto della “rivoluzione verde”, portò ad una crescita produttiva esponenziale e alla conquista dei mercati internazionali. Tanti fattori e mezzadri, tramutatisi in artigiani e piccoli industriali, continuarono a tessere relazioni tra imprese, associazioni, banche locali e amministrazioni municipali, dando vita ai distretti industriali. Sulla spinta di una sensibilità ai problemi ecologici, negli anni Settanta, diverse cooperative di giovani dettero vita al fenomeno della nuova ruralità, da cui sono nate le esperienze di agricoltura sociale.
Le tappe del nostro percorso da contadini a coltivatori e, poi, da coltivatori ad agricoltori, quando nel 1992 assumemmo la denominazione di Cia, correggendo quella del 1977, segnano un processo di ricomposizione del mondo agricolo e di superamento di antichi conflitti. La parola d’ordine “Agricoltura, industria, servizi: un patto tra pari per il progresso” è solo un esempio di tale evoluzione. Sotto la guida illuminata e autorevole di Giuseppe Avolio, un prestigioso socialista che era stato nei lager nazisti, abbiamo elaborato un pensiero comune e costruito un sistema efficiente di servizi, per inserire una categoria percepita come “un mondo a parte”, nelle forme proprie di una democrazia liberale, nella società e nell’economia, con pari dignità rispetto ad altre forze. Alla fine del percorso abbiamo sentito comunque il bisogno di distinguerci dagli altri agricoltori e dalle loro organizzazioni. Siamo, infatti, diventati sì agricoltori ma a “modo nostro”. L’unità si realizza sempre nel rispetto della diversità.
A distanza di 70 anni, come possiamo trasmettere il valore delle conquiste sindacali di allora alle nuove generazioni, affinché comprendano l’importanza di quella storia e si sentano parte di essa?
Innanzitutto, coltivando la memoria. Le aziende, le organizzazioni e le istituzioni, di qualsiasi tipo, sono magazzini di ricordi, contenitori di un vissuto individuale e collettivo da mettere a disposizione di una nazione, contenitori dove poter recuperare il lascito di tante esistenze transitate, l’esperienza umana e professionale, le idee, piccole o grandi, geniali o secondarie, i principi e i valori che hanno contribuito a far crescere la loro reputazione.
Organizzando la propria memoria, qualsiasi azienda o ente o istituzione costruisce il proprio passaporto identitario con cui recitare un ruolo attivo nella sfida della progettualità. Una progettualità che serve per essere protagonista del cambiamento e non subirlo. Non si tratta di elaborare storytelling in una logica di marketing. Ma di ricostruire pezzi di storia sociale, con un approccio scientifico e in dialogo costante con ricercatori e studiosi. Si tratta di raccogliere le storie di vita di tanti di noi. Ogni individuo è ciò che è stato, così ogni organizzazione è ciò che è stata.
Il succo della nostra storia è che abbiamo avuto sempre la capacità di giocare d’anticipo. Siamo riusciti a prevedere processi e cambiamenti che avvenivano nella società e abbiamo accompagnato il mondo che rappresentavamo ad adattarsi, in una posizione preminente, nel nuovo che si apriva.
Se vogliamo continuare a fare rappresentanza, dobbiamo avere un pensiero alimentato da valori che per gran parte ci derivano dalla nostra storia. Una storia che dobbiamo conoscere e valorizzare. Dobbiamo, tuttavia, avere un pensiero fatto anche di capacità di previsione e di sguardo lungo nel futuro. Nei prossimi anni, bisognerà governare tre processi.
Quali?
Il primo: l’innalzamento delle temperature nelle nostre grandi città planetarie. Il secondo: l’invecchiamento sempre più accentuato della nostra popolazione. Il terzo: l’arrivo sempre più impetuoso di migranti economici e climatici dal Sud del mondo.
Le “migrazioni verticali” (stagionali e definitive) dalle pianure delle città planetarie verso le periferie d’alta quota (alta collina e montagna) porterà quest’ultime a “nuova vita”. Emilio Sereni, un altro grande presidente dell’Alleanza dei contadini, intellettuale poliedrico detenuto per cinque anni nelle carceri fasciste, riteneva il “paesaggio verticale” la caratteristica preminente della nostra Italia. Ebbene, il nostro “paesaggio verticale” è una grande opportunità per affrontare i problemi di una popolazione invecchiata. Mentre, l’arrivo di nuove popolazioni è motivo di speranza per rendere di nuovo abitabili, in una condizione di relativo benessere, le nostre aree più interne. Valorizzando il lascito delle culture contadine e il patrimonio di valori dell’Alleanza, il “modo nostro” di essere agricoltori potrà avere un ruolo essenziale per lo sviluppo sostenibile del paese.
In apertura, dipinto di Joaquin Torres García, foto di Olio Officina
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