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Giuseppe Medici e la frattura ecologica

Il mondo agricolo deve molto a questa grande figura del Novecento. Tra i tanti suoi meriti, l’essere stato artefice del titolo V del Codice civile, dove per la prima volta l’agricoltura non compare più nel titolo dedicato alla proprietà ma in quello riguardante l’impresa. Nel 1959 ha promosso l’Istituto nazionale di sociologia rurale per studiare i fenomeni dirompenti che stavano avvenendo nelle campagne. Il 21 agosto ricorre l'anniversario della morte, avvenuta nel 2000

Alfonso Pascale

Giuseppe Medici e la frattura ecologica

Ventiquattro anni fa moriva Giuseppe Medici. Un professore di politica ed economia agraria che, tra il 1948 e il 1976, sedette per 28 anni in Senato, ricoprendo – durante una loro buona metà – incarichi ministeriali. Si racconta che nella sua Sassuolo dell’infanzia, all’amico di famiglia che gli chiedeva cosa avrebbe fatto da grande, il ragazzino rispose: “Il professore universitario, così sarò libero di fare politica come il senatore Vicini”. Un massone molto lontano dalla cultura cattolica. Medici, infatti, alla fine degli anni Trenta scriveva nella rivista “Riforma sociale” di Luigi Einaudi. E nel 1942 entrò a far parte del movimento di liberazione con Manlio Brosio, Leone Cattani, Pietro Campilli ed Ezio Vanoni, svolgendo funzioni di collegamento tra liberali e democristiani. E quando si candidò – auspice soprattutto Giuseppe Dossetti – nel collegio senatoriale di Modena, stabilì per sempre con la Dc un rapporto da ospite, anche quando veniva invitato a fare il padrone di casa.

Medici fu un protagonista della riforma agraria, di cui aveva una sua idea particolare: “In Italia il bisogno di operare in maniera obbligatoria il trasferimento di terre è sentito soltanto in alcune plaghe latifondistiche del centro e del mezzogiorno, dove, accanto all’insoluta questione delle terre demaniali, non mai sopita nello spirito dei contadini, si constata la mancanza di un ordinario mercato delle terre che sono in monopolio di pochi grandi proprietari, spesso assenteisti”. Egli pertanto riteneva che non si potesse e dovesse fare una riforma agraria generale: esigenza non avvertita in modo diffuso e, nello stesso tempo, non necessaria. Soltanto in alcune aree e non in tutte le aree latifondistiche se ne avvertiva il bisogno, laddove c’era un monopolio che impediva il mercato fondiario.

Medici avrebbe voluto più leggi di riforma a seconda dei comprensori. E questo perché ognuno di essi aveva problemi diversi. Ma dopo la legge per la Calabria, se ne fece una sola per tutti gli altri comprensori. Ed egli considerò questa scelta un errore. Si batté, inoltre, per evitare l’enfiteusi come strumento per spezzettare il latifondo, caro alla tradizione riformistica cattolica, preferendo gli espropri. E convinse i suoi interlocutori a renderli onerosi. La collettività doveva pagare gli espropri – egli diceva – perché quelle indennità sarebbero state reinvestite in altri settori. E così avvenne.

Dunque, la connessione molto intima tra riforma agraria e sviluppo complessivo (anche industriale) del Paese, nel pensiero e nell’azione di Medici, era già chiara prima del 1950.

Legata alla riforma agraria c’è la costituzione della Cassa del Mezzogiorno. Per Medici, la riforma agraria in Italia non può prescindere dalla creazione di uno strumento finanziario contiguo e assolutamente connesso a sostegno del Sud. La Cassa deve accompagnare la redistribuzione della proprietà fondiaria con una grande opera di infrastrutturazione. Senza questo elemento, la riforma agraria non avrebbe avuto alcun significato e, in particolare, non avrebbe determinato un vero sviluppo territoriale.

Lo studio delle trasformazioni sociali in modo connesso con l’agronomia, con l’ingegneria idraulica, con l’economia agraria, appartiene alla cultura più profonda del nostro paese. Si tratta di una visione integrata che ha come precursore Carlo Cattaneo che era agronomo, economista, sociologo e filosofo. Una formazione e un insieme di competenze di carattere poliedrico dunque: necessari per potere affrontare i nodi strutturali dell’agricoltura italiana del Nord, del Sud e del Centro.

Questa impostazione fortemente interdisciplinare ai temi dello sviluppo continua nel tempo con Jacini: la cui inchiesta è così caratterizzata. Tale impostazione continua con Serpieri, quando fonda l’Istituto nazionale di economia agraria e realizza il manuale per i ricercatori che dovevano andare a fare le indagini territoriali. In quel manuale ci sono dei questionari per argomenti e ogni argomento è sviluppato in questionari di 38-40 pagine. Serpieri elenca una vasta serie di domande da porre ad agricoltori e contadini che investono tutti gli aspetti della loro vita.

Quando Manlio Rossi-Doria viene mandato in Calabria dal ministro Antonio Segni per preparare l’intervento di riforma agraria, il Professore di Portici elabora lo studio preliminare. E. in tale ambito, approfondisce addirittura il modo di essere delle comunità religiose del comprensorio della Sila. Questo avviene perché c’era nella cultura più profonda del nostro paese l’idea che più discipline dovevano concorrere per costruire lo sviluppo.

C’è, dunque, una tradizione lunghissima di analisi e approfondimenti a carattere interdisciplinare. Lo stesso Medici, prima di diventare senatore fa le sue prime esperienze come capo dell’ufficio studi del ministero dell’Agricoltura. Egli è l’artefice del titolo V del codice civile dove, per la prima volta, l’agricoltura non sta più nel titolo dedicato alla proprietà ma sta nel titolo riguardante l’impresa. Impresa agricola – siamo nel 1942 – che per Medici costituisce l’anello di congiunzione con una cultura d’impresa complessiva.

Medici già allora ha acquisito questa visione che diventa però esplicita negli interventi e nelle leggi degli inizi degli anni Cinquanta.

Quando e in che contesto avviene, dunque, la rottura? Perché nel dibattito pubblico – ancora oggi – quando si parla della storia della Repubblica italiana la riforma agraria non la considera nessuno? Nessuno sembra avere l’idea che senza quel “colpo di ariete” non ci sarebbe stata nessuna modernizzazione del paese e molto probabilmente saremmo rimasti un paese arretrato. Perché avviene questo?

Avviene questo non soltanto perché, nonostante gli sforzi di alcuni suoi esponenti – penso a Sereni e Rossi-Doria innanzitutto – provenienti dalla tradizione culturale dei Cattaneo, Jacini e Serpieri ma operanti in un contesto politico dove non potevano esprimere questa loro potenzialità, abbiamo avuto una sinistra classista e operaista. È davvero paradossale che le forze politiche e sindacali che avevano fatto le lotte per la terra vivessero la riforma agraria e l’istituzione della Cassa come una sorta di sconfitta e non invece come un grande risultato della loro iniziativa. Anziché mettersi alla testa della gestione di quell’intervento di riforma votano contro quelle leggi. Solo Di Vittorio, qualche anno dopo, ammetterà l’errore: “Sono persuaso che il nostro voto sulla Cassa e la riforma agraria ha reso più difficile la nostra azione. Quando c’è un passo avanti determinato dalla nostra lotta dobbiamo votare a favore con chiare dichiarazioni di voto”.

A rimuovere dalla coscienza collettiva del paese la funzione essenziale della riforma agraria nella modernizzazione dell’Italia non fu solo il massimalismo della sinistra. La rottura incomincia nel 1953, quando Pasquale Saraceno elabora, nel secondo congresso della Cassa che si svolge a Napoli, l’idea di abbandonare l’obiettivo di concentrare gli sforzi nel creare le basi di uno sviluppo autopropulsivo dei territori meridionali e di puntare sulla scelta disastrosa dell’industrializzazione forzata dall’alto. Questa idea piace alla Dc, ai partiti di sinistra e ai sindacati. Non a caso, nel 1957, la legge di rifinanziamento della Cassa trova il consenso di tutti, compresi i comunisti che non si fanno scrupolo di votare a favore del provvedimento.

Ma con la nuova filosofia della Cassa si abbandona l’antica tradizione culturale dello sviluppo territoriale autoctono e autopropulsivo (sempre inteso, naturalmente, non in senso autarchico ma compatibile con la “società aperta” e l’”economia-mondo”). E tale rottura incide profondamente su due questioni di capitale importanza per le prospettive dello sviluppo del paese. La prima riguarda l’osmosi profonda tra cultura tecnico-scientifica e cultura esperienziale nelle campagne. A consolidarla, fin dalla seconda metà dell’Ottocento, ci aveva pensato lo Stato sia con l’istruzione agraria che con la ricerca, la sperimentazione e la divulgazione delle innovazioni agrarie, ambiti fondamentali della politica agricola insieme alla bonifica e alle politiche di mercato. Dopo l’approvazione della legge del 1957, nel giro di pochissimi anni, il mito industrialista rompe fragorosamente quell’osmosi. La gran parte dei periti agrari che si diplomano negli istituti tecnici agrari anziché essere assunti dalla pubblica amministrazione per continuare a costituire l’ossatura di conoscenza a supporto delle imprese agricole, vengono assunti dalle imprese produttrici di mezzi tecnici. È qui che avviene la frattura cognitiva che impedisce all’agricoltura di continuare ad evolvere e innovarsi: si produce in sostanza una divaricazione tra economia agricola e cultura scientifica. Si formano specialisti per la vendita dei mezzi tecnici ma nessuno pensa alle necessità dei contadini e degli agricoltori di acquisire nuove conoscenze e crescere in termini di consapevolezza nell’uso dei ritrovati della scienza.

Uno dei primi ad accorgersi di questo disastro culturale è Medici che promuove nel pomeriggio del 22 luglio 1959 l’Istituto nazionale di sociologia rurale (Insor) per studiare i fenomeni dirompenti che stavano avvenendo nelle campagne.

Con Rossi-Doria, tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi dei Settanta, condivide una profonda consapevolezza delle ricadute negative non solo sociali ma anche ambientali di quella frattura. E presiedono, rispettivamente, le commissioni parlamentari sulla difesa del suolo e delle acque e sulla montagna. La loro priorità diventa la ricucitura di quella faglia. Di qui la loro attenzione quasi ossessiva al tema ecologico.

Purtroppo le forze politiche e culturali in quel periodo, anziché riconnettersi con la tradizione culturale italiana, il cui filo rosso si era traumaticamente spezzato nella seconda metà degli anni Cinquanta, guardano esclusivamente alle culture ecologiste d’Oltreoceano. E diventa così impossibile affrontare la questione ambientale in una visione riformista e innovativa. E oggi, a distanza di quarantacinque anni, ancora ci troviamo allo stesso punto.

Nell’Insor, Medici incoraggia Corrado Barberis, che si era formato alla sua scuola, a studiare la nuova ruralità come contesto in cui cementare la divaricazione culturale che si era creata nel Paese. E alla guida dell’Associazione nazionale delle bonifiche, delle irrigazioni e dei miglioramenti fondiari (Anbi) continua, fino al 1996, ad occuparsi della gestione e della tutela del territorio e delle acque irrigue.

In  apertura, foto tratta dal web

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