Guerra all’Ucraina: il grandioso finale di un tiranno psicopatico
Una delle maggiori potenze militari del Pianeta ha brutalmente assalito un paese pacifico e inerme. Tutto il mondo libero è insorto, i mezzi di informazione di cento paesi seguono ora per ora la tragedia, che, giorno dopo giorno, si rivela, con evidenza sempre più inequivocabile, tragedia della follia. Il protagonista accusa il mondo intero, con asserzioni sconnesse e contraddittorie, di falsità, di odio razziale, di ogni colpa immaginabile e inimmaginabile, imponendo alle controparti ed ai commentatori di interrogarsi, con inquietudine crescente, sullo stato della sua salute psichica. Una notizia di stampa ha informato che le autorità statunitensi impegnate nel tragico duello avrebbero incaricato un’equipe di psichiatri di stilare una perizia sul leader russo
La storia non è avara di menzioni del finale di una schiera di grandi despoti, da Alessandro Magno, morto dopo furiose pratiche orgiastiche, a Napoleone, che affrontò il flemmatico Lord Wellington con un’insicurezza incomparabile alla gelida freddezza con cui aveva annientato gli eserciti condotti da tutti i monarchi europei e dai loro più impavidi generali, fino a Mussolini, che seguì le orme del predecessore sulla neve russa sacrificando vanamente migliaia di valorosi montanari italiani, e ad Hitler, che, sulla medesima coltre di neve, pretese il massacro della gioventù nei cui petti l’erede di Mefistofele, il dottor Goebbels, aveva inculcato il fanatismo che assicurava loro, esito delle prodezze nibelungiche, la conquista “der ganse Welt” (del Mondo intero).
Ma, di fronte alla follia del despota russo, i tiranni menzionati non rappresentano che i precedenti remoti dei due autentici predecessori del tiranno, Josif Vissarionovich Dzugasvili, in arte Stalin, e il suo primo collaboratore, il carnefice di migliaia di marxisti non sufficientemente devoti al padrone, Lavrentij Berija, aspirante successore, entrambi assassinati dall’entourage di cui si erano circondati.
Seppure soggetta ad un regime dispotico l’Unione Sovietica dimostrò di avere al proprio vertice, allora, uomini capaci di raziocinio: anche la tirannia comunista doveva applicare i principi di razionalità necessari ad assicurarne la continuità.
E quegli uomini decisero, ed eliminarono chi quella razionalità non era, palesemente, più in grado di seguire.
Incredibilmente, uomini simili non paiono esistere più nella Russia che sconvolge oggi il Pianeta, suscitando interrogativi insolubili sull’incapacità dei numerosi oligarchi che vantano un posto tra i più opulenti cittadini del Globo, costretti, dalle “sanzioni” a licenziare la servitù nelle ville sontuose sulle più fastose coste dei mari del Mondo, e dello Stato Maggiore di quella che fu l’Armata Rossa, due ceti che appaiono incapaci di percepire a quale destino di decadenza, nel quadro mondiale, le prodezze del despota dirigano il paese.
Con tutte le difficoltà di chi si interroghi sul futuro senza possedere l’indispensabile sfera di cristallo, chi scrive reputa che l’essenza di quel futuro possa enuclearsi riflettendo sui rapporti, presenti e futuri, legano la Russia alla Cina.
La prima determinata a costituire una potenza mondiale seppure avendo eradicato, al suo intero, ogni imprenditorialità economica, ogni ricerca scientifica libera, ogni espressione culturale che non ricalcasse il testo “capitale” di un ideologo tedesco le cui elucubrazioni filosofiche, storiche ed economiche non costituivano che una variante dell’allora imperante Positivismo, una filosofia che ben poco di costruttivo ha lasciato in eredità ai posteri. Naufragato, come poteva prevedersi, matematicamente, dal testo di Marx, il sogno della “dittatura del proletariato”, l’attuale successore di Stalin ne ha riesumato i postulati più insensati, ricalcando il già consunto copione, con i prevedibili risultati.
Un rilievo che non può non essere integrato dall’annotazione che la definizione di Marx degli imperi dell’Est, che classificò, con palese disprezzo, “despotismi asiatici”, si ritorce contro l’autore, che deve essere riconosciuto quale ispiratore di tutte le versioni “aggiornate” dei medesimi “despotismi”.
La seconda, la Cina, realizzazione assolutamente originale della dottrina dell’ideologo germanico, siccome imposta ad un popolo che ha unito, per millenni, un immenso orgoglio nazionale (nella propria, aggiornata analisi, Federico Rampini lo definisce orgoglio razziale), alla consuetudine della cieca ad un costume civile cui era assolutamente estraneo ogni concetto di libertà individuale.
La formula per operare la singolarissima sintesi è stata congegnata da un’oligarchia che ha saputo, genialmente, unire alle peculiarità antiche l’adozione integrale dei metodi enucleati, in quattrocento anni, dalla scienza europea, di cui non sussisteva, in Cina, alcun precorrimento (essendo ridicolo definire tali le pure significative realizzazioni pratiche, costituenti espressioni del più evoluto artigianato, che nulla ha a che fare con la scienza sperimentale di matrice europea).
Asseriscono il contrario i gerarchi cinesi, che non è possibile discernere quanto ignorino la storia della scienza e quanto mentano, in ossequio alla considerazione che la cultura politica orientale ha sempre professato per la menzogna.
Rampini dimostra che quell’oligarchia è protesa alla conquista del Pianeta, da asservire alla più antica delle civiltà, che non è stata, per millenni, né avrebbe potuto essere, marxista, se mai civiltà marxista fosse mai esistita.
Che il proposito fosse stato intrapreso con straordinaria abilità è assolutamente palese: è sufficiente, a dimostrarlo, l’esame della fisionomia delle colonie cinesi in Italia, protese a suggere, come i serpenti “vaccari” succhiavano, di notte, nelle Maremme, il latte dalle vacche lattanti, destinando, lentamente, a morte il vitello, con l’unica differenza che i vitelli non verrebbero, ora, uccisi, ma destinati a servire i nuovi padroni.
Destinati siccome appartenenti ad una razza inferiore: tra le pagine più sconcertanti di Rampini un posto precipuo riveste quella che narra l’impossibilità di giovani appartenenti ad etnie periferiche di essere accettati da una scuola di Pechino, siccome gli istituti della capitale possono iscrivere solo ragazzetti dell’etnia dominante, la razza Han, prevalente nella Cina centrale: l’identica condizione dei tedeschi occhiazzurri e biondi della Germania di Hitler.
Se i cinesi autentici, i cinesi Han, reputano di razza inferiore i cinesi delle etnie montane al limite della Mongolia, appare del tutto palese quale sia considerato il grado di inferiorità di europei, indiani, africani.
Ricalcando lo spartito nazista, agli Han spetterà, di diritto, il dominio del Mondo, un dominio per il cui conseguimento da qualche decennio l’oligarchia cinese sta realizzando esperienze sempre più promettenti: ricordiamo, ancora, le colonie italiche.
Ma tra le conquiste delle terre diverse del Pianeta appare palese che un obiettivo di peculiare rilievo fosse l’asservimento della Russia: un territorio immenso, dotato di una straordinaria ricchezza di risorse, agrarie, minerali, forestali, governato da una congrega di oligarchi di matrice stalinista adusi a dominare una plebe di miserabili mugiki su una pianura sconfinata, la cui gestione imporrebbe una cultura amministrativa scientifica, tecnologica del livello più elevato.
Quel territorio lambisce, a moltiplicare l’attrazione di Pechino, la Cina per migliaia di chilometri, dispiegando, oltre il confine, un’immensa steppa deserta, una steppa fredda che i mutamenti climatici paiono destinare a convertirsi in smisurata pianura fertile, che potrebbe colonizzare, superando una frontiera puramente convenzionale, la marea crescente dei sudditi cinesi cui la madre patria non offre spazi ulteriori, costringendoli a ricoprire di bitume e catrame la prodigiosa pianura risicola che ha nutrito la Cina nei millenni, elidendo, con cemento e bitumi ogni possibilità che soddisfi le esigenze alimentari del paese destinato alla supremazia mondiale.
Se la meta fosse costituita dalla conquista del Mondo, la prima tappa non potrebbe non consistere nella conversione della Russia nella prima provincia “intercontinentale” del nuovo impero.
E per quella conquista Putin costituiva il cavallo di Troia ideale: impegnato eminentemente, ad arricchire se medesimo dividendo le ricchezze del paese con l’accolita dei complici, tutti egualmente disinteressati al futuro della nazione, avrebbe mantenuto la popolazione in condizioni di soggezione, la condizione ideale per subentrare, nel suo governo, dei nuovi padroni, la tecnologia, e l’economia, in condizioni tali da annullare ogni prerogativa di grande potenza.
Protraendo l’avversione al mondo capitalista, e alla sua tecnologia, dello Stalinismo, lo stato di arretratezza avrebbe imposto, in tempi presumibilmente non remoti, la necessità di ricorrere ad una potenza “anticapitalista” che fosse insieme, tecnologicamente ed economicamente avanzata, un imperativo che non avrebbe potuto essere assolto che stabilendo con la Cina legami inscindibili. Legami, palesemente, di soggezione.
L’argomentazione è, palesemente, ipotetica. Non pare, peraltro infondata: sembra, anzi, a chi scrive, implicitamente confermata dall’atteggiamento dell’oligarchia pechinese di fronte alla guerra di conquista del “piccolo padre” russo.
Un atteggiamento che ha tradito autentico disorientamento. L’Impero giallo ha sostenuto, nei primi giorni dello scontro, le pure assurde ragioni di Putin: la palese difesa del proprio burattino ideale; quando, però, l’intero Pianeta si è rivoltato alla guerra di conquista in stile cannoniere contro una popolazione inerme, una strategia che i cinesi hanno perfettamente memorizzato, i medesimi despoti paiono avere percepito che la scelta di campo per il tiranno furioso li avrebbe irreparabilmente opposti all’intero Occidente, opponendo ostacoli irreparabili al disegno di penetrazione mascherata, progressiva, impercettibile.
La constatazione che la guerra di Putin stava sospingendo un Occidente intorpidito a ritrovare compattezza e determinazione a tutela del proprio patrimonio ideale, costituito dal valore della persona, l’eguaglianza di fronte alla legge, la libertà economica, ha, verosimilmente, costretto Pechino a riflessioni inquiete.
Lo speech d’investitura di Joe Biden, un’allocuzione che invitava l’Occidente a ristabilire, nel Mondo, la forza e il prestigio della democrazia, il giorno della prolusine accolto, verosimilmente, dalla “cupola” cinese, come patetica riesumazione di aforismi settecenteschi, pareva avere assunto, ad un solo anno dalla pronuncia, il significato di bando di sfida planetaria.
Combinando alla possibile resurrezione dell’Occidente libertario quella, altrettanto inquietante, che, se licenziasse il vecchio paranoide, la Russia potrebbe invertire la propria rotta, e, anziché al glorioso Celeste Impero, avvicinarsi al mondo dei parlamenti votati dal popolo, i danni ai disegni di dominio universale perpetrati da un despota al tramonto potrebbero risultare realmente irreparabili.
La foto in apertura è di Olio Officina©, tratta dal Museo della Follia di Lucca a cura di Vittorio Sgarbi, dal titolo Vergine delle ombre di Agostino Arrivabene
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