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Il modello Piemonte per risollevare l’olivicoltura italiana

Negli ultimi due decenni una regione climaticamente così estrema per la coltivazione degli olivi è ripartita con grande determinazione e tenacia, riuscendo a ricavare oli di alta qualità a partire da una pluralità di cultivar, senza sentirsi addosso il peso della tradizione e nemmeno il dovere di un indissolubile legame con il germoplasma autoctono. La parola d’ordine è sperimentare. Trovando nuove vie è possibile far ripartire il Paese

Luigi Caricato

Il modello Piemonte per risollevare l’olivicoltura italiana

Tutte le volte che dico Piemonte, nessuno di quanti mi ascoltano credono per davvero alla presenza della coltivazione degli olivi. Stentano a crederci perché, dicono, il clima non lo consente, ma poi, riflettendo quel tanto che serve per intuire che effettivamente già da tempo si parla di cambiamento climatico, allora, sì, forse qualcosa vorrà pur dire questo mantra ossessivamente ripetuto da più parti del climate change. Gli effetti si vedono, e a volte anche i drammi che ne derivano. Poi, però, torna il dubbio. Mi dicono: “ma si piantano per davvero olivi per ricavarci l’olio?” E allora io, per metterli nelle condizioni di superare l’incertezza, annuncio che se è per questo anche in Valle d’Aosta vi sono olivi, e non certo per scopi ornamentali, Così, vista la fonte credibile, vista anche la persona – che sarei io – ad affermare tale evidenza, tutti alla fine mi credono, stupefatti, e forse anche spiazzati: “ci faranno concorrenza?”, la loro primaria preoccupazione; poi, aggiungono: “sì, ma una gelata li farà soccombere”.

Allora, eccoci a fare il punto. Il Piemonte e la Valle d’Aosta coltivano olivi non per contemplarne la sola bellezza ma per produrre olio. È una olivicoltura che rappresenta numeri certamente esigui, ma in ogni caso significativamente in crescita. Anzi, esponenzialmente in crescita. Fanno una certa impressione. Secondo i dati Ismea la superficie olivicola in Piemonte era di 158 ettari nel 2022 per giungere a 183 ettari nel 2023, con una variazione percentuale del 16%. Le aziende olivicole erano 641 nel 2010 per poi passare a ben 1939 nel 2020, con una variazione percentuale del 202%. La produzione d’olio ha subito, come ovunque d’altra parte, un calo nel 2023, con sole 14 tonnellate, mentre erano 22 nel 2022. Ma, a parte i numeri, conta il fatto che siano in tanti a crederci. Esiste infatti anche il Consorzio per la tutela dell’olio extra vergine di oliva Piemonte, che peraltro comprende anche la Valle d’Aosta. Ne è presidente Marco Giachino. I nomi che possiamo elencare, tra coloro che hanno reso questa regione un nuovo faro per l’olivicoltura sono tanti. Per esempio, l’agronomo Antonino De Maria, che segue tante aziende con grande competenza. E poi vi sono gli imprenditori che ci credono così tanto da essere animati da grande coraggio non sprovvisto di competenza che intendono acquisire di volta in volta documentandosi, studiano, sperimentando. Sta qui la loro forza, il dinamismo propulsivo che li muove e li ispira. Ne cito solo alcuni: Giovanni Maria Bocchino, che si muove con grandi ambizioni, con la sua azienda agricola Santa Caterina a Pinerolo:  non si ferma al solo oliveto, disposto su sei ettari per due mila piante, condotto peraltro benissimo, ma punta anche sul turismo, con un resort dalla chiara impronta oliocentrica. Possiamo proseguire con altri esempi, ma ciò che è necessario ribadire qui è che c’è una regione che ci sta credendo e investe, investe sul futuro.

Giovanni Maria Bocchino, a sinistra, con Luigi Caricato, presso l’azienda Santa Caterina

Perché credo molto nel Piemonte olivicolo e oleario? Perché sono ripartirti con lo spirito giusto. Ripartiti, sì, perché nel lontano passato era presente l’olivicoltura, poi, per varie ragioni, soprattutto per il peggioramento del clima, si è smesso di coltivare, ma sono ancora presenti tracce del passato, olivi secolari, perché, sì, nell’alto medioevo vi erano per davvero tanti olivi. Mai quanto nel meridione, certo, ma si può comunque parlare a pieno titolo di una olivicoltura piemontese. E ora, che dopo secoli è stata ripresa la coltivazione, ovviamente non ci sono agganci tali da permettere di esibire un proprio germoplasma olivicolo e di conseguenza una tradizione, ma tutto ciò è un gran vantaggio non sentirsi addosso il peso vincolante della tradizione e nemmeno il dovere di tener fede all’indissolubile legame con il germoplasma autoctono. La parola d’ordine in Piemonte è sperimentare, perché è solo trovando nuove vie che è possibile innovare, introdurre nuove energie.

Il modello Piemonte sarebbe da imitare perché molte regioni storicamente produttrici si sono sedute sugli allori e producono senza stimoli al cambiamento. Si pensi alle cultivar, sempre le stesse, sempre con questo assurdo refrain delle cultivar autoctone, che minano pesantemente il progresso dell’olivicoltura. Attenzione, però: non si tratta di rinnegare il proprio patrimonio varietale, che anzi va protetto e valorizzato, ma non si può nemmeno rinunciare a cultivar diverse, o alla riscoperta e rivalutazione di varietà che nel tempo sono state abbandonate, e soprattutto occorre puntare a nuove cultivar. Introdurre novità significa dare maggiore respiro, aprirsi a nuove evidenze, verificare, sperimentare, provare e riprovare, non ripetere in modo estenuante il passato fino all’inverosimile.

La fortuna del Piemonte l’ho potuta sperimentare al Castello di Razzano, nel Monferrato, ad Alfiano Natta, in provincia di Alessandria. Qui, nell’azienda di Augusto Olearo (nonem omen) ho partecipato a un incontro lo scorso 16 maggio sull’olivicoltura piemontese con un’attenzione all’area del Monferrato. Ho ascoltato interventi interessanti che sono promesse di futuro. Ho avuto anche modo di degustare una selezione di oli piemontesi, alla presenza degli stessi produttori. Gli oli non erano buoni. Erano extra vergini eccellenti, sorprendenti, fini ed eleganti, nonostante una campagna olearia poco generosa, segno che si sta lavorando bene, non per la qualità ordinaria, ma per l’eccellenza, proprio come in Piemonte si fa con i vini.

Qual è il punto di forza? Al di là della determinazione e competenza degli operatori, il vero punto di forza è non avere il peso del passato, non dover fare i conti con la tradizione che impoverisce e destabilizza. Si è ripartiti da zero per giungere a risultati encomiabili perché non essendoci più traccia di olivi autoctoni (a parte qualche sparuta pianta qui e là, su cui è interessante fare ricerca) le cultivar presenti in campo sono tantissime e diverse, perché si trattava di verificare la loro capacità di adattarsi a un ambiente nuovo, e così con questa spensieratezza, senza portare la zavorra della tradizione, sono scaturiti oli di altissimo pregio.

Sono fortemente convinto che se si ripetesse lo stesso scenario in altre regioni, ci sarebbe molto da guadagnare. Senza rinunciare al patrimonio varietale autoctono, si dovrebbero sperimentare altre cultivar, percorrere nuove vie, non lasciarsi imprigionare dallo status quo. È già un piccolo passo verso la ripartenza, per un’Italia olivicola e olearia stanca e seduta su se stessa, poco incline a rimettere tutto in gioco. Il modello Piemonte è la vera svolta, e va seguito. Le persone qui hanno fatto la differenza, anche attraverso l’associazionismo, il mettersi insieme lavorando per una buona causa. Gli stimoli non mancano, come nemmeno le idee. Mi basti citare l’esempio virtuoso di una figura che riesce a creare ottime sinergie, come la dottoressa Gabriella D’Amico, medico di Alessandria con oliveti in Abruzzo (l’azienda ha nome Collepiccone), sua regione di origine, e ora anche in Piemonte. Lei rappresenta l’associazione delle Donne dell’Olio, come capo delegazione regionale, e attraverso il suo impegno ha dato luogo a nuovi impulsi, come un oliveto cittadino, nel cuore di Alessandria. Anche se sembrano in apparenza iniziative marginali, in realtà sono così propulsive da determinare un effetto domino sulla popolazione, portando la cultura dell’olivo e dell’olio a disposizione di tutti, qualificando così le attenzioni nella scelta degli oli da acquistare e sensibilizzando nel contempo tutti quei produttori che investendo mirano ad avere anche il favore del pubblico. Viva l’olio piemontese, pertanto.

Gabriella D’Amico e l’oliveto urbano ad Alessandria

L’approccio che in Piemonte hanno con l’olivo e con l’olio è quello giusto, energico, professionale prima ancora che passionale, da prendere come modello di riferimento per far ripartire l’Italia dell’olivo e dell’olio.

 

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In apertura, olive a Pinerolo, dell’azienda agricola santa Caterina. Le foto, anche quelle all’interno dell’articolo, sono di Olio Officina

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