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In cosa sbaglia Slow Food in materia di olivicoltura

Impedire una visione moderna di coltivazione degli olivi non è una scelta saggia. La posizione estrema e discriminatoria espressa dal movimento fondato da Carlin Petrini va contro il buon senso e soprattutto contro il progresso. Abbiamo intervistato uno dei massimi esperti in arboricoltura, il professor Salvatore Camposeo, così da rispondere punto per punto alle osservazioni ostili formulate dai dirigenti del movimento nei confronti di una olivicoltura ad alta densità

Luigi Caricato

In cosa sbaglia Slow Food in materia di olivicoltura

È giusto parlare di olivicoltura super intensiva? Molto probabilmente no. Come tale, è diventata un’espressione inappropriata, anche se di fatto è quella che circola abitualmente negli ambienti più ostili all’olivicoltura ad alta densità. Si associa, al termine, una accezione negativa. Tutti coloro che sono fortemente contrari, se non addirittura ostili al progresso, lo sono anche a partire dalle definizioni che ne danno. Per questo motivo, pur di rendere la coltivazione ad alta densità nemica acerrima della tradizione, si finisce con il prendere posizioni antistoriche e antiscientifiche, impedendo di fatto all’olivicoltura l’accesso al progresso, penalizzandola pesantemente rispetto ad altri ambiti economici.

Per chi avesse letto le affermazioni dei dirigenti di Slow Food consiglio di leggere questo articolo: Slow Food contro gli olivicoltori del superintensivo.

Spiace moltissimo la posizione discriminatoria di Slow Food nei confronti di alcuni olivicoltori. Arrivare a ghettizzare le aziende olivicole non è un buon segnale. C’è posto per tutti, per chi decide di coltivare gli olivi secondo logiche cosiddette (impropriamente) tradizionali e anche per chi decide di optare per una olivicoltura moderna. Che senso ha porre veti e negare dignità e spazi di visibilità a quanti investono in olivicoltura pensando secondo altre visioni. Si può arrivare a questa estrema decisione? La questione non si pone sul fatto di essere inseriti o meno all’interno di una Guida agli oli extra vergini, la questione è un’altra: perché discriminare chi lavora coraggiosamente facendosi largo in un’Italia che arretra e non investe più? È un atto gravissimo discriminare.

I detrattori dell’olivicoltura ad alta densità non possono ignorare il progresso, soprattutto perché lo accettano e si servono del progresso per soddisfare le proprie necessità, anche se poi lo rifiutano cocciutamente quando si deve applicare all’olivicoltura. È un atteggiamento di pura ignoranza cui fa da sponda l’ideologia.

Partiamo allora da un cambio di nome, iniziando a parlare di “olivicoltura a parete”, perché se può dar fastidio parlare di “olivicoltura super intensiva” (che è poi un termine ormai superato, non più pertinente) parliamo allora di “olivicoltura a parete”, anche perché è una soluzione sostenibile sul piano economico, ambientale e sociale. Ci sono troppi pregiudizi da superare. Diamoci da fare.

Questa intervista al professor Salvatore Camposeo, docente di arboricoltura all’Università di Bari, è utile a quanti si ostinano a non capire accampando motivazioni pur di giustificare la propria avversione alla modernità e al buon senso.

Salvatore Camposeo

INTERVISTA A SALVATORE CAMPOSEO

Professor Camposeo, è pronto? Possiamo prendere in esame punto per punto ciò che sostiene Slow Food in merito agli olivicoltori che coltivano olivi in altissima densità?

Certamente! Premettendo che tutto ciò che da qui in avanti sosterrò nel corso di questa intervista è frutto di venticinque anni di ricerche e di sperimentazioni agronomiche condotte in aziende reali, ed è supportato dalla migliore e più aggiornata letteratura scientifica internazionale.

Slow Food sostiene che “l’olivicoltura superintensiva, in molte nazioni indicata come la salvezza del settore, è un miraggio: sembra, nel breve periodo, essere più produttiva, ma porta con sé molte criticità.

È davvero così?

Falso! L’olivicoltura superintensiva è nata negli anni Novanta per incrementare significativamente la produzione di olio extra vergine di oliva e per abbatterne i costi di produzione, a cominciare dai Paesi di antica coltivazione, quali la Spagna, il Portogallo e l’Italia. La costanza produttiva è un risultato agronomico che si raggiunge ordinariamente in questi oliveti moderni, a patto di una razionale gestione colturale. Le criticità sono possibili ma legate a un livello di preparazione professionale inadeguato dei tecnici addetti.

Insistono, sempre quelli di Slow Food che l’olivicoltura ad alta densità – o come loro la definiscono in senso spregiativo superintensivo – poco si adatti “alla morfologia dell’Italia (necessita di grandi distese pianeggianti), ha bisogno di investimenti iniziali molto alti (oltre a più ore lavorative anche se meccanizzate), comporta la coltivazione di pochissime varietà di olivo e un ciclo vitale della pianta molto breve (non supera i 20 anni perché diventa antieconomica), con conseguente perdita di un patrimonio di cultivar autoctone (biodiversità) e di olivi secolari, simbolo della nostra olivicoltura e di un paesaggio unico”.

È davvero così?

Falso! L’olivicoltura ad alta densità richiede una superficie minima di cinque ettari, poiché questa corrisponde alla superficie dominata in una giornata lavorativa dal cantiere di raccolta, fornito da aziende contoterziste. Questa dimensione minima non rappresenta un limite reale per l’imprenditore agricolo, né tantomeno per le cooperative agricole. Le macchine raccoglitrici operano efficientemente fino a pendenze del 20% e 25%, essendo derivate dalle vendemmiatrici che da oltre cinquant’anni operano nei vigneti di collina. Gli investimenti inziali sono un paio di migliaia di euro ad ettaro superiori rispetto alla messa a dimora di un oliveto intensivo, ma i tempi di ritorno dei capitali investiti è meno della metà rispetto a questi ultimi. Le giornate annue  di operai sono meno della metà di quelle necessarie per la gestione di un oliveto tradizionale: solo la produttività del lavoro di raccolta è nove volte superiore. La durata economica di un oliveto va distinta dalla sua longevità biologica. In ogni caso, l’olivicoltura secolare e quella monumentale sono abbondantemente protette e salvaguardate da una specifica legislazione nazionale e regionale. Quindi, qual è il timore? Le varietà coltivate ad oggi, dimostrate adatte all’olivicoltura ad alta densità, sono già una decina e nei prossimi anni assisteremo a un ulteriore significativo allargamento della base varietale. Tutto ciò grazie ai programmi di miglioramento genetico dell’olivo messi in atto in Italia e in Spagna, su una specie arborea da frutto ferma, sugli aspetti varietali, all’età di Pericle! Sul significato e sugli aspetti fondamentali del paesaggio agrario italiano rimando alla lettura del libro Storia del paesaggio italiano di Emilio Sereni, ed edito da Laterza.

Sempre Slow Food, sostiene che questo tipo di coltivazione non si adatti “alla crisi idrica, in quanto ha bisogno di molta irrigazione. Per queste ragioni la Guida [agli extravergini] ha posto un limite importante: non ha preso in considerazione le aziende che fanno superintensivo”.

È davvero come dicono?

Falso! Negli oliveti ad alta densità si applicano ordinariamente e con successo le tecniche di irrigazione in deficit idrico controllato abbinate alle tecniche di irrigazione di precisione, che consentono una riduzione dei volumi stagionali di adacquamento fino al 30% rispetto agli oliveti tradizionali in irriguo. Inoltre, l’impronta idrica (water footprint) degli oliveti superintensivi è del 20% inferiore a quelle degli oliveti tradizionali in asciutto. Infine, oggi è possibile, ed è sempre più diffusa, la gestione degli oliveti superintensivi in regime di aridocoltura! Evidentemente la “Guida” intende indurre le aziende olivicole a ‘custodire’ la loro bassa sostenibilità ambientale…

Barbara Nappini, che è presidente di Slow Food Italia sostiene: “È necessario sensibilizzare i produttori sui rischi di questo sistema con motivazioni concrete, come ad esempio la scelta di non inserire in Guida gli oli da impianti superintensivi a partire da quest’anno. Un passaggio politico importante che Slow Food ha voluto intraprendere sperando porti a una riflessione costruttiva su questo fenomeno”.

Ha senso metter in atto questa discriminazione? Può portare a una “riflessione costruttiva” escludere dalle pubblicazioni di Slow Food quanti non si attengono alla tradizione olivicola cosiddetta “tradizionale”?

Si, ha senso discriminare, perché in tal modo si possono separare con maggiore chiarezza l’esercizio dell’agricoltura da quello del giardinaggio! La riflessione sul tema non può essere costruttiva se una delle parti non fonda le sue asserzioni su conoscenze scientifiche ed agronomiche. Per esempio, gli oli extra vergini di oliva provenienti da oliveti superintensivi italiani sono, di diritto e di fatto, oli Made in Italy, a valore salutistico, e attraverso le tecniche di RMN di ultima generazione si possono distinguere inequivocabilmente dagli oli provenienti da altre nazioni, pur estratti della stessa cultivar. E potremmo continuare, confrontandoci sul significato del termine tradizione…

Sulla discriminazione evitiamo di scrivere, perché si potrebbero assimilare queste sensibilizzazioni al pari dell’istigazione all’omofobia, al razzismo, all’apologia di reato in generale e a simili.

E ancora, Slow Food ne fa una campagna di ostilità chiudendo a ogni possibilità di dialogo e confronto: “Le aziende che hanno scelto il superintensivo in Italia, per fortuna, sono per ora limitate, e prevale ancora chi si impegna per valorizzare e conservare il patrimonio olivicolo dell’Italia.

Cosa significa tutto ciò, che chi opta per l’alta densità in olivicoltura va contro il patrimonio olivicolo italiano? Gli olivicoltori del super intensivo sono devastatori dell’ambiente? Meritano forse la gogna pubblica?

Vorrei rassicurare Slow Food: il ricco e invidiato patrimonio elaiografico italiano è al sicuro: continuamente raccolto, custodito e studiato dagli enti di ricerca con finanziamenti pubblici. Tuttavia, giova ricordare che oltre la metà della produzione olearia nazionale proviene da sole cinque cultivar. L’ambiente si devasta quando si adottano tecniche colturali irrazionali: questi casi andrebbero esposti al pubblico ludibrio. La ricerca in Italia è avvezza negli ultimi decenni alle campagne di ostilità: COVID, Xylella, OGM, superintensivo… ma il tempo è galantuomo.

Slow Food con le sue pubblicazioni sostiene e dà voce a chi produce olio con i sistemi tradizionali, quelli, scrivono, “che fanno colture a ombrello e si prendono cura del suolo, adottano inerbimenti mirati per contenere l’uso dell’acqua, salvaguardano la terra e continuano a plasmare il paesaggio”.

Insomma, dobbiamo concludere che chi pratica l’alta densità fa l’esatto contrario?

Assolutamente no! Anzi, chi produce olio con i sistemi olivicoli ad alta densità fa ancora meglio in termini di gestione delle risorse naturali non rinnovabili, come l’acqua dolce e il suolo, ma anche in termini di gestione della fertilizzazione e della difesa fitosanitaria. L’impronta di carbonio (carbon footprint) degli oliveti superintensivi è inferiore di molti punti percentuali rispetto a quella degli oliveti tradizionali condotti in regime di agricoltura biologica. Entrambi plasmano il paesaggio ma con risultati ambientali differenti. La scienza sostiene e dà voce a chi vuole fare agricoltura sostenibile in una cornice di cambiamenti climatici, di mercato, culturali. L’Italia è scivolata al quinto posto nella graduatoria mondiale dei Paesi produttori, e se nulla cambia, continuerà a scivolare, proprio sulla ‘tradizione’. L’Italia è al primo posto al mondo come Paese importatore e commercializzatore. Anche su questi punti invito la presidente di Slow Food a farsi un bell’esame di coscienza… tanto siamo nella Settimana Santa!

In apertura, un oliveto ad alta densità in Sardegna

2 Responses

  1. baldeschi matteo ha detto:

    La cosa “interessante” è che Slow Food non solo non accetta oli provenienti da superintensivi ma addirittura nega la possibilità di partecipare alla guida ad aziende che hanno superintensivo.
    Mi spiego: nel mio caso, per i miei 2 ha di superintensivo non mi hanno concesso di partecipare con gli oli provenienti dai 18 ha di oliveto tradizionali, tra i quali monovarietali di varietà autoctone come Dolce Agogia.
    Chiaramente poi non vi è controllo. Avrei potuto benissimo dichiarare di non avere superintensivo e partecipare ugualmente come hanno fatto in molti, ma per principio volevo essere onesto e portare avanti il mio progetto di olivicoltura.
    A me non cambia assolutamente niente essere o meno nella guida, chi ci perde è Slow Food che sta perdendo la cognizione della situazione ed anche il rispetto del lavoro. Ci andassero loro nei campi a potare, raccogliere etc. etc.

    • Caricato Luigi ha detto:

      Proprio così, si può anche non condividere l’alta densità degli oliveti, ciascuno può pensarla e può agire come crede più opportuno, ma non ha alcun senso impedire agli imprenditori di innovare. L’errore – grave, gravissimo, ingiustificabile, imperdonabile – di Slow Food, sta nell’escludere e nel punire chi procede diversamente dai diktat. È un errore gravissimo, ma è soprattutto un abuso.
      Effettivamente, le prese di posizione ideologiche vengono proprio da chi è estraneo, da chi giudica dal di fuori. Infatti anche l’associazione delle Città dell’Olio ha abbracciato e sostenuto la tesi di Slow Food. In sostanza, vogliono imporre agli imprenditori agricoli cosa fare e come comportarsi. Questo atto di prepotenza paradossalmente viene imposto da chi sta al di fuori dell’agricoltura, non la pratica, ma vive speculando sull’agricoltura, portando avanti un concetto retrogrado di agricoltura, dal sapore nostalgico, che evochi un passato idealizzato.
      Sì, ci andassero loro a lavorare nei campi.
      Grazie per questa testimonianza.

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