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Perché le aree rurali tendono a votare populisti ed estremisti?

Le elezioni che si sono svolte negli ultimi anni in Europa fotografano un quadro che ci spinge a interrogarci presto e con urgenza sui comportamenti di chi vive e lavora in un contesto lontano dalle grandi città. Quali sono le cause che scatenano il malcontento? Perché è così forte il risentimento degli agricoltori nei confronti dell'Unione europea?

Alfonso Pascale

Perché le aree rurali tendono a votare populisti ed estremisti?

Le elezioni in Turingia e Sassonia hanno confermato che le aree rurali contribuiscono in modo significativo ad accrescere le adesioni ai populismi degli estremisti, sia provenienti da destra sia originari della sinistra.

Una delle cause di questo fenomeno va ricercata nell’approccio punitivo della politica europea per l’ambiente. Il cambiamento climatico è un fenomeno reale che, però, richiede un approccio scientifico per affrontarlo. L’Ue preferisce, invece, cedere spesso alle pulsioni ideologiche dei movimenti ambientalisti. E così l’ecologia lungi dal divenire un’opportunità di crescita economica e di creazione di valore, diventa strumento dirigistico per imporre divieti e balzelli burocratici. Una impostazione sbagliata che alimenta un forte risentimento degli agricoltori nei confronti dell’Ue. Una reazione che viene strumentalizzata dai partiti populisti e nazionalisti come si è visto, nei mesi scorsi, con le “proteste dei trattori”.

Solo qualche settimana fa, il 18 agosto, è entrato in vigore il regolamento Ue sul “ripristino della natura” che si applica anche all’agricoltura. Già il titolo della legge ha poco a che fare con la scienza. Non esiste un “equilibrio naturale” da rispettare o da ristabilire. Gli ecosistemi e il bioma non sono in equilibrio, ma in continua, dinamica competizione, con estinzioni e nuove fioriture. Non c’è, dunque, una natura armoniosa e salubre da ripristinare. Le altre specie non esistono affinché noi umani possiamo essere in buona salute, ma competono per le nostre stesse risorse su questo pianeta, cercando di vincere la gara con noi.

È indubbio che le politiche pubbliche debbano occuparsi degli effetti ambientali di origine antropica. E che anche l’agricoltura debba assumere impegni ecologici. Ma occorre rigore e trasparenza nell’individuare i problemi reali da risolvere, senza compromettere inutilmente il potenziale produttivo del settore. Il regolamento prevede che siano gli stati a individuare le misure specifiche, adottando i piani nazionali. Questi ultimi saranno valutati dalla Commissione di Bruxelles e sorvegliati dall’Agenzia europea dell’ambiente. I costi sono a carico dei bilanci nazionali con un finanziamento da parte dell’Ue. Un meccanismo farraginoso che permette sovrapposizioni di competenze e palleggiamenti di responsabilità. Agli agricoltori viene impedito di individuare con certezza le istituzioni con cui prendersela qualora le decisioni dovessero rivelarsi insensate. Il rischio è, infatti, quello di ridurre la superficie agricola utilizzata, con ripercussioni negative sulla competitività del settore e sulla sicurezza alimentare.

La confusione istituzionale conviene ai nazionalisti per poter intrattenere un rapporto ambiguo con l’Ue. L’Unione è necessaria perché assicura le risorse finanziarie, ma, contemporaneamente è da essi rifiutata. La narrazione è nota: “Non siamo contro lo stato nazionale (e come potrebbero esserlo), ma siamo contro le élite liberali di Bruxelles che mirano ad addomesticarlo”. Solo una riforma dei Trattati, che definisca con chiarezza gli ambiti della sovranità europea e di quella nazionale ed eviti la sovrapposizione di competenze, potrà togliere l’erba di cui i nazionalisti si alimentano.

In apertura, foto di Olio Officina

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