Storia di vita di un irregolare
C’è un libro, fresco di stampa, che affronta la storia del rapporto tra politica e società mediato dalla cultura. Ed è un racconto autobiografico, quello di Pippo Oddo, costruito secondo le regole scientifiche della ricerca storica. Attinge infatti a un’ampia gamma di documenti e testimonianze e solo rare volte alla memoria

A dispetto del titolo, quest’ultima fatica di Pippo Oddo (Le tante vite di un sogno incompiuto. Riflessioni autobiografiche, Navarra Editore, Palermo 2025, pp. 600) non è una sorta di compendio delle sue opere. Altri lavori sono sicuramente in preparazione per allietare i suoi affezionati lettori. Questa voluminosa opera è, invece, un racconto autobiografico, costruito secondo le regole scientifiche della ricerca storica, cioè attingendo ad un’ampia gamma di documenti e testimonianze e solo rare volte ricorrendo esclusivamente alla memoria. Un racconto per riflettere sui diversi contesti che si sono susseguiti nell’arco di oltre tre quarti di secolo e sulle proprie scelte, come specifica il sottotitolo.
Si tratta, dunque, di una storia di vita che vede strettamente intrecciarsi i ricordi raffrontati con le fonti e la ricostruzione ragionata del contesto, in cui il vissuto è collocato. Non ci sono soltanto i fatti sociali, sindacali, politici e istituzionali, ma anche la storia delle idee e quella della cultura materiale, delle economie, della scienza, dei paesaggi, delle mentalità, del costume, delle abitudini, dei modi di dire, dei dialetti, dell’arte, dei riti religiosi. Una ricchezza di elementi di varia natura disciplinare, che interagiscono, s’incrociano e si confrontano in modo mirabile e sono restituiti al lettore con una scrittura affascinante e coinvolgente, nella forma di una storia dello sviluppo sociale ed economico della Sicilia.
Ogni storia di vita emerge anche come emozione e scoperta portando alla luce verità impreviste. E così diventa essa stessa una fonte. Sicché, tutte le potenzialità già presenti quando le vicende si svolgevano, ora che quelle vicende sono rivissute dall’autore, le potenzialità medesime, dicevo, si prospettano come semi d’avvenire, possibilità aperte al futuro. Qui sta il senso vero del titolo: il sogno è ancora incompiuto ma ci sono tutte le premesse per realizzarsi. L’impegno di Oddo e delle generazioni di dirigenti e operatori che con lui hanno collaborato, non è stato, dunque, inutile. Anzi, i suoi frutti sono soltanto differiti nel tempo. E la speranza è che siano copiosi.
Questo è un libro che affronta la storia del rapporto tra politica e società mediato dalla cultura. E dimostra che, quando la cultura è stata posta in condizione di svolgere la sua funzione vivificatrice, sul rapporto tra politica e società si è innestata la democrazia. Quando, invece, i partiti e le organizzazioni di rappresentanza hanno smesso di avere relazioni organiche coi centri di ricerca e con il mondo della cultura, la loro funzione si è immiserita ed è diventata marginale.
Non a caso, fino agli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, una parte dei dirigenti politici e sindacali era formata anche da intellettuali o, comunque, da personalità che non hanno considerato quell’impegno una sorta di professione come le altre ma come una scelta di vita. Un impegno, dunque, da alimentare sviluppando la dimensione intellettuale del proprio operare fino a considerare obbligatorio concludere un’esperienza raccontandola, prima di passare a quella successiva.
La nostra memoria rappresenta il filo di continuità dell’io, indispensabile per orientarci nel presente e proiettarci nel futuro. E per utilizzare bene la memoria, il filosofo e storico delle idee Remo Bodei suggeriva di imparare a staccarci periodicamente dalla quotidianità e dedicarci alla riflessione, individuale e collettiva.
Pippo ricorda alcuni dirigenti, da lui incrociati nel suo percorso, che hanno lasciato testimonianze tra storia e memoria, come Pio La Torre e Turi Miccichè. Ma si possono aggiungere altri protagonisti della storia della Confederazione italiana agricoltori e delle organizzazioni da cui essa ebbe origine, come Attilio Esposto, Peppino Avolio, Angelo Compagnoni, Oddino Bo, Emilio Pegoraro, Angelo Ziccardi. I quali avevano svolto la loro attività accanto a un intellettuale e politico, dotato di una cultura straordinaria, come Emilio Sereni.
Leggendo il libro di Oddo si comprende con estrema chiarezza che non c’è capacità di elaborare strategie politiche o sindacali, di relazionarsi con le istituzioni e altri soggetti politici e sociali e di mobilitare le persone senza un pensiero. E si tocca con mano che un pensiero per tradursi in azione non nasce spontaneamente e non è il risultato di mero volontarismo. Esso può essere prodotto se si progettano e si realizzano percorsi e sedi dove convogliare costantemente l’apporto di saperi interdisciplinari, umanistici e scientifici, di sensibilità culturali plurali, di istanze sociali diversificate. Senza un pensiero che dia identità culturale e valoriale ad un’organizzazione non si formano nuovi gruppi dirigenti e la sua funzione di rappresentanza si estingue.
Il libro si divide in quattro parti quante sono le “diverse vite” dell’autore. La prima riguarda gli anni vissuti nel borgo natio, Villafrati, in provincia di Palermo. È un affresco che richiama le umili origini e i valori solidali della sua famiglia, da sempre schierata contro la mafia. Un meticoloso ricercare nell’infanzia e nell’adolescenza le radici di una vocazione a fare il prete o di quella a rappresentare, sul piano politico o sindacale, persone “a cui mancava di giorno il pane e di notte le coperte”. Due diverse vocazioni che, non raramente, giungono a sovrapporsi e forse a identificarsi perfino. E così, quando diventò evidente che la prima non poteva essere coltivata per mancanza di mezzi economici, fu facile agevolare il rigoglio della seconda. Se al centro dell’interesse di una persona – come nel caso di Pippo Oddo – c’è il bene comune, ci vuol poco a conciliare perfettamente ragione pubblica e religione.
La seconda parte è dedicata al periodo della militanza socialista. Una scelta sofferta perché in contrasto con la tradizione comunista di famiglia, ma pienamente coerente con l’ideale della giustizia sociale che non può mai contrapporsi con quello della libertà. Una scelta che prevedeva come obiettivo l’unità della sinistra. E fu per questo che la militanza socialista continuò nel Psiup fino allo scioglimento di quel partito. Nel contempo, dopo la laurea in Giurisprudenza, iniziò l’impegno sindacale a tempo pieno prima nella Fillea-Cgil di Palermo e poi nella Camera del lavoro di Ragusa per organizzare in quella provincia, dal nulla, il sindacato degli edili. Sicché, la scelta dell’unità della sinistra diventò scelta di vita e trovò nuova linfa nel rapporto fecondo con le iniziative di Danilo Dolci a Partinico sullo sviluppo partecipativo dal basso. Un rapporto che valse a Pippo come una sorta di vaccino dai rischi di operaismo indotti sovente dall’attività sindacale. E, soprattutto, una sorta di immunità da quel mito che tanto affascinava, dalla seconda metà degli anni Cinquanta, la sinistra meridionale: industrializzare forzatamente dall’alto il Mezzogiorno per poter formare finalmente, anche in questa parte d’Italia, la classe generale che avrebbe dovuto trasformare il paese. Un mito che collimava, nei suoi effetti concreti, con l’interesse dei gruppi dirigenti della Dc di conservare il consenso attraverso le assunzioni clientelari nelle fabbriche. In questa parte dell’opera, il racconto delle vicende politiche e sindacali s’infittisce nell’affresco del clima arroventato del Sessantotto e del lungo “autunno caldo”. “Mi sono chiesto tante volte – scrive Oddo – cosa sia stato per me il triennio 1969-1971, ma la sola risposta che sono riuscito finora a darmi è che quegli anni di transizione verso la maturità pesano sul mio vissuto quasi fossero stati trenta”. Una lunga giovinezza con tutte le effervescenze e le incoscienze che essa comporta.
La terza parte riguarda, dapprima, l’impegno sui temi dell’agricoltura come segretario provinciale della Federbraccianti di Palermo dal 1972 al 1976; un quadriennio vissuto pancia a terra per radicare il sindacato in tutte le aree rurali, con forme di lotta inedite (come il rifiuto del lavoro improduttivo nel settore della forestazione), e per raddoppiare così il numero degli iscritti all’organizzazione. Segue, poi, l’impegno sui temi del disagio giovanile nella segreteria della Camera del lavoro di quella provincia dal 1976 al 1978. Sono gli anni dello scioglimento del Psiup (1972) e dell’adesione al Pci. Un’adesione che non scalfisce per nulla l’anima libertaria e critica del protagonista e che, dunque, si dispiega in tante gratificazioni ma anche in non poche sofferenze. Drammatico è il vero e proprio processo staliniano inflitto dalla federazione comunista a lui e al segretario provinciale della Cgil per aver concluso la complessa e combattiva vertenza bracciantile con la conquista di un contratto provinciale molto vantaggioso per la categoria. Ma probabilmente il risultato concreto e misurabile di una lotta sindacale veniva declassificata come “riformista” dall’élite “rivoluzionaria” al comando di quel partito (c’era, infatti, in quel periodo Achille Occhetto a capo dei comunisti siciliani). E ancor più drammatico è il generoso tentativo di saldare i movimenti giovanili all’iniziativa politica e sindacale della sinistra; tentativo condotto con grande coraggio ma che si va a scontrare con le forti resistenze di chi si nega al dialogo fino a provocare una frattura talmente profonda da mettere in gioco la stessa credibilità e autorevolezza della sinistra, fino a quel momento in espansione e, proprio da allora, avviata verso una fase discendente e, via via, d’inesorabile declino. Restano di quel periodo i semi di una nuova cultura rurale lasciati dal movimento dei giovani per la valorizzazione delle terre incolte o mal coltivate che Oddo promuove con forte passione civile circondato da un muro di scetticismo e ostilità.
Nella quarta e ultima parte l’orizzonte diventa regionale con l’incarico di segretario aggiunto della Federbraccianti. È la fase dell’impegno sindacale che s’impasta con lo studio approfondito dei problemi idraulici agrari e di difesa del suolo e con l’approccio allo sviluppo locale come nuovo paradigma dell’intervento pubblico nell’economia. Intense sono le relazioni con gli istituti di ricerca e con l’Università di Palermo e numerose le iniziative che scaturiscono da tali rapporti. È in tale contesto che Pippo arricchisce il suo bagaglio di conoscenze e competenze che lo porterà a non abbandonare più l’approccio ai temi dello sviluppo nella loro globalità a partire dalla dimensione territoriale. Una crescita che non è solo personale ma riguarda l’insieme della struttura che dirige: la quale passa da sindacato degli elenchi anagrafici a motore di grandi lotte per lo sviluppo.
Ma intanto terrorismo, mafia e forze eversive vengono ad intrecciarsi, convergere e colludere in modo oggettivo e aperto, lasciando nelle strade le loro scie di sangue innocente a partire da quello del presidente della Regione, Piersanti Mattarella. E volge al termine la fase dei governi di solidarietà nazionale e delle giunte autonomiste, aprendo un lungo periodo di incertezza politica.
Oddo frequenta per un anno l’associazione dei consorzi di bonifica siciliani e avvia una trattativa che si conclude con la stipula di un contratto integrativo dei lavoratori forestali. Non c’è angolo della montagna siciliana che egli non gira per sindacalizzare la categoria. Si occupa dell’industria conserviera, di cantine sociali, di commercio all’ingrosso dei prodotti ortofrutticoli e agrumari. Ma il tarlo che lo scava dentro è come fa sì che la cultura antimafia fosse acquisita dal sindacato e come, con tale cultura, affrontare i nodi del caporalato e del mercato del lavoro in agricoltura, sempre più caratterizzato da manodopera magrebina. Un tema arduo che ha a che fare coi limiti di un’imprenditorialità agricola capace di innovare a macchia di leopardo. E dove le imprese non investono, non solo per loro responsabilità ma anche per una carenza dei centri di ricerca e sperimentazione nel collegarsi con il mondo produttivo, lì alligna il caporalato gestito dalla mafia. Forse a questo avrà alluso il presidente dell’Assemblea regionale siciliana, Michelangelo Russo, quando, in modo un po’ spiccio, dice a Pippo di combattere gli agrari assenteisti e non gli imprenditori. Fatto sta che, nel giro di qualche giorno da quell’incontro, Pippo viene spostato dalla Federbraccianti al patronato INCA.
È il 1980 e Pippo Oddo ha solo 40 anni. “Avevo gioito – annota sconsolato – tutte le volte in cui i bisogni delle popolazioni rurali trovavano momenti significativi di convergenza unitaria con le lotte degli operai del Nord. Ma oramai tutto ciò era alle mie spalle e non c’era più speranza di tornare ad avere un ruolo nella battaglia per un nuovo meccanismo di sviluppo, che d’altronde cominciava ad avere contorni sempre più sfocati. Mi sentivo come uno dei tanti ex picciotti di Garibaldi, che nel 1860 avevano combattuto contro l’esercito borbonico e, subito dopo la proclamazione del regno d’Italia, furono destinati ai servizi di sussistenza. Ma era andata peggio al mio bisnonno mastro Ciccio il sellaio, l’ex condannato a morte dal Tribunale di guerra borbonico, il garibaldino che, dopo che si guadagnò i gradi di sottotenente, fu collocato a riposo illimitato dal governo italiano. Mi identificavo tanto con l’antenato da decidere, quando mi trasferii nella stanza dell’INCA, di ricostruirne la storia con la speranza che, studiando il suo caso, avrei potuto conoscere meglio me stesso. Male che potesse andarmi, mi dissi, allenandomi a scrivere cose diverse da relazioni e circolari sindacali, avrei creato le condizioni per un ‘atterraggio morbido’ alla futura condizione di pensionato attivo”.
Pippo aveva già cominciato ad accarezzare questa idea due anni prima, quando era andato in visita, per la prima volta, alla biblioteca dell’Istituto Gramsci siciliano. Era spunta allora in lui una nuova vocazione, dopo quella del prete e del sindacalista: la vocazione dello scrittore di memorie e di studi storici. Ed ora la volontà di corrispondere a questa diversa chiamata interiore diventa il modo per affrontare con dignità e intelligenza la sua condizione di “sindacalista dimezzato”. Si collega così agli storici Francesco Renda, Maurizio Rizza, Orazio Cancila e Giuseppe Carlo Marino. Consulta Danilo Dolci, che lo invita a conciliare la ricerca storica con quella antropologica fondata su interviste. Altri studiosi entrano, pertanto, nella sua “nuova vita”: Luigi Maria Lombardi Satriani, Nino Buttitta, Aurelio Rigoli, Salvatore Massimo Gangi, Ferdinando Maurici, il gesuita Francesco Salvo.
Nel frattempo, nel giro di un paio d’anni, cadono sotto i colpi della mafia Pio La Torre e il suo autista Rosario Di Salvo; Carlo Alberto Della Chiesa, sua moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo; Rocco Chinnici, il portiere della sua abitazione e gli uomini della scorta; il giornalista Pippo Fava. Il clima politico e sociale si fa sempre più torbido. E anche i rapporti umani nei partiti e nelle organizzazioni sindacali s’immiseriscono. Nella stessa Cgil la selezione dei dirigenti non è più basata sulla qualità delle persone ma sui giochi di potere e la ridondanza degli organismi serve a coprire tale involuzione.
Cos’era successo di così eclatante da favorire tale deriva? Dopo il “miracolo economico” e il varo di alcune riforme importanti approvate dai governi di centrosinistra, si era avviata una lenta crisi del sistema politico, che poteva essere fermata solo affrontando i nodi istituzionali che tenevano bloccato il paese. Ma i rapporti nella sinistra, anziché rafforzarsi per preparare un nuovo terreno di riforme, si erano deteriorati. In occasione del terremoto in Basilicata e in Irpinia, nel novembre 1980, Enrico Berlinguer aveva promosso la cosiddetta “seconda svolta di Salerno”. La città più vicina al “cratere” dove si era svolta una riunione della direzione comunista sull’onda emotiva suscitata dalla denuncia di “colpe gravi” nei soccorsi e dalla richiesta di “punizioni esemplari per i responsabili”, pronunciata in un messaggio televisivo dal presidente della Repubblica, Sandro Pertini. Il segretario del Pci introduceva un’imbarazzante ambiguità nel dibattito pubblico. Per un verso, parlava di “alternativa”, lasciando intendere che abbandonava l’obiettivo di creare governi imperniati sulla Dc, e, per un altro verso, contrapponeva tale alternativa all’”alternativa di sinistra”. Il Pci proponeva un governo “diverso”, composto da “capaci e onesti” di tutti i partiti, ma che non poteva essere più a guida democristiana. Non lo diceva espressamente ma, in realtà, pensava ad un governo di soli comunisti. Non precisava, infatti, con quali partiti allearsi. E non accennava minimamente all’esigenza che, per guidare un governo, avrebbe dovuto prima trasformare il proprio partito. Questo infatti manteneva il legame con Mosca; e Berlinguer non aveva alcuna intenzione di romperlo definitivamente. Non voleva rinunciare all’identità comunista. La base del partito era stata educata al culto della tradizione, alla consapevolezza di una missione storica, all’orgoglio di partito, al mito della continuità e non aveva gli strumenti per affrontare un’elaborazione e ricostruzione della propria identità senza traumi. L’appello alla diversità costituiva, pertanto, un rifugio rassicurante. La purezza dei diversi veniva preferita alla possibilità di vincere e di incidere davvero sulla realtà. Così come per il “compromesso storico”, anche alla base di questa nuova strategia, vi erano sempre gli stessi elementi: un profondo pessimismo sulla capacità del capitalismo di uscire dalla crisi e di affrontare gli storici mali della nazione, l’idea del “crollismo” e un bisogno incontenibile – vissuto come un’utopia irrinunciabile – di fuoriuscire dal capitalismo. Alla sinistra italiana e, in particolare, ai comunisti mancava la “Bad Godesberg” che, nel 1959, aveva trasformato la socialdemocrazia tedesca. Ed erano in pochi ad averne coscienza.
Si era arrivati in queste condizioni alle elezioni politiche del 1983, in cui a fronte di un quasi 33% di voti alla Dc si era registrato l’oltre 40% di consensi al Pci e al Psi, ma nessuno dei due partiti aveva avuto la lungimiranza di proporre alla Dc e alle altre forze di centro un governo a guida socialista che vedesse unita la sinistra. Un governo per fare cosa? Quelle riforme costituzionali molto necessarie per ammodernare le nostre istituzioni e di cui molto si parlerà quando ormai la crisi del sistema politico si sarà consumata completamente. Una crisi che veniva favorita proprio da partiti privi di qualsiasi strategia e incapaci di rinnovare la propria cultura politica.
Il libro racconta come il lungo conflitto a sinistra si fosse ulteriormente aggravato con il decreto di San Valentino, approvato dal governo Craxi, e il relativo referendum perduto dai comunisti. Nella sinistra mancava un pensiero che la unificasse. E tutto, dunque, era diventato mero gioco tattico senza più una visione di medio e lungo periodo. In siffatto contesto di completa incertezza Pippo Oddo pensa ad una via di fuga dalla Cgil. Accetta prima la candidatura a sindaco di Villafrati che però non va a buon fine. E successivamente, nel 1986, accoglie la proposta di Vito Lo Monaco, con cui aveva lavorato nella Federbraccianti di Palermo, di dirigere il patronato INAC nella Confcoltivatori regionale.
Vito aveva lasciato il sindacato nel 1972 per dedicarsi al partito che lo aveva impegnato nel risanare i conti in un paio di federazioni siciliane. Al termine di tale esperienza, gli era stato chiesto di sostituire Girolamo Scaturro alla Confcoltivatori regionale. Era arrivato nella giovane organizzazione (fondata nel 1977) nel vivo di un percorso graduale ma serrato di pedagogia politica collettiva a cui ci eravamo dedicati dapprincipio sotto la guida di Avolio e Ognibene e poi anche di Bellotti. La posta in gioco per il nuovo gruppo dirigente che si andava formando era l’acquisizione di una cultura politica aperta ai temi del mercato e dell’impresa, capace di confrontarsi con una realtà agricola che non era più quella del dopoguerra, ma che era stata investita da trasformazioni profonde e si presentava già fortemente integrata nella dimensione europea e mondiale. C’eravamo allineati alle conoscenze più avanzate sui temi dell’ambiente e del governo del territorio coi due convegni di “Spoleto 1” e “Spoleto 2”. Ed eravamo diventati interlocutori credibili dell’insieme delle organizzazioni di rappresentanza dell’industria e dei servizi con la prima conferenza economica che aveva per titolo “Agricoltura, industria, servizi: un patto tra pari per il progresso”. Memorabile era stato, in quella occasione, lo scontro con il responsabile agrario del Pci, Marcello Stefanini, che negava alle organizzazioni imprenditoriali la capacità di conseguire relazioni paritarie senza l’intervento decisivo dello stato. Negava, cioè, al mondo delle imprese agricole la capacità di dotarsi di organizzazioni economiche in grado di confrontarsi con il mercato in modo paritario con altri soggetti.
Ricordo che, in quegli anni, collaboravo strettamente con Bellotti per elaborare questo nuovo approccio che permetteva di scrollarci definitivamente di ogni residua cultura movimentista ereditata dalle organizzazioni contadine. Ma dei dirigenti della sinistra di quell’epoca, solo chi aveva fatto il nostro percorso poteva comprendere il valore di quella vera e propria svolta politico-culturale.
Vito si portava dentro l’anima movimentista coltivata nel sindacato e nel partito. Non riuscirà mai a disfarsene. Nella presidenza regionale della Confcoltivatori doveva però fare i conti con un dirigente socialista di elevato spessore culturale, Michele Russo, che era stato, invece, protagonista di quella svolta fin dai tempi del suo impegno nazionale nel Centro delle forme associative e cooperative (Cen.F.A.C.) con Bellotti. E, dunque, preferiva tenere a debita distanza dall’organismo esecutivo persone come Pippo Oddo, di temperamento libertario e uomo di cultura. Ma il gusto per l’innovazione creativa permette al nuovo arrivato di introdurre nell’organizzazione che lo aveva accolto con spirito d’amicizia temi cruciali che diventeranno sempre più patrimonio comune: la prevenzione ambientale, la salute dei coltivatori, l’interesse dei consumatori a disporre di prodotti agricoli e zootecnici salubri e di qualità. Temi che avrebbero aperto ad un rapporto di confronto e collaborazione con il mondo della ricerca e dell’università e con le associazioni ambientaliste.
Nel frattempo, esce l’opera prima sulla storia di Villafrati che accredita Pippo come storico e antropologo e come intellettuale poliedrico in perfetta sintonia con la molteplicità delle funzioni che il mondo rurale esplica nella società contemporanea. È un successo editoriale notevole che lo incoraggia ad avviare l’opera due: la storia di Modica, già quarta città della Sicilia e sede di celebri accademie. Sarà pubblicata nel 1988 in coedizione da Dherba e il Centro studi “Feliciano Rossitto”. Anche questa susciterà grande interesse. E così altre opere narrative e saggistiche che si susseguiranno. Nel 1990 sarà insignito del Premio della Cultura della Presidenza del Consiglio.
Nel novembre 1989 tutto cambia. La Repubblica democratica tedesca rinuncia al Muro di Berlino e riapre le frontiere. E questo è il segnale definitivo che l’ordine di Jalta è tramontato. Il segretario del Pci Occhetto coglie l’occasione per annunciare alla Bolognina la svolta che avrebbe portato nel 1991 alla costituzione del Partito democratico di sinistra (Pds). Tutti i partiti sono colti di sorpresa da quello stravolgimento geopolitico e tentano di ricollocarsi. La Federconsorzi si avvia al tracollo e tale evento costituirà un serio colpo per la Coldiretti che la controllava da una posizione dominante.
La Confcoltivatori aveva svolto a marzo il suo IV congresso ed io ero entrato a far parte della presidenza nazionale. E ricordo che eravamo arrivati a quell’assise molto affaticati. Nonostante il successo della conferenza economica, era ancora parziale la nostra analisi delle modificazioni che si erano prodotte nella società e che avevano trasformato i rapporti tra città e campagne. Erano, infatti, cambiati in modo vistoso i comportamenti degli agricoltori e dei soggetti rurali che ormai non si distinguevano più dagli altri soggetti degli ambienti urbani.
Non riuscivamo a concretizzare quel “forum permanente tra organizzazioni agricole, ambientalisti e mondo della ricerca” che era stato proposto a Spoleto. Il tema del rapporto tra chimica e agricoltura, scoppiato con lo scandalo dei pomodori al Temik nella piana di Nola e Acerra e del vino al metanolo, ci vedeva sulla difensiva. Non eravamo pronti a raccogliere la domanda che proveniva dai pionieri del biologico di un riconoscimento mediante la creazione di un’associazione specifica. Essa si costituirà solo verso la fine degli anni Novanta, quando ormai normative e assetti organizzativi si saranno stabilmente delineati senza la possibilità concreta di orientarne il percorso.
Solo nel 1988 avevamo costituito l’Associazione giovani in un’assemblea nazionale sul tema: “I giovani protagonisti di una nuova dimensione economica dell’impresa agricola”. E quel nostro ritardo dipendeva dal timore dei rischi di contaminazione coi movimenti giovanili, che negli anni Settanta avevano costituito cooperative agricole spesso con finalità sociali.
Vivevamo, inoltre, una contraddizione: l’agricoltura era un settore che si stava sempre più femminilizzando ma la presenza delle donne imprenditrici era sottorappresentata negli organismi confederali e nei ruoli dirigenziali. Nonostante l’impegno di Paola Ortensi che dirigeva l’Ufficio Donne, il gruppo dirigente non si decideva a promuovere un’associazione dove le donne avrebbero potuto esprimere interamente la cultura della differenza e dare la possibilità alla Confederazione di giovarsene.
Tali ritardi non ci consentivano di guadagnare lo spazio reso disponibile dalla Coldiretti, in preda ad una crisi di rappresentanza dovuta al lungo periodo di commistione dei propri interessi di organizzazione con il potere pubblico. Il timore di oltrepassare i confini settoriali nelle campagne e la resistenza nel costruire spazi autonomi di partecipazione per valorizzare le specificità impedivano alla nostra giovane Confederazione – che pure mostrava di possedere l’agilità per farlo – di stare nei processi reali e contribuire a governarli. Una prospettiva quest’ultima che, se perseguita, avrebbe potuto moltiplicare la sua forza organizzata.
I primi mesi del 1988 li avevamo dedicati ad iniziative con la parola d’ordine: “Rispettare l’agricoltura, ingiustamente accusata di essere inquinatrice, parassitaria e dissipatrice”. Il nostro settore stava diventando bersaglio quotidiano di una comunicazione aggressiva e spesso fondata sulla disinformazione e su un atteggiamento antiscientifico da parte dei movimenti ambientalisti. Noi eravamo ben consapevoli che l’agricoltura non solo subiva l’inquinamento delle attività urbane e industriali ma essa stessa, a sua volta, determinava impatti ambientali. E avevamo alle spalle una discreta elaborazione sul rapporto nuovo da costruire tra agricoltura e ambiente. Epperò non trovavamo, nelle associazioni che si erano intestata la causa ambientalista, interlocutori credibili con cui confrontarci. Il nostro errore fu, pertanto, di non costruire alleanze solide con quella parte del mondo scientifico più aperto alle istanze ecologiste ma con un approccio critico e riformista e assumere noi stessi, come Confederazione, l’opzione ambientalista come tratto identitario irrinunciabile. Avremmo dovuto dire con nettezza all’opinione pubblica: «Noi agricoltori siamo i veri ambientalisti». Dimostrarlo nei fatti e comunicarlo costantemente ai cittadini.
L’occasione per una svolta di questo tipo ci veniva offerta dalla Comunità europea proprio in quegli anni e non l’avevamo colta. Anzi ci eravamo arroccati anche a livello europeo così come stavamo facendo sul piano nazionale. Nel luglio 1988 la Commissione aveva pubblicato il Rapporto “Il futuro del mondo rurale”: primo testo ufficiale in cui veniva proposto di estendere le competenze della Pac alla politica di sviluppo rurale. Il documento partiva dalla constatazione che l’evoluzione economica e sociale del secondo dopoguerra aveva prodotto un profondo cambiamento nelle aree rurali, a tal punto da rendere necessario un aggiornamento concettuale. La stessa idea di ruralità andava ridefinita. Se in passato la ruralità era caratterizzata dalla prevalenza assoluta dell’agricoltura, sul piano economico e occupazionale, ora le attività industriali e i servizi erano cresciuti nei territori rurali a tal punto da dover nettamente distinguere il concetto di ruralità da quello di agricoltura. Si ripristinava, per così dire, l’antica distinzione etimologica. Rus era, per i latini, la campagna. Agricultura la coltivazione del suolo. Solo la scarsità di occupazioni diverse dal lavoro dei campi (e comunque la loro identificazione con un artigianato a esso finalizzato) aveva consentito una certa intercambiabilità dei due termini. Una intercambiabilità vissuta in Italia in modo drammaticamente paradossale. Da una parte, la realtà tendeva ad una divaricazione con il formarsi dei primi nuclei di operai-contadini nel pedemonte prealpino; dall’altra, l’ideologia fascista mirava a una maggiore assimilazione, denominando “massaie rurali” le coltivatrici dirette. E, nell’Italia repubblicana, per decenni e decenni, l’ideologia antifascista, con la stessa protervia del suo opposto, non ha voluto smontare il paradosso, riconoscendo finalmente la ruralità nella sua configurazione non più agricola. Ma ha reso l’intercambiabilità dei due termini (rurale e agricolo) di fatto uno stereotipo: pur di non usare il termine “rurale” per definire le campagne urbane e industrializzate, ha preferito inventare una parola nuova, “localismo”.
Questi pregiudizi, tipicamente nostrani, hanno pesato non poco nel ritardare la comprensione dell’innovazione introdotta dalla Commissione europea e hanno dato la stura a resistenze e conservatorismi. La configurazione nuova dell’agricoltura nella campagna faceva emergere, infatti, anche una pluralità di funzioni del settore primario nell’economia e nella società. Funzioni che corrispondevano alla domanda della società nei confronti dei beni e dei servizi generati dall’agricoltura, benché in forme ancora implicite e generiche. Accanto alla funzione di produzione di beni di prima necessità, emergevano così altre funzioni del settore primario: ambientali, paesaggistiche, turistico-ricreative, culturali, didattico-educative, terapeutiche, riabilitative, ecc.
Il Rapporto della Commissione non si limitava a dare risalto alla cosiddetta “multifunzionalità” dell’agricoltura, ma metteva in rilievo anche una “diversificazione” di attività rurali. Ecco un passaggio significativo: «Le nozioni di spazio o di mondo rurale vanno ben oltre una semplice delimitazione geografica e si riferiscono a tutto un “tessuto” economico e sociale comprendente un insieme di attività alquanto diverse: agricoltura, artigianato, piccole e medie industrie, commercio, servizi». L’uso del termine “tessuto” ben configurava le imprese nello spazio rurale, che puntavano su attività economiche diversificate, capaci di sostenersi e di produrre reddito e occupazione, inserendosi armoniosamente nei territori come tanti fili, dotati di individualità, che si intrecciavano in una trama comune.
Il Rapporto era stato annunciato in una sala di albergo della capitale belga alla presenza di Delors. Ricordo che avevamo formato una delegazione per partecipare all’evento: Peppe Putignano che si occupava delle politiche strutturali, Andrea Negri dell’ufficio finanziamenti alle imprese, Bruno Buffaria dell’ufficio di Bruxelles ed io. La sera precedente con Peppe e Andrea avevamo preso un aereo e dormito in albergo. Ma quando eravamo giunti nel luogo dell’incontro, avevamo trovato Avolio. Era stato avvertito da Buffaria che c’era spazio per un nostro intervento e aveva preso un aereo di primo mattino. Era salito sul palco ed aveva pronunciato una breve ma vigorosa requisitoria contro il documento della Commissione, i cui contenuti erano stati diffusi anticipatamente. Il succo del suo discorso era stato: «Non possiamo accettare che gli agricoltori si trasformino in giardinieri d’Europa». E per anni abbiamo poi disconosciuto funzioni e attività che si discostavano dalla concezione tradizionale dell’agricoltura. Insomma, eravamo sulla difensiva e avevamo perso un’occasione per tentare di reimpostare il patto tra agricoltura e società.
È in tale contesto che Pippo Oddo si rende disponibile per dirigere “Turismo Verde” in Sicilia. Ancora una volta è tenuto fuori dalla presidenza regionale dell’organizzazione. Ma Pippo comprende che non ha più senso muoversi nelle vecchie logiche di potere e che i luoghi dove sperimentare l’innovazione creativa sono proprio quelli disdegnati da chi continua a seguire schemi stantii. Nella sua nuova funzione, si fanno più frequenti tra noi le occasioni di incontro. Egli ricorda nel libro il convegno di Castiglione della Pescaia nella primavera del 1991. In quella occasione, il gruppo dirigente di Turismo Verde, sia nazionale che delle strutture regionali, fornisce un contributo molto elevato che confluirà nei lavori preparatori della legge 30 dicembre 1991, n. 413, istitutiva di un regime forfettario per le imprese agrituristiche. In questo clima si decise che ogni regione avrebbe costituito un consorzio agrituristico. Ma l’unica regione che rispose prontamente fu la Sicilia, che costituì il Consorzio Agrituristico “Villaggio Globale”, di cui fu eletto presidente Pippo Oddo. Egli preparò una guida regionale e, subito dopo, anche 13 itinerari rurali, pubblicati nel cartaceo in italiano e tedesco e in internet anche in francese e in inglese. La guida fu poi presentata in un Education tour itinerante, cui partecipò anche il presidente nazionale di Turismo Verde, Bertani. Gli itinerari furono presentati alle borse turistiche di Roma, Milano e Berlino. Di più, una rivista bavarese a tiratura nazionale vendette circa duemila copie della guida in Germania.
Eppure la regione Sicilia non aveva ancora una legge integrativa di quella nazionale sull’agriturismo. E Pippo si dedica, pertanto, a promuovere la cultura agrituristica con la risorsa che egli solo sapeva maneggiare con destrezza: il saggio con contenuti storici e socio-antropologici scritto come un romanzo. È il suo nuovo manifesto culturale, zeppo di proverbi e indovinelli della cultura contadina. Il libro esce nel 1992 con il titolo: Manuale di agriturismo. L’ospitalità rurale tra storia e progetto. Viene pubblicato in due edizioni e riceve l’elogio generalizzato di tutte le personalità coinvolte nelle presentazioni: innanzitutto Avolio, Bellotti e Bertani, ma anche da varie personalità del ministero dell’Agricoltura e dal presidente dell’Istituto nazionale di sociologia rurale Corrado Barberis.
Bisognerà aspettare l’estate del 1994 per vedere finalmente approvata la legge regionale, alla cui elaborazione Pippo darà un suo importante contributo, fino a minacciare in un convegno pubblico alla Fiera del Mediterraneo i responsabili dell’inerzia regionale alla Corte di Giustizia dell’Aja. Non a caso l’assessore Spoto Puleo lo nominerà come unico rappresentante delle organizzazioni agrituristiche nella commissione istituita dalla legge.
Intanto, s’intensificano le iniziative culturali che si vanno ad intrecciare con quelle più a carattere professionale dell’associazione agrituristica che finalmente può acquisire una sua specifica e solida fisionomia strutturale. Nel 1995 Pippo non rinnova più la tessera del Pds. Non ne sente più il bisogno. Gli basta rimanere fedele ai propri ideali. E scrive una lettera a Lo Monaco in cui annuncia la sua decisione di andare in pensione anticipatamente e ad Avolio per illustrargli i lusinghieri risultati raggiunti con la propria iniziativa. A febbraio 1996 va in pensione e, per altri tre e anni e mezzo, è consulente di Turismo Verde nazionale. Con la conclusione della presidenza Avolio, anche il rapporto di Pippo con la Cia si conclude. Era rimasto l’ultimo “intellettuale organico” ad avere un contratto di collaborazione con la Confederazione. La quale aveva smesso ormai da qualche tempo di elaborare un pensiero e non sapeva più che farsene del suo apporto.
Continuerà ad occuparsi di sviluppo locale in attività formative e a scrivere saggi storici. Nel 2010 incominceranno ad uscire i quattro volumi in cui racconterà la storia delle campagne siciliane dalla fine del 1700 fino ai nostri giorni. Seguirà attentamente gli sviluppi di iniziative culturali nel suo paese natio, Villafrati. Lo farà con lo spirito di sempre, volto a conseguire il bene comune, gramscianamente mai indifferente quando si tratta di scegliere se stare dalla parte dei più deboli, ma beatamente indifferente al proprio tornaconto personale. Un irregolare in un mondo il cui senso comune va in tutt’altra direzione.
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