Cook

Birre effimere per l’estate. La Poretti 7 luppoli

Effimere in quanto stagionali, e pertanto adattabili a specifiche occasioni di consumo nel corso dell'anno. I "puristi" l'accusano di essere una "crafty". Sbagliano. 7, 8, 10 luppoli. Tanti, perché? La ragione è che i luppoli sono tanti e diversi tra loro, come i pomodori o le albicocche. Quindi la componente aromatica che trasferiscono alla birra è molto diversa a seconda del blend

Daniele Tirelli

Birre effimere per l’estate. La Poretti 7 luppoli

Poretti propone un’ottima L’Estiva 7 Luppoli, 5,6°, fresca e facile da bere a pasto, con piatti leggeri estivi come insalate di riso e (a mio parere) con la caprese. Dolce e amaro in perfetto equilibrio, con note floreali accentuate e pulite. A me piace molto.

I “puristi” l’accusano di essere una “crafty” cioè di imitare le tante, troppe birre artigianali, ma propongo una riflessione!

Noi critichiamo l’Italian Sounding, ovvero i formaggi o i vini che imitano quelli Italiani, ma tutte queste birre locali che dovrebbero pescare in un savoir-faire artigianale a cosa si ispirano? A una tradizione secolare? A una maestria ereditata, da chi? Non facciamo ridere.
L’Italia era il regno del vino contrapposto al mondo barbarico della birra.
Se critichiamo il Reggianito argentino come pallida imitazione del Parmigiano-Reggiano, come possiamo prendere sul serio una Pilsen o una Stout Italiana artigianali?
La birra è, dunque, un prodotto che non viene sminuito dalla produzione industriale seria. Anzi.

TANTI LUPPOLI

L’occasione è propizia per un discorso sulle birre: un universo affascinante quanto e più del vino.

C’è da osservare che tutta la produzione alimentare è frutto di processi di chimica organica:
– destrutturata e approssimativa nel caso domestico e artigianale,
– rigorosa e documentata nel caso dell’industria.

Ne discende che le birre, come il vino e l’olio, si avvantaggiano del progresso tecnologico e scientifico, e non il contrario.
I tortellini fatti a mano da mia madre erano più saporiti di quelli industriali, ma non conservabili, non trasportabili, non diffondibili oltre la cerchia domestica.
Dunque le birre artigianali, se non sono un hobby, devono ricorrere anch’esse a processi chimico-industriali-commerciali per poter trovare uno spazio nel mercato.

Orbene, l’azienda Poretti avviata nel 1877, ha una tradizione ben più lunga delle varie micro-birrerie che proliferano come i funghi.
In secondo luogo, Angelo Poretti ebbe la modestia di studiare gli stili birrari e le tecniche nelle nazioni europee vocate, per poi costruire uno stabilimento bellissimo, in stile liberty, in Valganna, che, credo, sia protetto dalle Belle Arti e che si può visitare.
7, 8, 10 luppoli, perché? La ragione è che i luppoli sono tanti e diversi tra loro, come i pomodori o le albicocche. Quindi la componente aromatica che trasferiscono alla birra è molto diversa a seconda del blend.
La prova è semplice: consiste nel bere, con un’insalata di riso o un piatto di pesce, la 3 o la 4 o la 5 o la 6 o la 8 luppoli per verificare se ci sono reali differenze.

In conclusione, ci sono birre “classiche” come la Chimay Blu o la Leffe o la Guinness che devono restare fedeli ad una ricetta immutabile per definizione. O si amano o si odiano.
Ci sono birre “moderne” come le Poretti ai luppoli, che si adattano ai gusti di un pubblico con diversi livelli di cultura ed esigenze birrarie.
Il rischio è quello di introdurre veti e dogmatismi, come fanno gli pseudo-sommelier alla moda che, dall’alto vorrebbero decidere cosa è buono e cosa non lo è.
Già è insopportabile il politically-correct, figuriamoci il gastronomically-correct!
Per cui, l’unica soluzione è assaggiare, giudicare, scegliere, godendoci liberamente le sottili differenze tra le migliaia di alternative che ci vengono offerte.

Nel caso di Poretti abbiamo un’innovazione che si distingue dalla standardizzazione delle birre alto-vendenti di gran marca. Carlsberg ha il merito di aver consentito ad un’azienda (acquisita sull’orlo del fallimento) di percorrere una strada nuova, che esce con successo dagli stili birrari noti, i quali per me sono solo un riferimento orientativo e non dei canoni a cui conformarsi.

Il mondo della birra, e quello del vino, non devono essere circoscritti a una realtà delimitata da loro parametri qualitativi fissi, così come non deve avvenire con la gastronomia.

Di recente ho apprezzato l’esperienza di uno chef fortemente sperimentalista come José Andrés al Bazaar di Los Angeles. Altri sperimentatori di nouvelle cuisine mi hanno invece propinato autentiche schifezze. Dunque, tutto è lecito e lodevole se i consumatori (e non gli arbiter elegantiae) sono soddisfatti. Ma questo è solo il mio modestissimo parere.

Per commentare gli articoli è necessario essere registrati
Se sei un utente registrato puoi accedere al tuo account cliccando qui
oppure puoi creare un nuovo account cliccando qui

Commenta la notizia