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L’extra vergine in cucina

La frittura degli alimenti è un'arte, ma si devono considerare anche altri importanti parametri. Resta sempre opportuno chiedersi se il punto di vista dello chef possa coincidere con quello del tecnologo alimentare. Intanto, ciò che è certo, è che l’olio giusto si può cercare e, spesso, trovare

Lorenzo Cerretani

L’extra vergine in cucina

È sempre aperto il dibattito gastronomico-nutrizionale sull’individuazione del miglior olio per la cottura e, in questa discussione, entrano in gioco anche aspetti sociali e territoriali. I punti di vista sono diversi; mentre per uno chef è fondamentale ottenere una preparazione alimentare eccellente, “piena” di gusto, con un buon abbinamento tra olio e cibo e asciutta, il medico nutrizionista si preoccupa della salute e delle calorie (che non cambiano da olio ad olio…) e il chimico e tecnologo alimentare vuole individuare l’olio che si deteriori meno e che sia più stabile nei confronti dell’ossidazione.

Ma il consumatore a chi deve dare retta? Proviamo a fornire una risposta scientifica.
La prima considerazione è che durante la cottura tanto il riscaldamento dell’olio quanto l’esposizione all’azione dell’ossigeno, sono fattori che contribuiscono ad innescare il processo ossidativo. Quest’ultimo porta, come noto, ad una degenerazione chimica dell’olio stesso e dell’alimento. Per questo, nel consigliare con che olio cucinare, lo scienziato-ricercatore non può mai mettere la possibile formazione di composti potenzialmente tossici per l’organismo umano in secondo piano.

La resistenza all’ossidazione di un olio è influenzata, in particolar modo, da due fattori: la composizione in acidi grassi (QUI), ossia il grado di insaturazione, che può essere percepito visivamente come la maggiore o minore fluidità dell’olio a temperatura ambiente e l’eventuale presenza di componenti antiossidanti (QUI), ossia di composti che ritardano l’ossidazione, proteggendo sia l’olio che l’alimento che viene fritto.

La fluidità dell’olio, data dalla maggiore presenza di acidi grassi polinsaturi, rende l’olio più ossidabile, mentre la maggiore saturazione rende l’olio più resistente. Quindi, tra gli oli più ossidabili e di conseguenza meno adatti alla cottura dobbiamo indicare l’olio di soia e di mais, molto ricchi in acidi grassi polinsaturi, con una preponderante percentuale di acido linoleico (circa 50%) ed un discreto ma deleterio apporto di acido linolenico (che supera generalmente il 5%) mentre, al contrario, l’olio di palma è più stabile grazie all’elevato contenuto in acidi grassi saturi (come l’acido palmitico, mediamente intorno al 40%).

E’ vero, come frequentemente indicato dagli chef, che l’olio di soia, in ottime condizioni di conservazione, impiegato una sola volta, può rendere la frittura apparentemente leggera perché, essendo più fluido, rimane meno adeso all’alimento. Un esempio, continuamente citato, è la tempura giapponese. Se però è l’aspetto ossidativo che non vogliamo dimenticare, dobbiamo avvertire il consumatore che un alimento fritto, soprattutto a casa, con un olio molto insaturo può essere più “carico” di radicali liberi e quindi di prodotti potenzialmente tossici. E poi il consumatore, nell’impiego casalingo dell’olio, difficilmente ha gli strumenti per controllarne la qualità. Per quanto tempo una bottiglia di olio rimane in cucina, giorni, mesi? A che temperatura viene conservata? Quante volte viene aperta? Quanta “pericolosa” aria contiene? Quanta luce prende? L’olio di soia, in un mese di “cattiva” conservazione casalinga (bottiglia mezza piena, vicino ai fornelli o a fonti di calore) può ossidarsi completamente.

L’olio prodotto dall’oliva rappresenta un buon compromesso tra fluidità e resistenza per il contenuto molto alto (in media 65-70%) di acido oleico (acido monoinsaturo, meno ossidabile dei polinsaturi). E’ meno fluido dell’olio di soia ma, come l’arachide o il girasole ad alto oleico (presente ormai anche sul mercato al consumo) è ben più fluido di un olio di palma. Insomma, non si “ferma” poi troppo sull’alimento (se la frittura viene asciugata bene, altro accorgimento da non dimenticare!), il fritto risulta “asciutto” e l’ossidazione è evitata.

Entra a questo punto in gioco, nel nostro percorso decisionale, la protezione aggiuntiva che possono fornire gli antiossidanti.
Gli oli ricchi in sostanze fenoliche sono quelli ottenuti per estrazione meccanica senza alcuna raffinazione. La raffinazione, infatti, le elimina e le distrugge. L’unico olio, con pochissime eccezioni, che può essere venduto senza essere prima raffinato è l’olio extravergine di oliva. L’extravergine, per legge, non può essere sottoposto a nessun processo di raffinazione, prima della commercializzazione. Questa è la ragione per la quale componenti fenolici come i derivati dell’oleuropeina (presente in abbondanza nel frutto), responsabili del particolare gusto amaro nonché della gradevole nota piccante, si trovano nell’extravergine, mentre sono quasi assenti nell’olio di oliva raffinato.
Sulla base di quanto detto, se non vogliamo introdurre la variabile prezzo, pure importante nella scelta dell’olio, dovremmo dire che “chimicamente” l’olio extravergine è il più adatto alla cottura. Lo è sul piano della resistenza all’ossidazione e lo è perché è l’unico che contiene elevate quantità di polifenoli.

L’unico argomento che resta fuori è il gusto. Gli chef e gli addetti ai lavori ne sconsigliano spesso l’uso perché ha un gusto ed un aroma troppo forti che rischia di coprire alcuni piatti delicati.
Ma, a pensarci bene, e a consultare un po’ dell’ampia letteratura sull’argomento, l’etichetta di “elevata/eccessiva carica aromatica” affibbiata all’olio extravergine è frutto di superficialità. Infatti, se consideriamo quanto varia il contenuto in composti volatili (responsabili delle note olfattive) al variare delle cultivar ci rendiamo conto che l’olio giusto, sul piano dell’olfatto, si può cercare e, spesso, trovare.

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