Ancora una volta la siccità ci coglie impreparati
Non fate un commissario straordinario, ma un’autorità nazionale dell’acqua. È giunto il momento di riprendere un’antica proposta di Giuseppe Avolio
Quarant’anni fa, nei giorni 15-16 ottobre 1982, la Confcoltivatori (che qualche anno dopo si chiamerà Cia) organizzò a Ferrandina un seminario sul tema “L’acqua e lo sviluppo agricolo”.
L’iniziativa si concluse nel Teatro Duni di Matera con una tavola rotonda e un discorso del presidente dell’organizzazione Giuseppe Avolio.
In quella occasione, Avolio lanciò la proposta di istituire una “autorità nazionale” per l’uso plurimo dell’acqua.
Una struttura preposta a coordinare tutti gli interventi svolti dalle diverse amministrazioni per prevenire le crisi idriche e garantire l’uso della risorsa alle popolazioni e ai differenti settori produttivi.
La proposta di Avolio non è stata mai presa in considerazione. E così le crisi idriche, rese più frequenti dal cambiamento climatico, non si sono potute contenere e gestire con soluzioni istituzionali adeguate.
In realtà, sull’onda di quella intuizione, da almeno due decenni, il nostro Paese ha attivato alcuni meccanismi di governo innovativi.
Sono state create le Autorità di distretto idrografico, che monitorano il bilancio idrico anticipando le crisi. Si sono istituite le “cabine di regia” per concertare con i vari utilizzatori le misure da adottare.
Ma non si è mai pervenuti ad una “autorità nazionale” dell’acqua.
E ancora una volta la siccità ci coglie impreparati.
Ora, finalmente, il governo ha compreso che ci vuole un “centro” di coordinamento per affrontare efficacemente il problema dell’acqua.
E il Presidente Draghi ha annunciato l’approvazione di un decreto che istituirà un commissario straordinario per il contrasto e la prevenzione della siccità.
Ma anziché ricorrere a soluzioni emergenziali, straordinarie e temporanee, non sarebbe il caso di prendere in considerazione la proposta che Giuseppe Avolio formulò quarant’anni fa a Matera?
Il cambiamento climatico è un fatto accertato. E così anche la sua origine antropica.
Bisogna affrontarlo in modo innovativo.
Non ha senso viverlo come un’apocalisse.
Non sta finendo il mondo.
L’Italia non si sta trasformando di colpo in un paese subsahariano.
Serve una forte capacità di adattamento delle istituzioni, delle politiche e delle strategie imprenditoriali alla nuova realtà che si è creata.
Grazie alle sue montagne e alla permeabilità del suo suolo l’Italia è, e resta, un paese ricco di acqua.
Non solo perché ne ha tanta, ma soprattutto perché ce l’ha facilmente accessibile, dove serve e quando serve, anche localmente.
Non solo al Nord, ma anche al Sud. Con le dovute eccezioni: la Puglia, le Isole, la Romagna.
I paesaggi agrari pianeggianti, sono in buona parte il risultato di un secolare lavorio di umane generazioni che le hanno strappate alle acque.
Come dimostra Carlo Cattaneo nei suoi scritti, la terra è edificata dall’uomo.
Non si sarebbe realizzato il miracolo dell’irrigazione lombarda senza il diritto di acquedotto, ereditato dal diritto romano e perfezionato dagli statuti comunali.
Un istituto medievale che permette ad ogni proprietario di condurre l’acqua, sua o concessa da altri a lui in perpetuo o a tempo, attraverso il terreno altrui senza bisogno di chiedere il consenso dei proprietari intervenienti.
La pianura padana è frutto della fusione di civiltà giuridica e intelligenza tecnica.
Anche le pianure meridionali sono state letteralmente create con prosciugamenti, strade, abitazioni, opere di civiltà.
Per secoli la malaria ha disegnato il profilo di gran parte della penisola, rappresentando uno dei pochi tratti comuni di un paese attraversato da differenze profonde.
C’è voluto un enorme impegno di competenze e risorse pubbliche e private per riorganizzare il territorio e renderlo dappertutto vivibile.
Se con il cambiamento climatico il capitale naturale scarseggia, occorre intensificare il capitale fisico (infrastrutture, tecnologia, impianti) e il capitale sociale (organizzazione, condivisione, regole, comportamenti collettivi, istituzioni legittimate a governare, ossia a prendere decisioni su cosa tenere e cosa sacrificare).
Bisogna trovare il modo di sacrificare gli usi di minor “valore sociale”, eventualmente compensandoli, invece di lasciare che la calamità colpisca a caso.
Se la frequenza degli anni critici è destinata ad aumentare, anche l’agricoltura dovrà adattarsi ad un clima più secco.
Dire che “serve più capitale fisico e sociale” vuol dire più investimenti, più capacità gestionale e organizzativa, più ricerca e innovazione tecnologica.
Occorre, ad esempio, sostenere programmi di miglioramento genetico per selezionare nuove varietà adatte alle temperature alte e alla ridotta piovosità.
Necessitano programmi per diffondere l’agricoltura di precisione, capace di produrre di più ma consumando meno acqua.
Il clima che cambia può costituire una preziosa opportunità per innovare e guardare al futuro con ragionevoli speranze.
In apertura, foto di Olio Officina©
Per commentare gli articoli è necessario essere registrati
Se sei un utente registrato puoi accedere al tuo account cliccando qui
oppure puoi creare un nuovo account cliccando qui
Commenta la notizia
Devi essere connesso per inviare un commento.