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Biodiversità e aree protette

L’imperativo etico della tutela della biodiversità si è universalmente affermato, ma è bene ragionare con la massima attenzione intorno a tale “concetto”. Ciò che va evidenziato, è che non si può pensare di esercitare una forma di protezione isolazionistica. Nemmeno deve esserci posto per una concezione angusta e statica, che releghi i territori in una condizione di apartheid. Si deve privilegiare una linea d’azione coinvolgente, che faccia assurgere le aree naturali protette a modelli e punti di riferimento per il territorio

Giovanni Cocco

Biodiversità e aree protette

1. – Sulla necessità di conservare la biodiversità tutti si dicono d’accordo (1), o perlomeno non si registrano affermazioni contrarie di rilievo. Variamente definito nelle differenti culture, l’imperativo etico della tutela della biodiversità si è universalmente affermato, anche se tuttora permangono numerose incertezze sulle questioni definitorie intorno al “concetto” di biodiversità (2).

D’altro canto sta di fatto che tra aree protette e biodiversità sussiste un nesso indiscutibile ed una relazione virtuosa. Ce lo dimostrano i dati: ad esempio in Italia le aree protette con una percentuale intorno allo 0,1 % del territorio nazionale tutelano all’incirca lo 0,8 % della fauna, assai più dello 0,5 % atteso in base alla relazione “specie/area”. Si tratta di un indizio chiaro che le aree protette tutelano la biodiversità assai meglio di un campione casuale del territorio nazionale, e, dunque, la scelta di favorirle ed incrementarle si è dimostrata, in generale, oculata (3).

Però le tessere del mosaico non si compongono facilmente. Intanto perché il concetto di diversità biologica va relativizzato. Come è assolutamente intuitivo, la concentrazione di biodiversità e la differenza qualitativa di specie che si riscontrano in un Hot Spot delle isole Galapagos o delle foreste brasiliane non sono paragonabili a quelle che si individuano in una delle riserve della biosfera italiana pur riconosciute dall’Unesco. Ma, anche posizionandosi su una dimensione più domestica, la biodiversità non può essere considerata un valore unico.

Per un forestale che deve amministrare una grande e intricata foresta demaniale sarà interessante soprattutto la diversità funzionale. Questo tipo di analisi gli dirà poco sull’eventuale presenza di endemismi, ma gli permetterà di selezionare le unità più produttive. Al contrario l’amministratore di un’area protetta sarà interessato soprattutto alla diversità evolutiva, anche se questo può costare una riduzione della naturale espansione dei boschi (4).

Quasi superfluo aggiungerlo, anche l’assetto delle aree protette nel nostro paese è tipologicamente assai variabile, dal punto di vista quantitativo e della morfologia del territorio (per estensione, configurazione, dislivello, etc.) come sotto il profilo delle relazioni che la parte protetta coltiva con le zone contigue (isolamento vs. collegamento sulla base di un sistema di reti protette).
Il che significa che non è sufficiente istituire un’area protetta in un territorio per garantire la tutela della biodiversità e non c’è una ricetta per individuare un ideal-tipo di area protetta adatta a conservare la diversità biologica.

2. – Ovviamente questa prima impressione non abilita a procedere a caso. Per fortuna si dispone, infatti, di una serie di principi e di regole, forgiati a cascata in sede internazionale, europea e nazionale che intuitivamente vanno commisurati ed adattati alle singole realtà, ma che perlomeno costituiscono una base per indirizzare le azioni protettive più opportune.

Non è possibile ripercorrere in questa sede in modo sufficientemente analitico l’intero panorama delle fonti intervenute sul tema della biodiversità, però si può almeno offrire il quadro dei principali interventi normativi.

Un ruolo cardine ed ispiratore delle discipline sulla conservazione della biodiversità poi succedutesi ai vari livelli ha assunto la convenzione sulla diversità biologica firmata a Rio de Janeiro nel giugno del 1992.

La convenzione di Rio è stata, a sua volta, approvata per conto dell’Unione Europea con la decisione del Consiglio 93/626/CEE del 25 ottobre 1993.
Conformemente all’art. 6 della convenzione, ciascuna parte contraente (e tra queste figurava pure l’Unione Europea) si era impegnata ad:

> elaborare strategie, piani e programmi nazionali volti a garantire la conservazione e l’utilizzazione durevole della diversità biologica, se del caso adattando a questo fine le strategie, i piani o i programmi esistenti;

> integrare, per quanto possibile e opportuno, la conservazione e l’utilizzazione durevole della diversità biologica nei suoi piani, programmi e politiche settoriali e plurisettoriali pertinenti.

Ottemperando all’impegno assunto in sede internazionale l’Unione Europea ha, dunque, elaborato una “Strategia comunitaria per la diversità biologica”, definendo un quadro di azioni da intraprendere per rispettare gli obblighi giuridici che incombono sull’Ente europeo.

Non è il caso di ripercorrere in dettaglio le modalità con le quali si ritiene di impostare le azioni volte ad ottemperare agli obblighi predetti, però è interessante almeno dar conto delle quattro tematiche principali intorni alle quali l’Unione Europea ritiene che dette azioni debbano svolgersi.

Si tratta:

● della conservazione e utilizzazione sostenibile della diversità biologica;

● della ripartizione dei vantaggi derivanti dall’utilizzazione delle risorse genetiche;

● della ricerca, controllo e scambio di informazioni;

● dell’istruzione, formazione e sensibilizzazione.

Anche senza andare a fondo e limitandosi a leggere queste sole indicazioni il messaggio comunitario è abbastanza chiaro.

Si amplia da subito il raggio dell’attività di conservazione. La biodiversità non va protetta in una dimensione isolazionistica dell’area protetta, bensì giovandosi dell’appoggio e dello scambio con le realtà esterne (i vantaggi vanno ripartiti, le informazioni vanno scambiate, va svolta un’attività di sensibilizzazione e di contatto generalizzata con le altre aree di intervento e con la realtà esterna allo stretto perimetro delle aree protette).

Il messaggio che ne deriva, nella relazione tra biodiversità ed aree protette, non sembra difficile da decifrare. Tra una biodiversità oleografica, da conservare in aree protette come musei all’aperto ed una biodiversità coinvolgente in rapporto con aree protette che siano modelli e punti di riferimento, per tutto il territorio, di gestione razionale ed integrata delle risorse naturali, l’opzione è a favore della seconda alternativa. Da un atteggiamento in fondo passivo, di pura resistenza, si deve passare ad un ruolo attivo di “attacco” sul piano culturale e di quello delle realizzazioni (5).

Dal canto suo il nostro paese non è rimasto silente. Si è dotato di una strategia nazionale per la biodiversità (6), con la individuazione di organismi cui è affidata la discussione e la decisione politica (la Conferenza Stato-Regioni) e di strutture cui è richiesto il necessario apporto scientifico multidisciplinare (Osservatorio Nazionale sulla Biodiversità (7), che si ramifica in una serie di Osservatori Regionali).
Un ruolo di primo piano nel documento che riproduce la strategia nazionale sulla biodiversità è riservato alle aree protette (8).

Si sa che, negli ultimi anni, la missione delle aree naturali protette è stata resa più funzionale e moderna rispetto ai semplici target di conservazione della biodiversità, aggiungendo ed integrando con questi altri importanti obiettivi quali la “lotta alla povertà” ed un reale sviluppo sostenibile. Onde alla tradizionale funzione di laboratori per la conservazione e l’aumento della biodiversità, le aree protette hanno aggiunto servizi aggiuntivi ed integrativi implementando attività sostenibili dal punto di vista ambientale, ma anche economico e sociale.

3.- Al centro del sistema di conservazione della biodiversità si colloca la rete Natura 2000, che rappresenta la pietra miliare della conservazione della biodiversità dell’Unione europea. Nel nostro paese, sulla base del principio di sussidiarietà, l’individuazione e la gestione dei siti appartenenti alla Rete Natura 2000 è stata affidata alle Regioni ed alla Pubblica Amministrazione, pur nel solco di “Linee guida per la gestione dei siti Natura 2000” (9) e conformemente ai criteri minimi uniformi per definire le misure di conservazione per le ZPS e per le ZSC stabiliti con decreto ministeriale (10).

Diverse Regioni italiane hanno emanato leggi regionali in cui hanno specificamente preso in considerazione la tutela della biodiversità, sebbene con accenti marcatamente diversi alcune lo abbiano fatto in modo diretto, riferendosi esplicitamente al sistema regionale delle aree protette e dei siti della Rete Natura 2000 (11), altre alludendo ad una strategia regionale per la biodiversità all’interno di leggi dedicate ad argomento più specifico (12), in altri casi, a livello legislativo, l’argomento è stato pressoché ignorato o affidato a testi oramai superati e della cui normativa si denunciava l’inattuazione sostanziale.

4.- Tutto quanto detto configura un quadro di regole ed indicazioni complessivamente articolato, nel quale si riflettono luci ed ombre, ma che non induce a pensare che il tema della biodiversità nelle aree protette sia restato sguarnito.
A mò di premessa si impone una riflessione un po’ cruda.
L’idea stessa di area protetta cela un sottofondo di ambiguità: è simbolo di un importante conquista culturale dell’uomo che, uscendo dalla sua natura puramente egoistica, è capace di preservare parti del territorio di particolare attrattiva, ma, al contempo, è proiezione plastica del suo fallimento e della sua inclinazione smodatamente predatoria che lo induce a saccheggiare tutto quanto resta al di fuori della piccola porzione protetta. Le aree protette o le riserve – come è stato detto (13) – costituiscono il nucleo essenziale della conservazione, ma spesso svolgono soltanto un’azione di retroguardia. Persino quando in esse la biodiversità è ben protetta, la loro condizione è quella di isole in un mare di attività umane sempre più intense.
Per questo è essenziale diffondere i benefici delle buone pratiche al di là dei confini ed è essenziale un’intensa opera di informazione e di formazione.

Anche per la biodiversità nelle aree protette dunque non c’è posto per una concezione angusta e statica, che releghi i territori di particolare pregio in una condizione di apartheid, e si deve, invece, privilegiare una linea d’azione coinvolgente, che, in un percorso certamente ambizioso ma non impossibile, faccia assurgere le aree protette a modelli e punti di riferimento per il territorio circostante in un’ottica di gestione razionale ed equilibrata che privilegia il dialogo e l’interazione con la realtà esterna e tende ad esportare la qualità ecosistemica ed il management ambientale in un continuum in grado di dar vita a sistemi territoriali di area vasta.

Rispetto a quanto appena detto si potrà far osservare che il profilo più spiccatamente di conservazione della biodiversità possiede una sua specificità che non va pretermessa o subordinata ad altri interessi. Questo è sicuramente vero, ma ciò non toglie che l’opera di protezione della biodiversità debba ispirarsi ad un criterio di conservazione dinamica, favorendo un contemperamento delle esigenze apparentemente in conflitto della crescita socio-economica delle comunità locali coinvolte e della salvaguardia della biodiversità e dell’ambiente dall’altro. Solo un approccio simile è in grado di evitare che la conservazione della biodiversità e la tutela dell’area naturale assumano connotati specifici di vincolo e di separatezza, finendo per generare un processo di esclusione e di contrapposizione in cui il senso di appartenenza ad un contesto si costituisce inevitabilmente in opposizione al vincolo, alle regole di tutela dell’area o della risorsa protetta, e il ruolo delle autorità preposte si riduca in gran parte al compito di “far argine”, in modo più o meno efficace, alle rivendicazioni della comunità locale (14).

D’altro canto è pur vero che conferire il ruolo di co-protagonisti nel sistema di protezione territoriale anche alle comunità locali si può non certo perché esse fanno valere un interesse altro, bensì nella misura in cui assumono un ruolo anche prettamente legato alla tutela della natura.

Certo è che l’evoluzione del loro atteggiamento non può manifestarsi per effetto di un meritorio, quanto improbabile, sforzo di volontà; deve trovare un appoggio sostanziale più solido.
E questo fondamento –a mio modo di vedere- trova le proprie radici nell’identificazione che ogni essere umano sa di avere con il proprio luogo di appartenenza.
Ne risulta che è imprescindibile non solo assecondare, bensì fomentare le forme di partecipazione delle comunità locali fin dalla fase di elaborazione dei piani, dei programmi e delle strategie per le aree protette ed a difesa dei siti dove la biodiversità assume connotati specifici.

5.- Un ultimo profilo, tra i tanti che vengono alla mente, pare non possa essere, in ogni caso, trascurato.
Già in sede internazionale e nel corso di un simposio in una sessione appositamente dedicata agli aspetti chiave delle connessioni ambientali si è espressa la forte preoccupazione che le aree protette sono spesso isole in un mare di degrado, finendo per ignorare le linee di sviluppo della vita che passano attraverso i bacini dei fiumi, i corridoi migratori e le fertili correnti oceaniche.
In effetti sul terreno della costruzione di un sistema a rete su scala ampia c’è ancora parecchio da fare.
Con specifico riferimento alla nostra situazione si ravvisa una grande variabilità nella estensione delle interconnessioni tra reti ecologiche, paesaggistiche, e funzionali.
L’importanza delle elaborazioni teoriche e delle dimensioni applicative in questa direzione non deve sfuggire.

Come si è avuto occasione di sottolineare la tutela della natura, da noi, soffre per la ristrettezza degli spazi che ad essa possono essere specificamente dedicati.
È oltremodo chiaro che il modello americano non ha modo di essere replicato: mancano le zone vaste ed incontaminate di cui si dispone in altre parti del globo. Però, se si arriva ad assimilare pienamente il concetto che la salvaguardia ecologica può trascendere i confini di una singola area protetta, anzi gli stessi confini nazionali, materializzandosi sotto forma della costruzione di una protezione “a rete” è da credere che questa formula alternativa, certamente laboriosa da apprestare e da mantenere, non si dimostri del tutto priva di efficacia.

Questa è la scommessa del nostro futuro: rendere termini sempre meno dicotomici ed alternativi la conservazione delle risorse naturali e la loro integrazione in un contesto circostante complessivo che si dimostri sempre più propenso ad assorbirne modelli di sviluppo e buone pratiche.

NOTE

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