Il mio è “più bio” del tuo
È in corso una specie di gara, conseguenza del fatto che il “biologico” si è trasformato in una “religione”, per giunta settaria. Il mantra più gettonato è la migliore ecosostenibilità ambientale. Per darne risalto, si demonizza l’agricoltura convenzionale, senza alcuna distinzione tra cattiva e buona agricoltura. Intanto prende piede la teoria del “non fare”, o “del non fare a metà”, mentre sempre nel nome del bio, si profilanoforme di vero e proprio sfruttamento e business

Gli studenti della formazione in Permacultura sono in un giardino mandala (attività di meditazione che richiede pazienza e lentezza) per comprendere meglio le caratteristiche delle piante e le loro interazioni nell’ecosistema giardino.
Questa specie di gara è la conseguenza del fatto che il “biologico” si è trasformato in una “religione” e per giunta settaria. Infatti, abbiamo i fedeli (i consumatori e un’opinione pubblica disinformata) il clero (produttori, importatori) le gerarchie (la lobby e la politica che dirige il tutto).
Come in tutte le religioni vi è inoltre una gradazione di maggiore o minore integralismo sia a livello di fedeli, che di clero e di gerarchie. Abbiamo il “fedele” che crede che il suo comportamento salvi il pianeta, quello che pensa solo alla sua salute e quello che fa del “naturale” il nuovo “dio” a cui rivolgersi; poi vi è il “produttore” che del coltivare biologico ne fa un comportamento etico, ma vi è anche quello che vi ha intravisto un sistema per lucrare sovvenzioni di Stato (passi per quelli che debbono campare su una microazienda, ma certamente non deve essere per chi, facendo parte della lobby, si autocertifica la propria produzione bio o addirittura come produttore possiede quote di enti certificatori), poi vi sono quelli che semplicemente hanno visto un modo per far rendere qualche soldo alla loro proprietà divenuta improduttiva.
Si fa notare a questo proposito che tra SAU (12,8 milioni di ettari) e SAT (17,1 milioni di ettari) italiane vi sono 4,3 milioni di ettari di differenza che statisticamente sono definiti “afferenti alle aziende agricole” e praticamente sono quelle superfici che un tempo, quando l’agricoltura occupava il 50% della popolazione, erano coltivati e che poi l’esodo rurale ha praticamente fatto abbandonare. Ebbene più del 50% della superficie biologica italiana certificata appartiene a questa categoria di terreni praticamente incolti; sono questi ettari che gonfiano i dati della superficie a biologico e che fanno scrivere panegirici sui trend in aumento ai media.
Se calcoliamo la % della superficie dichiarata in produzione biologica nel 2016 (1.200.000 ettari) sulla SAT e non sulla SAU, come dovrebbe essere, ne risulta solo un 7%, ben lontano da quel 14,5% ufficiale, ma solo gonfiato da superfici improduttive (in conversione o appartenenti a quei 4,3 milioni di ettari).
Gli importatori sono solo persone che sfruttano lecitamente una domanda, quasi inelastica e ben superiore ad un’offerta inadeguata che scaturisce da una produzione nazionale che latita e che non si vuole ufficializzare nei suoi volumi per non mostrare il bassissimo rendimento del denaro pubblico immesso nel settore.
Nelle gerarchie invece vi sono solo quelli che tirano le fila di questo mondo, che contemporaneamente fanno azione di lobby verso la politica che decide l’elargizione delle sovvenzioni e che sfruttano il business imposto dalla certificazione obbligatoria in palese conflitto d’interesse, ma che nessuno vuol vedere, tanto meno il potere politico.
Come tutte le religioni, anche quella del biologico, non può fare senza di una sua liturgia e questa si estrinseca con i vari regolamenti, protocolli e loro adattamenti. A questo proposito occorre dire che è proprio dall’ambiente del biologico che si levano inviti a far si che il settore operi in un quadro normativo più chiaro, divulgato con obiettività e soprattutto più coerente.
Ecco è proprio dalla forma della “liturgia” che si originano le varie sette frutto della volontà di qualcuno della gerarchia che si vuol ritagliare una posizione distinta per ricavarne vantaggi. Il titolo della nota riassume questo stato di fatto.
Infatti, in tutto questo marasma di ricerca del “bio sempre più bio” annoveriamo l’agricoltura di Masanobu Fukuoka, che si limita ad accompagnare un processo largamente gestito dalla natura, rifiutando le tecniche agricole tradizionali e moderne (è un’agricoltura detta anche del “non fare”), all’agricoltura sinergica di Emilia Hazelipche si rifà in parte alla prima, ma anche alla permacultura (notate scritta con la “u” e non con la “o”) di Bill Morrison e David Holmgren.
L’agricoltura sinergica la potremmo definire “del non fare a metà” in quanto prescrive che non si debba disturbare il terreno sia con lavorazioni che con aiuti esterni (si dice che essa deve fare da sola altrimenti s’impigrisce), il terreno lo si deve tenere coperto con una sorta di pacciamatura biodegradabile e mantenere il massimo di biodiversità.
Un’altra forma di agricoltura è quella “biodinamica”, frutto delle idee di Rudolf Steiner e qui fa apparizione anche l’esoterismo e la magia. Infine, vi è l’agricoltura semplicemente detta “biologica”, che rinnega gran parte delle regole troppo restrittive e stravaganti precedentemente delineate per poter speculare tra domanda e offerta non equilibrate. Il mantra venduto è la migliore ecosostenibilità ambientale del biologico e per farlo risaltare si demonizza l’agricoltura convenzionale non facendo distinzione tra cattiva agricoltura e buona agricoltura praticata da chi è professionalmente preparato. Inoltre, non si dice che il 2% (dato continentale) di agricoltura biologica (che nutre solo cittadini con più potere di acquisto) gode della protezione offerta dal restante 98% di agricoltura convenzionale (che nutre anche chi è più povero). Solo che in qualsiasi attività umana non si può prescindere dall’aspetto speculativo, che anche in questo caso non permette tanti voli pindarici e, infatti, quello che nominalmente si vuol far passare per “cUlturale” diviene quasi subito “cOlturale”, cioè con annessi e connessi in fatto di “far soldi”.
Alla base di queste attività bio, definibili a scavalco, vi è ormai un movimento mondiale. Nel caso della permacultura, ma non solo, vi si innesta un fenomeno definito dall’acronimo inglese “WOOFING” (“World wide opportunities on organic farms”) che non è altro che uno scambiotra l’iniziazione alle buone pratiche agroecologiche offerta da una azienda agricola a stagisti interessati e accolti per eseguire i lavori agricoli, ma non pagati (si fa notare che le norme italiane prevedono che un persona non possa gratuitamente andare ad aiutare in una azienda in particolari ed episodici momenti (vendemmia ad esempio).
Ho appreso anche che vi è un’Accademia di Permacultura italiana, case editrici che pubblicano i breviari (essendo una religione non vedo come si possano chiamare altrimenti), corsi a più di 350 euro e probabilmente anche aziende, ma nessuna è stata descritta nei dettagli organizzativi dai media. Cosa molto differente in Francia, dove invece organismi accreditati quali l’AFIS e l’INRA hanno visitato e descritto queste realtà. Ebbene il quadro che ne risulta è tutt’altro che una encomiabile iniziativa sociale, ma si tratta di forme di vero e proprio sfruttamento e business. Qui di seguito qualche esempio:
Primo esempio
Partiamo dal “guru” tanto mediatizzato Pierre Rabhi la cui azienda di un solo ettaro è stata visitata dall’AFIS (QUI un resoconto) e nella quale vi lavorano senza ricevere un salario 150/170 volontari stagisti all’anno ed a turno per una o due settimane e per sei ore al giorno; in cambio del lavoro prestato ricevono come vitto dei prodotti dell’azienda che si devono cucinare e come alloggio una tenda. Insomma, in un anno l’azienda riceve gratuitamente 9000 ore di lavoro non remunerato (150 volontari per 10 gg per 6 ore al giorno). Ma non è finita qui, perché vi sono i corsi di formazione teorico/pratici a 350 € per 10 giorni che circa 200 frequentatori/lavoratori devono pagare per apprendere i fondamenti dell’agroecologia. Un semplice moltiplicazione ci dice che quell’ettaro produce ulteriori 70.000 € di introiti.
Secondo esempio
Passiamo al creatore della “Ferme d’Avenir” di Maxime de Rostolan che in quattro anni su 1,5 ha di permacoltura aveva preconizzato di far lavorare 3 persone fisse (5460 ore di lavoro in questo caso pagate) che gli avrebbero prodotto 100.000 € di frutta e verdura. Ormai il quadriennio è finito ed il risultato è stato di solo 27.000 € e con ben 8000 ore di lavoro. Come si può evincere dal link anche qui ci sono i lavoratori che prestano la loro opera praticamente non remunerata. Comunque, quando a Mr. De Rostolan si è fatto notare che l’iniziativa si è rivelata un fiasco lo ha ammesso, ma ha aggiunto che lo è stato solo produttivamente perche se la collettività gli pagasse le esternalità positive sull’ambiente il risultato economico sarebbe ben migliore. Vi rendete conto che pretese hanno per coltivare 15.000 mq?
Terzo esempio
Passiamo ad osservare il caso del “Domain du possible” che ha fatto questo annuncio pubblico: “si cercano tre persone disposte a venire a lavorare per noi gratuitamente, cioè persone rifuggenti l’alienazione salariale in quanto il fare agroecologia è già appagante in sè. Si preferiscono persone con precedente esperienza di lavoro”.
Notare che chi pretende di essere pagato per una prestazione lavorativa secondo questa gente è affetto da “alienazione salariale”. Però, se vi dico chi è la proprietaria del Domain du Possible allora si può spiegare il tutto: la proprietaria è Françoise Nyssen, attuale Ministro della cultura di Emmanuel Macron, proprietaria della casa editrice Actes Sud del valore di 4 milioni di euro e che riceve sovvenzioni pubbliche (nota: un ministro della cultura che fa sovvenzionare la sua casa editrice è una cosa quasi italiana…).
A chiosa di tutto ciò non potevano mancare le interconnessioni tra gli esempi citati: Pierre Rabhi ha venduto 1,16 milioni di copie di libri e chi glieli ha pubblicati? La casa editrice Actes Sud!
La foto di apertura è di Olio Officina
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