Gea Terra

Lobby del biologico, atto 2

C’è una crescente domanda di cibi cosiddetti “bio”. Solo che per supportare tante richieste da parte del mercato occorre sacrificare gli ideali ambientalisti che muovevano i produttori sin dall’esordio. Il nuovo “ideale” da cavalcare è lo sfruttamento economico delle nuove tendenze di consumo. La “mania” del cibo biologico fa oggi molto comodo, tanto più che si è ormai in presenza di una domanda fideistica, divenuta perfino inelastica in certe categorie di consumatori. Quanto poi sostenuto dal sottosegretario Olivero, non è degna di un eletto a gestire la cosa pubblica!

Alberto Guidorzi

Lobby del biologico, atto 2

E’ in atto a Bruxelles la revisione del protocollo di produzione delle derrate alimentari con il metodo biologico (“Bio”). E’ evidente che le lobby che stanno dietro a questo movimento sentono l’esigenza di assecondare la crescente domanda di cibi biologici in atto nella società. Dato, poi, che la domanda di questa categoria di cibo investe più la patologia ortoressica (microcategoria dell’anoressia) piuttosto che una innovativa e ragionata maniera nuova di alimentarsi, essa è divenuta man mano un vero e proprio vaso di Pandora da aprire e sfruttarne i contenuti da parte d queste lobby politico ideologiche sostenute finanziariamente dalla grande distribuzione e di riflesso dalla politica perchè creerebbe di consensi. Nello stesso tempo però queste lobby sono coscienti che è d’obbligo creare un’adeguata offerta, duratura e in aumento se si vuole massimizzare i profitti. Di conseguenza la produzione agroalimentare “bio” capace di supportare una domanda tanto in crescita deve essere sostenuta anche a scapito degli iniziali ideali ambientalisti. Il nuovo “ideale” è diventato quello dello sfruttamento economico di queste tendenze consumistiche.

La “mania” del cibo biologico fa molto comodo ai componenti della lobby, in quanto i guadagni di questo business hanno un trend di aumento a due cifre e per giunta siamo in presenza di una domanda fideistica e ormai divenuta inelastica in certe categorie di consumatori. Sotto ve ne sono degli esempi.

Tuttavia, qualcuno potrebbe pensare che stia esagerando. Se reputa che io faccia questo, lo invito a valutare queste situazioni e dirmi se:

1°- il credere ad un qualcosa che impone solo una particolare condotta agronomica di una pratica di coltivazione, tra l’altro più o meno controllata, ma senza, però, pretendere che vi sia un riscontro obiettivo e misurabile scientificamente delle qualità del prodotto che se ne ricava, sia normale e soprattutto razionale. Si ha, in altri termini, una fiducia piena e cieca su quanto si mitizza circa le asserite migliori caratteristiche ambientali e salutistiche dei prodotti solo perché portano un label biologico. Ebbene, seppure in presenza di tanta labilità di riscontri, il consumatore biologico accetta acriticamente di pagare il cibo che consuma da un 50 ad un 70% in più del corrispondente cibo normale. QUI e QUI

possa essere definita una scelta razionale credere nella salubrità delle “sigarette ricavate da tabacco bio e solidale” (QUI), o nel voler essere sepolti in un una “bara bio” (QUI) infine credere ad una panzana tecnico-lessicale come questa (QUI).

Ma ci si rende conto che la nostra COOP, che non è un ente di beneficienza, pretende di far credere ai consumatori che la loro carne non è stata nutrita da mangimi ricavati da PGM, quando non esiste nessuna possibilità di controllo da parte di terzi della veridicità dell’asserzione? Eppure i consumatori ci credono eccome e a nulla vale far notare loro che nella carne, in assoluto, non si riesce a vedere ed ad individuare la proteina prodotta dal tratto genetico modificato se eventualmente si trova inserito nel mangime. In altri termini la carne di un vitellone nutrito con soia GM o con soia OGM-free ben allevato e se ne fossero controllati i parametri in modo scientifico se ne ricaverebbe che questa è esattamente identica nei due casi. Faccio anche notare che ormai la soia OGM copre l’82% di tutta la soia coltivata ed è elemento indispensabile di un mangime zootecnico. Inoltre stante questa situazione, le varietà OGM free sono sempre più scadenti produttivamente: QUI

Che le piante GM non comportino più rischi di quelle convenzionali non lo dico io ma lo ha affermato qualche giorno fa l’Accademia delle Scienze USA dopo aver analizzato tutte le ricerche disponibili e audito tutte le parti. Essa afferma: “E’ difficile ormai fare la distinzione tra le nuove biotecnologie d’ingegneria genetica, sviluppate a partire dal 1970 ed i metodi convenzionali di coltivazione”.In realtà le piante modificate e il battage mediatico hanno solo “intossicato” il pensare dei consumatori.

A niente valgono tutte le indagini serie che negano esserci benefici sanitari significativi nel consumare prodotti biologici

(1) Cyberacteurs
(2) Efsa
(3) Strategie
(4) Annals

A conferma di quanto suesposto si sa che sul documento di revisione in stesura a Bruxelles vi è stato un intervento pressante da parte di queste lobby del “bio” affinché la tolleranza sulla presenza di residui di pesticidi nei prodotti biologici sia aumentata.

In altri termini non si vuole che questa “gallina che depone uova d’oro” muoia prima di deporle. Nella prima stesura del regolamento, infatti, vi sono indicazioni che una eventuale presenza di residui d pesticidi non debba essere in assoluto un elemento discriminante per rifiutare la certificazione biologica del prodotto. Come si vorrebbe camuffare questa maggiore tolleranza? Lo si vorrebbe fare chiedendo che la decertificazione di un prodotto bio avvenga solo in caso di colpa provata dell’agricoltore od operatore. Se però la colpa non è provabile, seppure in presenza di residui di pesticidi, allora si dovrà dichiarare questi come provenienti da “contaminazione accidentale” e pertanto, se non si raggiungesse una certa soglia quantitativa di residui presenti, i prodotti agroalimentari derivati manterrebbero la certificazione “bio”. Ora non penso sia un “pensar male andreottiano” il far notare che una colpa la si può scoprire se la si cerca, ma se non la si vuol cercare essa non esiste mai.

Forse qualcuno crede che nel biologico non esistano dei residui di pesticidi o non siano mai esistiti residui di pesticidi ammessi in AB e rivelatisi pericolosi?

Ecco se pensa ciò è meglio che si disinganni prendendo cognizione di quanto dice l’EFSA:

“ Nel 15,5% dei campioni di prodotti biologici (717 dei 4620 campioni analizzati) sono stati rilevati residui di pesticidi nei limiti di legge, mentre lo 0,8% dei campioni ha superato il LMR. In questi campioni, sono stati identificati 134 pesticidi distinti. Nella maggior parte dei casi i residui rilevati erano legati ai pesticidi che sono consentiti per l’agricoltura biologica, o erano inquinanti ambientali persistenti o dei residui di sostanze che non sono necessariamente legati all’uso di pesticidi, ma che possono venire da fonti naturali.”

Solo che gli organismi certificatori hanno anche la facoltà di chiedere deroghe che vengono regolarmente concesse in presenza di attacchi particolarmente virulenti di parassiti od in mancanza di prodotti sostitutivi accettabili dai regolamenti bio. Il Rotenone è stato ammesso in agricoltura biologica fino al 2011 eppure era stato riconosciuto direttamente collegato con l’insorgere della malattia di Parkinson molto prima della proibizione. L’Olio di Neem (azadiractina) è un noto perturbatore endocrino, infatti, in India, dove il prodotto è ricavato da una pianta autoctona, è da sempre usato come contraccettivo maschile. Eppure in Francia ha ricevuto una deroga di uso temporaneo per 120 giorni nel 2015 per combattere un attacco particolarmente grave di afidi sui meli.

Forse qualcuno crede che il protocollo di produzione di alimenti biologici li preservi da avvelenamenti alimentari?

Forse non sa, perché lo scandalo è stato subito messo a tacere, ed i media hanno assecondato il diktat delle lobby ecologiste, che non più tardi di 5 anni fa in Germania (maggio-luglio del 2011), molto verosimilmente dei germogli di semi di fieno greco certificati biologici e come tali sottoposti tal quali alla germinazione sono stati la causa di 53 decessi e ben 3842 persone ospedalizzate a causa dello sviluppo di una particolare forma molto virulenta del batterio E. Coli. Eppure sarebbe bastato lavare i semi con acqua clorata come fa ogni massaia quando usa l’amuchina o irraggiarli come fa il barbiere quando depone i rasoi nell’apposito contenitore. Tra le persone ospedalizzate si sono verificati casi di lesioni perenni alle funzioni renali (QUI).
Tanto per fare un raffronto, i morti accertati subito dopo l’incidente di Chernobyl sono stati 65, e non mi si dica che voglio mettere sullo stesso piano Chernobyl con il caso dei germogli, perche non è questo che voglio dire. Ecco qui sotto un diagramma che mostra l’evoluzione dell’epidemia.

Di fronte a queste realtà di estrema gravità possiamo pensare di porle sullo stesso piano del presunto vantaggio di una minore presenza di residui di fitofarmaci di sintesi (in ragione di solo un 30% in meno secondo l’indagine della Stanford) nel cibo bio, quando in convenzionale per il 97% questa presenza è inferiore di molto ai minimi legali ritenuti essere innocui? Oppure possiamo anteporre il bio al consumo degli OGM quando nessuna risultanza ne ha dimostrato eventuali danni alla salute e quando è dimostrabile che ci cibiamo di OGM naturali o opportunisticamente non dichiarati tali da sempre? In biologico si coltiva la varietà di frumento Renan che è frutto di mutazione indotta.

Si crede forse che il cibo biologico sia solo il frutto di una produzione di prossimità, venduta da piccoli contadini che vivono di questo lavoro?

Beh in questo caso dovrebbero informarsi meglio e qui si contribuisce dicendo di confrontare il fatturato della famigerata Monsanto, considerata la multinazionale per eccellenza, e della statunitense Whole Food che è una società di distribuzione di prodotti biologici. Qui ne diamo la possibilità tramite questa immagine:

Catene di grande distribuzione che contano molto sul business del biologico come Walmart e Carrefour hanno fatturati rispettivamente di 469 e 86,3 miliardi di $ Usa.

Questo andamento un po’ parossistico della domanda e le conseguenti soluzioni che sono proposte spaventa anche i produttori che hanno scelto con onestà di intenti di coltivare le proprie aziende con il sistema biologico.

Li spaventa perché sanno che per coltivare biologico occorre un’adesione ad una filosofia di vita, sentimenti che permettono di accettare il sacrificio di un coltivare più faticoso, la depressione dell’impotenza e lo sconforto del perdere parte del raccolto. Non sono i contributi che leniranno tutti questi stati d’animo, anche perché sanno che chi è direttamente e egoisticamente interessato a soddisfare la domanda (gli enti certificatori e soprattutto la grande distribuzione) non interessa più di tanto la provenienza o la qualità (gli basta che i prodotti portino l’etichetta “bio”), vogliono solo disporre del prodotto e possibilmente al minor prezzo possibile per ingrossare i ricarichi e aumentare i loro fatturati.

In altre parole temono che capiti, come sicuramente capiterà, ciò che è avvenuto in agricoltura convenzionale, dove si è arrivati a produrre a costi superiori ai prezzi di vendita a causa della concorrenza di altre realtà produttive, come lo sono le produzioni estere di paesi in via di sviluppo dove, purtroppo, non si possono permettere di lavorare seguendo una filosofia si vita, ma che faticano solo per lenire gli spasmi della fame. (QUI e QUI)

Le produzioni nazionali di cibo biologico come soddisfaranno una domanda tanto sostenuta?

I programmi di sviluppo nazionali francesi, ed ora anche italiani, della superficie destinata a biologico hanno visto dei veri e propri insuccessi ai fini di soddisfare una domanda tanto crescente e divenuta pressoché inelastica.
In Francia, il programma che prevedeva entro il 2018 un 20% di superficie a biologico non ha ancora raggiunto il 5% (ma molta di questa superficie non produce cibo) ed allora si è pensato di offrire aiuti pubblici per incentivare la conversione da convenzionale a biologico, ma, scandalosamente, senza che sia richiesto un impegno tassativo a restare in fase produttiva biologica per un congruo numero di anni. In Italia dove si è decantato tanto l’essere il paese con più superficie a biologico, circa il 10% della SAU, ma in realtà il 67% di questa superficie non produce cibo, è di questi giorni un’intervista al sottosegretario Olivero con delega sul biologico che pontifica su un nuovo Piano Strategico Nazionale per il biologico. Ma se siamo i primi della classe perché occorre rilanciare il biologico? QUI l’intervista.

Il sottosegretario approfitta per “raccontarsela e cantarsela” dicendo autoreferenzialmente che il coltivare biologico beneficia tutta la collettività (sic!) per presunti vantaggi ambientali (preserva la fertilità dei suoli, tutela la biodiversità, contribuisce a ridurre gli effetti dei cambiamenti climatici, gestisce in modo oculato le risorse idriche), ma ha costi maggiori (costi di produzione più elevati, maggiori vincoli e rese inferiori) che quindi devono essere ripagati ai coltivatori bio dalla collettività.

Ma ci si rende conto a che livelli di manipolazione della realtà si è arrivati?

– Abbiamo una domanda di consumatori elitari e danarosi che il potere politico cerca di soddisfare caricando tutti i maggiori costi sulla fiscalità generale come se questa non fosse già abbastanza carica.

– Importiamo già il 50% del nostro fabbisogno alimentare e si vorrebbero destinare 2 milioni di ettari delle nostre terre a non produrre ciò che potenzialmente potrebbero dare per concorrere a ridurre il nostro sbilancio alimentare.

– Se poi questi 2 milioni di ettari fossero in gran parte, come lo è per gli attuali 1,3 milioni, quelli resi economicamente incoltivabili dalle mutate condizioni socioeconomiche, allora assisteremmo ad una vera e propria truffa di Stato per tassare molti, favorire pochi e ricavarne nulla. Lo scandalo e l’attentato recente sui monti Nebrodi ha proprio anche questa radice.

L’intervista al Sottosegretario Olivero ed i relativi concetti espressi non è degna di un eletto a gestire la cosa pubblica!

La foto di apertura, di Luigi Caricato, riprende un quadro esposto al MuSa di Salò: “Natura morta” di Cagnaccio di San Pietro

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