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Perché la Giornata della Terra

Quarantasei anni fa, venti milioni di americani scesero in piazza in difesa dell’ambiente. Da allora il 22 aprile tutto il mondo festeggia. Intorno ai problemi legati all'ambiente comincia a prendere forma una consapevolezza individuale e collettiva che si trasforma in nuove sensibilitàe stili di vita. La recente Enciclica "Laudato sì", di papa Francesco, torna diffusamente a parlare della crisi ecologica e delle ipotesi di soluzione

Alfonso Pascale

Perché la Giornata della Terra

Lo sviluppo dell’agricoltura nei paesi occidentali aveva risolto finalmente il problema dell’autosufficienza alimentare di quelle popolazioni ma aveva al tempo stesso determinato gravi contraddizioni. La surrogazione di un’economia rigenerativa della natura, propria dell’economia contadina, con un’economia dissipativa della tecnica, a partire da un utilizzo massiccio di sostanze chimiche, aveva provocato il saccheggio della fertilità storica dei terreni agricoli e dato vita al fenomeno dell’erosione. L’attività umana che originariamente aveva dato vita ai primi insediamenti comunitari stanziali, si era trasformata in un’attività produttiva capace di erodere capitale sociale e ricchi patrimoni culturali, saperi secolari legati alla qualità dei cibi e alla custodia del territorio.

Intorno a questi problemi incomincia a prendere forma una consapevolezza individuale e collettiva che si trasforma in nuove sensibilità, in nuovi stili di vita, in nuovi comportamenti. L’anno successivo il tema è ripreso da Paolo VI nella lettera apostolica “Octogesima Adveniens”: “L’uomo prende coscienza bruscamente (…) dello sfruttamento sconsiderato della natura, tanto da rischiare di distruggerla e di essere a sua volta vittima di siffatta degradazione”. E insieme al degrado ambientale, Papa Montini parla del “contesto umano, che l’uomo non padroneggia più, creandosi così per il domani un ambiente che potrà essergli intollerabile”. Dopo pochi mesi esce il rapporto sui “limiti dello sviluppo” commissionato al Massachusetts Institute of Technology (MIT) dal Club di Roma che annuncia un dato sconvolgente: dopo il 2000 l’umanità si sarebbe scontrata con la rarefazione delle risorse naturali. Nel frattempo la guerra del Kippur fa emergere la natura finita del petrolio e pone all’attenzione dell’opinione pubblica la centralità della questione energetica. Nel Senato della Repubblica, grandi tecnici prestati alla politica lanciano anch’essi un allarme per quanto sta accadendo nel rapporto tra uomo e natura: Giuseppe Medici presiede la Conferenza nazionale delle acque, da cui emerge la scarsità di tale risorsa, e Manlio Rossi-Doria redige la relazione conclusiva dell’indagine conoscitiva sui problemi della difesa del suolo e prospetta un grande progetto per la salvaguardia e la valorizzazione della montagna. In un discorso pronunciato al Senato il 27 maggio 1971, il Professore di Portici afferma: “Quando dico che l’impegno ecologico dovrà contemporaneamente essere assolto a diversi livelli, intendo sostanzialmente dire che non basta prevedere l’elaborazione e l’attuazione di un certo numero di specifiche politiche di conservazione e difesa dell’ambiente, di prevenzione e riduzione degli inquinamenti. Occorre, infatti, andare bene al di là di questi interventi diretti perché i più solidi risultati si possono ottenere solo ripensando sistematicamente in chiave ecologica tutti i piani e gli atti nei quali si articola lo sviluppo economico e civile del paese, riformulando, alla luce delle esigenze ecologiche, tutte le politiche di settore nelle quali si esprime la politica generale dello Stato”.

È in tale contesto che, nei territori rurali industrializzati e nelle città traboccate nelle campagne circostanti, nascono nuove forme di ruralità. S’interrompe l’esodo dalle campagne e si registra una lenta inversione di tendenza. All’esodo rurale incomincia a subentrare l’esodo urbano. I figli e i nipoti di chi era fuggito nei decenni precedenti dalle campagne alla ricerca di condizioni socio-economiche più appaganti scoprono che, a ricreare alcuni aspetti della società tradizionale fuori del suo contesto di miseria, le cose potrebbero andare meglio. Si affermano così stili di vita che integrano gli aspetti irrinunciabili della condizione urbana, dalla fruizione più facile delle diverse forme della conoscenza e della cultura all’adozione di modelli di abitabilità rispettosi della privacy, con le opportunità che solo i territori rurali sono in grado di offrire. Una nuova agricoltura silenziosamente introduce un correttivo di civiltà. In una globalizzazione che pare aver smarrito il senso del luogo, riemerge un’agricoltura di servizi che pochi riescono a scorgere e a valutare nel suo significato più autentico. Un’agricoltura di comunità che incrocia inediti filoni culturali e operativi presenti nei servizi sociali e sociosanitari: quelli che guardano con approccio critico e riflessivo al vecchio Stato sociale che si va decomponendo. Un’agricoltura sociale che ricostruisce territori e comunità, sperimenta nuovi modelli di welfare, promuove inserimenti socio-lavorativi di persone svantaggiate in contesti non assistenzialistici ma produttivi. Un’agricoltura civile che reintroduce nello scambio economico il mutuo aiuto e la reciprocità delle relazioni interpersonali.

La recente Enciclica “Laudato sì” di papa Francesco torna diffusamente a parlare della crisi ecologica e delle ipotesi di soluzione in campo allo scopo di assumere i migliori frutti della ricerca scientifica oggi disponibile: inquinamento, rifiuti, cultura dello scarto, cambiamenti climatici, acqua, perdita di biodiversità, deterioramento della qualità della vita e della mobilità nelle città sono i temi affrontati. E nell’individuare la causa di fondo di tali problemi punta il dito sulla condizione di isolamento in cui oggi si trova l’individuo e la continua erosione delle relazioni interpersonali come esiti diretti del modello di sviluppo economico. Un modello fondato sull’idea della crescita illimitata e delle innovazioni tecnologiche introdotte non più introdotte mediante un’osmosi tra conoscenza scientifica e saperi esperienziali.

Nella cultura contadina è presente da un tempo immemorabile l’idea che la terra in determinate condizioni “si stanchi”. Ora, l’idea di stanchezza attiene ad un organismo vivente e il fatto che i contadini abbiano sempre associato questa condizione anche alla terra per rispettarne il decorso è la prova di un profondo senso di responsabilità da essi manifestato nei confronti di questo bene. Il momento in cui avviene la rottura tra la conoscenza scientifica e la cultura agricola esperienziale e, dunque, dell’equilibrio tra visione produttivistica dell’attività agricola e visione conservativa delle risorse ambientali va collocata dagli anni Sessanta in poi. E coincide con il venir meno progressivamente di un impegno pubblico nella trasmissione del progresso tecnico e, più complessivamente, nelle politiche territoriali che guardano non solo al sostegno agli investimenti ma anche alle attività educative e di crescita culturale.

Da lì bisogna dunque ripartire, con una visione globale dei problemi ambientali e coinvolgendo l’insieme dei cittadini, per ridefinire il rapporto tra scienza, tecnica e società, rifondandolo sulla responsabilità, sull’educazione e sull’interazione dei saperi. Si tratta di rivalutare i beni relazionali e il capitale sociale nei processi di sviluppo, cioè quei valori su cui la nuova ruralità ha inteso rifondare la funzione dell’agricoltura come generatrice di comunità. E si tratta anche di educarci ad adottare comportamenti e stili di vita responsabili con cui possiamo, personalmente e come gruppi umani, contribuire ad affrontare i complessi problemi che sono dinanzi all’umanità. Questo è il significato più profondo della Giornata della Terra che ogni 22 aprile festeggiamo.

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