Sul bio tutto tace
Alla base del “cibo biologico” vi è un grande business che suscita le mire per facili guadagni di un buon numero di operatori. L’onesto agricoltore biologico, tuttavia, sembra essere relegato in un angolo. È davvero così? Ciò che sorprende, è che intorno alla revisione del regolamento del “biologico” nell’Unione Eruropea, in Italia vige la regola del silenzio. Nessun dibattito
Come ho avuto modo di dire in precedenza, nel settore dell’agricoltura biologica vi sono (tanti) accaparratori di sussidi supplementari per le loro terre pressoché abbandonate e un esiguo numero di persone (le statistiche sono ingannatrici) che nella situazione disastrosa della struttura agricolo-fondiaria italiana ha deciso di vedere se con la scelta di produrre biologico riesce a sbarcare meglio il lunario. Tra questi vi è anche chi è animato da lodevoli sentimenti ambientalistici e che, onestamente, antepone questo suo senso civico al mero guadagno. Insomma, fatte le dovute distinzioni, alla base del “cibo biologico” vi è un grande business che suscita le mire per facili guadagni di un buon numero di operatori, in questo modo l’onesto agricoltore biologico è relegato in un angolo.
L’operazione Amazon-Whole Foods per 13,7 miliardi di dollari ne è la dimostrazione lampante, ma lo è anche la discussione in sede UE sulla revisione del Regolamento europeo del biologico e di cui, come ho detto nel titolo, in Italia non si parla; forse perché vede confrontarsi ideologia e realismo e deve primeggiare l’ideologia, e pure perché si prefigurano pericoli per delle rendite economiche e politiche consolidate nel settore. Sembra cioè che sia meglio “non far sapere al contadino com’è buono il formaggio con le pere”.
La revisione proposta si basa su un documento del commissario all’agricoltura Phil Hogan in discussione da tre anni, ma le posizioni dei vari Stati Membri sono connotate da significative differenze di visione, tanto che nel consiglio agricolo UE del 12 u.s. un accordo non è stato raggiunto, benché Malta, che assicura la presidenza UE, lo vorrebbe raggiungere a tutti i costi prima della fine dei suo semestre.
Cosa c’era nella proposta Logan che fino ad ora ha occupato ben tre anni di discussione? In sintesi si discute tra due concezioni del biologico: bio storico o bio industriale? Detto così però non traspare il vero contendere, che è in realtà tutte queste cose: tecnico, economico, politico e ideologico; cioè, nel regolamento si prefigurano dei cambiamenti profondi, tali che pure la sopravvivenza delle organizzazioni legate al biologico storico sono in gioco. Ad esempio, la scelta se usare o meno le sementi ibride è una questione tecnica e ideologica nello stesso tempo.
Se da una parte vi sono dei Paesi che rifiutano l’industrializzazione (Francia, Italia e Belgio, ad esempio), dall’altra vi sono in altri membri UE (paesi nordici e dell’Est), dove esistono già realtà biologiche fatte da 10 ettari di serre con coltivazioni fuori suolo, oppure da 100 ettari e più non protetti e biologici.
Dilemma: si considera biologico solo il piccolo e il locale dei tre paesi succitati, oppure anche quello dell’agricoltura artificiale delle serre o delle grandi aziende?
E’ perfettamente intuibile che in un mercato unico e di fronte a grandi organizzazioni di vendita che hanno puntato sul business, le economie di scala delle seconde metterebbe fuori gioco il piccolo e il locale.
I puristi dicono che il concetto di agricoltura biologica per principio si opponeva allo spreco di risorse praticato dall’agricoltura convenzionale, solo che dei grandi gruppi internazionali si sono appropriati di questa nobile idea, l’hanno denaturata immettendo sul mercato delle produzioni di massa.
D’altronde le differenze di prezzo praticate al consumatore di biologico sono tali che la tendenza non poteva non allettare la grande distribuzione che, però, per avere volumi e continuità di rifornimenti, ha bisogno che il settore si industrializzi sia a livello europeo che mondiale e che, soprattutto, esso continui ad essere sovvenzionato con aiuti aggiuntivi a quelli normali della PAC, appunto per avere la sicurezza dei rifornimenti.
A questo proposito dato che molti dei rifornimenti sono costituiti da merce importata, viene toccato il problema dell’equivalenza del metodo di coltivazione biologico; da una parte vi è distribuzione, e anche certificazione che propugna un allargamento delle equivalenze, mentre dall’altra i produttori europei sono contrari in quanto i paesi terzi sono dei produttori temibili per i bassi costi di produzione. Infatti lo slogan dei produttori UE è che il biologico importato deve essere conforme e non equivalente.
Non conosco la situazione italiana, in quanto l’omertà su queste cose regna, ma in Francia si sta prefigurando, specialmente da parte delle regioni, di affidare la gestione del bio alle Camere di agricoltura (faccio notare che le Camere di agricoltura. inesistenti in Italia come funzione, a chi vuole passare al biologico fanno delle expertise tecnico-economiche gratuite di fattibilità che costano 2/3000 euro), o addirittura ai sindacati agricoli, allo scopo di usare strutture esistenti e insopprimibili e risparmiare i soldi che ora vengono distribuiti all’associazionismo del biologico. Si comprende che se la tendenza si generalizzasse sarebbe la morte di quella pletora di ONG sorte sull’onda del biologico.
Insomma da una parte vi è il proliferare di un nuovo tipo di consumatore, che si è legato al concetto tradizionale del biologico (piccoli produttori a circuito corto) e che possiamo caratterizzare con questo loro modo di pensare: “se un cibo è buono da pensare automaticamente diventa buono da mangiare” , mentre dall’altra s’impone la logica economica.
Il bio storico, purtroppo, è troppo legato all’uso di più manodopera e a produzioni ridotte e quindi questo mercato in repentina espansione per sopravvivere non può far senza delle economie di scala di strutture di produzione adeguate e della grande distribuzione. Ma qui sorge un secondo dilemma: ciò sarà ancora un cibo “buono da pensare” per il consumatore? Se ciò verrà meno e non sarà più così “buono da mangiare”, il settore del biologico avrà il futuro luminoso prefigurato?
Comunque sia, l’accordo sul nuovo regolamento non è stato ancora trovato, e i punti principali controversi sono:
}L’ammissione tra i metodi biologici della produzione protetta fuori suolo di derrate, perorata dai paesi nordici adducendo a motivo che si tratta di una produzione più rispettosa dell’ambiente (più economica in acqua, fitofarmaci e in certi casi anche in energia). Questa produzione biologica esiste già ma solo per derogazione dal regolamento del biologico vigente; ora la si vorrebbe ammettere per regolamento, ma se lo si farà sicuramente si assisterà a una estensione anche a Sud.
(NdR: certo che anche la sola deroga è inconcepibile se si pensa a dove va a finire il concetto di rotazione che è il fondamento del “credo biologico” e della credibilità della certificazione?).
} L’allungamento dei tempi tra un’ispezione ai siti di produzione e la successiva: oggi è obbligatoria una volta all’anno o su appuntamento o con controlli inopinati, mentre nel nuovo regolamento la si vorrebbe portare a due anni.
(NdrR con due anni davanti un sito produttivo può mettere in atto pratiche contrarie che però alla visita successiva non saranno svelate; inoltre sarebbe giusto chiedere che le spese di certificazione si dimezzassero o addirittura si smantellassero gli organismi certificativi, i quali se prima erano una specie di manomorta ora lo diverrebbero in modo obiettivo. Mi spiego se prima almeno con una volta all’anno si poteva controllare l’adeguamento al protocollo ora diventerebbe problematico. Se ciò andasse in porto cosa ne direbbero i consumatori duri e puri a cui è sempre stato detto che pagavano il doppio anche per i controlli di conformità del protocollo? Si fa presente che la certificazione “bio” non è una certificazione di qualità, ma solo di conformità ad un protocollo e questo i consumatori non lo sanno sanno, ma gli è lasciato credere).
} La terza modifica “espugna totalmente il castello” in quanto ora in presenza di inquinamenti da pesticidi proibiti in “bio” la certificazione è rifiutata, mentre se passa quanto contenuto nel nuovo regolamento ciò non è più tassativo. Sì pensi che per questo preciso punto e pur di avere l’accordo si è parlato di lasciare liberi gli Stati UE di fissare limiti nazionali entro i quali certificare o meno.
(NdR: qui ricadiamo nell’inconcepibile, prima di tutto per la concorrenza sleale che si genererebbe in quanto il logo del “bio” di uno Stato Membro vale in tutta l’UE, ed in secondo luogo, non meno importante, si potrebbe arrivare ad avere residui non da inquinamento casuale come si vuol far credere ora, ma un uso mirato di certi fitofarmaci non ammessi. Con controlli a cadenza biennale la pratica sarebbe facilitata. In questo caso poi verrebbe meno la funzione degli enti certificatori perché sarebbe sufficiente una sola analisi dei residui).
A mo’ di conclusione, rispondiamo ora alla domanda: “Produrre bio è un affare come un altro?”
Ebbene, a me pare che le discussioni per il nuovo regolamento permettano di rispondere affermativamente.
Un’obiezione potrebbe essere che non possiamo dirlo, in quanto l’accordo non c’è, solo che le forze in campo dispongono di mezzi di pressione inconfrontabili e, inoltre, ben sapendo l’andazzo pilatesco della Commissione UE, al massimo si opterà per nazionalizzare le decisioni controverse.
La foto di apertura è di Luigi Caricato
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