Le lobby orfane di De Castro
La rinuncia dia candidarsi di nuovo al Parlamento europeo è stata annunciata pubblicamente e con una intervista al Corriere della Sera sono state espresse le motivazioni. È una decisione che spinge inevitabilmente a una valutazione dell'operato di ben ventitré di attività politica. Se ne ricava un raccolto povero, anche per via di una governance bloccata
“La scelta di Zingaretti di indicare Calenda come capolista (nella circoscrizione Nord-Est) mi ha messo nelle condizioni di non ricandidarmi. […] Se mi avesse chiesto il sacrificio di rimandarmi per la terza volta a Bruxelles io non avrei detto di no perché non sono una persona che si tira indietro. Zingaretti però non lo ha fatto e non era certamente il caso che io scalpitassi alla ricerca di una posizione”. Con questa risposta a una giornalista del Corriere della Sera che lo ha intervistato, Paolo De Castro svela il significato della sua rinuncia a candidarsi di nuovo al Parlamento europeo. Ma c’è dell’altro nell’intervista che merita di essere segnalato. L’ex ministro delle Politiche agricole afferma che la sua decisione l’ha presa consultandosi con Prodi che lo ha consigliato a seguire il suo esempio poiché “bisogna uscire bene da una esperienza politica”. Dice poi di aver sostenuto Zingaretti nelle ultime primarie del Pd e di aver dato una mano a Renzi in passato: “All’inizio mi piaceva poi purtroppo è diventato antipatico con certi suoi atteggiamenti. Ma delle sue politiche condividevo tutto”. E conclude con una speranza: “Il mio account di Facebook è pieno di messaggi. Il Consorzio del Prosecco, il Consorzio del Grana padano… si sentono orfani. Ma io rispondo a tutti: non scappo al Polo Nord. Mai dire mai, potrei sempre tornare”.
Un lungo galleggiamento
In questa intervista si racchiude il senso della lunga esperienza politica di De Castro, incominciata nel 1996 come consigliere agricolo presso la presidenza del Consiglio nel primo governo Prodi, successivamente proseguita come ministro delle Politiche agricole nel governo D’Alema e nel secondo governo Prodi e, dal 2009 ad oggi, come parlamentare europeo. Non è cosa da niente galleggiare per ventitré anni nei meandri del potere “verde”. La politica agricola è stata da sempre una politica consociativa, anche quando c’erano la Dc e il Pci; e De Castro vi ha svolto un ruolo di primo piano non solo nelle postazioni di governo ma anche dall’opposizione. Solo in occasione del secondo governo Amato gli fu preferito Pecoraro Scanio alla guida di Via XX Settembre. Ma si trattò di una parentesi che durò meno di un anno. Con l’arrivo di Alemanno, tutto si aggiustò.
Insomma, prodiano quando comandava Prodi, dalemiano quando regnava D’Alema, renziano quando al timone c’era Renzi. Ora l’ex presidente della Commissione Agricoltura del Parlamento europeo è zingarettiano: un po’ arrabbiato perché gli è stato preferito Calenda, ma sempre disponibile a tornare in auge con altri ruoli, alla stregua di Prodi, il suo antico capo. Della stessa pasta sono fatti anche i legami con le organizzazioni agricole, che si stringono e si allentano a seconda di dove va il vento, in un continuo barcamenarsi tra Coldiretti, Confagricoltura e Confcooperative. Il filo rosso che congiunge le varie tappe del percorso politico di De Castro è, dunque, quello di un navigatore in diversi mari, passando da uno all’altro apparentemente per motivi futili e penosi (antipatie o simpatie momentanee nei confronti di Tizio o di Caio), ma sempre scegliendo, con consumata abilità, i luoghi dove si annidano spazi di potere da gestire per soddisfare quelle lobby che ora si sentono orfane.
Galleggiare per ventitré anni richiede anche uno sforzo di fantasia comunicativa per ammantare le diverse tappe di una politica agricola pressoché statica e monotona da quasi trent’anni, con messaggi a prima vista innovativi. “Banda dei Quattro” definì i suoi rapporti privilegiati di ministro agricolo coi colleghi di Gran Bretagna, Svezia e Danimarca, che sono dei nani nel settore primario, quando tentò di condizionare con un “blocco di minoranza” l’asse franco-tedesco durante il negoziato su “Agenda 2000”. Ma bloccare un processo di riforma della PAC, già per sua natura lento e faticoso, si rivelò un errore perché favorì – ricevendo in cambio solo un piccolo aumento di quote latte – un’applicazione asfittica di una politica nuova elaborata a Cork, in Irlanda: lo sviluppo rurale.
“Triloghi” è l’altro termine che caratterizzò la sua comunicazione istituzionale nel periodo della presidenza alla Commissione Agricoltura del Parlamento europeo. Si tratta in pratica della co-decisione: ultima forma del potere legislativo di questa fase dell’integrazione europea basata sul modello decisionale intergovernativo. Nei “triloghi” (Parlamento – Consiglio – Commissione) si amministra di fatto (con la riservatezza del caso) il finanziamento della PAC e si definiscono le sue regole cogestite (appunto!). In quei “triloghi” De Castro poteva mettere sul tavolo negoziale gli interessi che ora si percepiscono orfani. Non importa se poi la PAC, da politica comune diventava un vestito di Arlecchino con una settantina di eccezioni da rinviare alle decisioni dei singoli Stati membri. Si avviava così quel processo di nazionalizzazione della PAC che ora si vorrebbe scongiurare. Ma è inutile chiudere la stalla quando ormai i buoi sono scappati.
Un raccolto povero anche per una governance bloccata
A costo di essere irriverente, penso che abbiano segnato la storia della politica agricola più i sei anni di Giovanni Marcora al dicastero di Via XX Settembre che i ventitré di De Castro tra Roma e Strasburgo. Del primo ancora oggi sono proverbiali le interminabili discussioni durante le trattative a Bruxelles, per fissare i prezzi agricoli, che si chiudevano immancabilmente all’alba con alcune decisioni significative per l’Italia, strappate agli interlocutori per sfinimento: il Pacchetto Mediterraneo, le misure per il rimboschimento delle regioni aride del Mezzogiorno, il regolamento sui servizi di assistenza tecnica per le imprese agricole, ecc. Di De Castro davvero non saprei cosa menzionare di importante.
Non vuole essere un esercizio ozioso questa disamina sull’attività di un parlamentare europeo uscente. Sono esperienze emblematiche che ci permettono, infatti, di toccare con mano i gravi limiti dell’assetto istituzionale europeo. Un modello decisionale farraginoso e teso a frammentare, tra gli Stati nazionali, le risposte ai problemi dei cittadini e delle imprese anche quando riguardano una politica che il Trattato definisce “comune”. Un Parlamento fortemente limitato nella sua funzione precipua, cioè quella di fare le leggi con poteri esclusivi. Per questo le prossime elezioni europee devono essere l’occasione per impegnare il Parlamento che sarà eletto a svolgere il Semestre costituente: si potrà così modificare il Trattato e dotare finalmente l’Unione di una governance democratica ed efficace.
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