Terra Nuda

Riguarda tutti noi

La grave crisi politica e sociale di Roma coinvolge tutto il Paese, perché - non occorre mai dimenticarlo - resta la capitale d'Italia. Le dimissioni di Ignazio Marino ci aprono a nuovi scenari e soprattutto a un'idea diversa e alternativa di città, in cui investire in coesione sociale, sviluppo e innovazione. Bisognerebbe puntare sulla responsabilità delle classi dirigenti locali perché sappiano scegliere poche cose da fare e farle bene

Alfonso Pascale

Riguarda tutti noi

Con la caduta di Ignazio Marino, il patto di potere che regge il “regolamento” di Sodoma Capitale, stipulato in qualche torre immaginaria della campagna romana, di cui avevo parlato in un articolo di sei mesi fa, perde due protagonisti, il sindaco e il magistrato. Ma il patto si rafforza perché a vedersela con il commissario del partito del premier sarà un altro commissario, questa volta nominato dal prefetto. La regola non scritta sembra confermarsi nel dare l’impressione all’opinione pubblica che tutto cambi perché nulla cambi. Ancora una volta è il principe di Salina a dettare le regole del gioco.

La metafora di Sodoma richiama il romanzo di Sade e il film di Pasolini. All’indomani dell’esplosione dello scandalo di Mafia Capitale, quella parte del mondo della politica e della società civile rimasta invischiata nel meccanismo mediatico-giudiziario prova innanzitutto a ricostruire una nuova immagine di sé: di chi sta dalla parte del “bene” che combatte il “male”. Cerca di creare un nuovo recinto in cui collocarsi e distinguersi: lo spazio pubblico delle “anime belle”. Utilizza tutti gli strumenti che la società della comunicazione mette a disposizione per occupare costantemente la scena. Inventa nuovi simboli, nuovi linguaggi, nuove modalità di esercizio del potere e delle forme di violenza con cui esso si manifesta.

È sicuramente encomiabile e va incoraggiato l’impegno a contrastare la nuova cupola scoperchiata dagli inquirenti. Tuttavia, è similmente importante disvelare le metamorfosi e i camaleontismi di un’antimafia di facciata priva di ricadute sul benessere collettivo per fare emergere, invece, l’impegno effettivo di persone e gruppi nel creare idee nuove, comportamenti responsabili e consapevolezze diffuse, capaci di incidere sullo sviluppo delle comunità e aprire nuovi spazi di democrazia.

Di qui il richiamo metaforico alla “scuola del libertinaggio” del marchese de Sade e a “Salò” di Pasolini: disvelare la presenza di una “scuola dell’antimafia” che sta costruendo pratiche perverse, ciniche e sadiche, volte a distorcere la democrazia, a ridurre gli spazi della partecipazione e ad allontanare le opportunità di crescita sociale, economica e civile delle comunità che vivono a Roma. Si tratta di un rischio reale che si può disinnescare con un serio esame di coscienza da parte della politica e della società civile, di cui parla Ernesto Galli della Loggia, accompagnato da una forte iniziativa dal basso a cui dare finalmente gambe.

L’inadeguatezza politica di Marino

Non si può governare a lungo una capitale senza coltivare un’idea di città. Quando il voto popolare riconfermava Rutelli e Veltroni agiva sull’elettorato il loro carisma personale, capace di supplire il vuoto programmatico e l’assenza di una classe dirigente coesa intorno ad una visione di città. Dinanzi alla crisi di fiducia indotta dallo scandalo di Mafia capitale, è apparso del tutto evidente che Marino non avesse quel carisma. Avrebbe dovuto immediatamente lavorare per dare un programma e una nuova classe dirigente alla città. Ma proprio in questo ha mostrato, in modo lampante, la sua inadeguatezza politica.

Eppure gli sono capitate due occasioni che avrebbe potuto sfruttare. La prima volta quando ha gestito la costituzione della città metropolitana di Roma. Ha agito incoscientemente come se stesse adempiendo ad un mero atto amministrativo, senza contrattare con il governo la definizione di un ordinamento speciale per Roma capitale che coincidesse con la città metropolitana. Si sarebbe così sottratto al ricatto dei “capibastone” locali e alla loro influenza sulla città, mettendosi in gioco come il sindaco che avrebbe finalmente realizzato il sogno di dotare l’Italia di una vera capitale, con poteri e risorse confacenti al ruolo che queste svolgono nei grandi paesi europei.

L’inadeguatezza politica di Marino è parsa evidente, una seconda volta, nei primi giorni successivi all’esplosione dello scandalo di Mafia capitale. Avrebbe dovuto immediatamente dimettersi e sottoporsi ad una nuova consultazione elettorale, con un vero programma e una lista del tutto svecchiata. Era in quel momento politicamente molto forte e non si sarebbe logorato, così com’è avvenuto, con continui rimpasti e con la stasi della vita amministrativa.

Quale idea di Roma?

Adesso si apre un terreno nuovo di iniziativa per quella parte di società civile che vuole contribuire a rigenerare la città, elaborando nuove idee e formando nuove leve per costruire una vera classe dirigente.

Ma quale idea di Roma bisogna elaborare? Non c’è più da un pezzo – e forse qui non c’è mai stata – una metropoli fordista da riorganizzare intorno a funzioni specializzate come la catena di montaggio di una grande fabbrica e ad un riequilibrio tra centro e periferie. Quel modello di sviluppo a cui corrisponde uno specifico modello di welfare oggi non è più attuale e si dovrebbe studiare solo in ambito storico. Siamo nella fase in cui si riorganizzano le città-territorio.

Negli Usa si è avviato un nuovo ciclo di sviluppo industriale fondato su internet e sulla robotica e, naturalmente, su una trasformazione totale del lavoro e su forme nuove dell’abitare. Il governo cinese ha varato un programma di costruzione di nuove città dove si trasferiranno entro il 2020 cento milioni di contadini che lasceranno le campagne. I nuovi centri urbani che stanno per nascere non saranno le metropoli fordiste che si sono sviluppate in Occidente tra l’800 e il 900 ma città-territorio che assorbono gli antichi conflitti tra città e campagna in nuovi equilibri, in nuove modalità dell’abitare, mettendo insieme tecnologie digitali, robotica, biotecnologie.

La bioeconomia si fonda sull’utilizzo multifunzionale di risorse biologiche per la produzione di alimenti, mangimi, energia, ecc. L’agricoltura di precisione è utilizzabile a tutte le altitudini, in tutti i settori e in tutti i contesti socio-economici, comprese le città. La visione IoT (internet degli oggetti) è applicabile nell’agroalimentare, nel turismo, nell’artigianato, nei servizi socio-sanitari, nell’industria culturale. Queste tecnologie connettono aree urbane e rurali, creando un continuum di opportunità.

Insomma, dove la crisi viene affrontata seriamente s’investe in sviluppo e innovazione. Per fare meglio si dovrebbe invertire l’ordine di priorità tra sviluppo e coesione sociale: anticipare la seconda come premessa del primo per civilizzarlo. Bisognerebbe puntare sulla responsabilità delle classi dirigenti locali perché sappiano scegliere poche cose da fare e farle bene. Combattendo le povertà, l’evasione scolastica, il disagio giovanile, l’esclusione sociale. Facendo politiche attive di integrazione degli immigrati. Mettendo fine alla corruzione e alle mafie.

Occorrerebbero percorsi di progettazione ad alta risoluzione capaci di mobilitare le comunità locali, cioè i soggetti e i gruppi che le compongono, senza più separarli per categorie. Anche i luoghi dell’abitare non sono più spazi chiusi, ma ogni edificio o spazio tende a trasformarsi in luogo polivalente, inglobando diverse funzioni nel legarsi ad altri edifici e ad altri spazi. Si tratterebbe di ridisegnare completamente il rapporto tra legame con il territorio e presenza nei mercati internazionali che non sono strategie alternative.

Per accompagnare sul piano nazionale tale disegno, occorrerebbero politiche per l’internazionalizzazione fondate sull’innovazione sociale, sul “fare squadra” in Italia e all’estero, sul superamento di inutili e costose incombenze burocratiche, sulla nostra capacità di favorire processi di interscambio culturale prima ancora che commerciale, sulla costruzione di reti diffuse e collaborative tra pubblico e privato e sul rendiconto alle comunità territoriali dei risultati conseguiti.

Una nuova governance di Roma

Una nuova idea di città andrebbe accompagnata dalla proposta di una nuova governance di Roma. Oggi è evidente il rischio di una deriva centralistica che può portare, in modo strisciante e non dichiarato esplicitamente, verso la forma di un governatorato della città alle dipendenze della presidenza del consiglio con un’assemblea capitolina e organi municipali meramente consultivi. Alla fine del commissariamento prefettizio – che si prevede di lungo periodo – tale ipotesi potrebbe essere presentata come una sorta di soluzione obbligata per dare continuità amministrativa ad una città martoriata da mille mali che deve poter svolgere le proprie funzioni di capitale. Sarebbe la risposta politica allettante all’immagine di “Roma ladrona”, evocata dalle forze populiste della Lega e di Grillo, e all’incapacità di una classe dirigente locale di interloquire alla pari con il governo centrale, con altre parti del paese e con altre metropoli del mondo. Una risposta in grado persino di trovare un consenso diffuso nella città perché sancirebbe la completa deresponsabilizzazione della politica locale.

A questa ipotesi istituzionale e politica deleteria, che sancirebbe anche la fine di ogni sforzo di una società civile che si vuole riorganizzare intorno ad una ricostituzione di comunità locali, sarebbe necessario contrapporre una proposta forte.

Essa dovrebbe partire da una riprogettazione dei municipi per farne dei veri e propri enti locali, superando le ambiguità del loro assetto attuale. I cittadini romani hanno dovuto sopportare per anni la beffa di circoscrizioni decentrate del Campidoglio camuffate per autonomie locali inesistenti. Presidenti, assessori e consiglieri municipali eletti ma privi di poteri effettivi: semplice ceto politico – per lo più di scarso livello – sostitutivo di funzioni di intermediazione un tempo esercitate dalle sezioni di partito. Anche questa situazione patologica ha accelerato la crisi politica della città e ha alimentato le degenerazioni nel rapporto tra politica e società.

Solo municipi che diventano comuni potranno, insieme ai comuni della cintura romana, costituire per via federativa un nuovo ente, Roma capitale metropolitana, a cui una legge dello Stato dovrebbe finalmente dare un ordinamento adeguato ad una capitale effettiva e non di facciata.

Sta ai romani decidere se trasformarsi in cittadini capaci di autogoverno per poter esercitare le proprie responsabilità, individualmente e collettivamente, o continuare ad essere dei semplici sudditi, alla pari dei visitatori, dei turisti e dei pellegrini, da governare dall’alto mediante strutture centralistiche e monolitiche, commissari e magistrati, prefetti e gendarmi.

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