Terra Nuda

Screditare l’olio italiano

In un numero di gennaio della rivista americana Bloomberg Businessweek è comparso un articolo a firma P. Robinson e V. Silver, dal titolo “A Californian Olive Grower Says His Oil Is Better Than Italy's” in cui l'elogio degli oli californiani è presentato come contrappunto a una ingiusta e capziosa denigrazione degli oli italiani. La replica del professor Claudio Peri, apparsa su Georgofili.Info

Claudio Peri

Screditare l’olio italiano

Su invito, e per gentile concessione dello stesso Autore, tra le firme più prestigiose di Olio Officina Magazine, riportiamo quanto apparso sul sito dell’Accademia dei Georgofili il 9 marzo 2016.

Il titolo dell’articolo di Bloomberg Businessweek “Un produttore di olio di oliva californiano sostiene che il suo olio è meglio degli oli di oliva italiani” potrebbe essere considerato un elogio degli oli italiani. Se un produttore californiano promuove il suo olio sostenendo che è meglio degli oli di oliva italiani, se ne dovrebbe dedurre che egli considera gli oli italiani come il modello di riferimento della qualità degli oli di oliva. La lettura dell’articolo, purtroppo, finisce per offrire una impressione molto diversa e gravemente lesiva del buon nome degli oli italiani.

Prima di esporre il mio punto di vista vorrei sgombrare il campo da qualunque pregiudizio. Personalmente, non mi permetterei mai di dire che gli oli californiani sono di qualità inferiore rispetto agli oli italiani. Una tale affermazione sarebbe sostanzialmente ingiusta. Si producono in California degli ottimi oli extra-vergini di oliva (conosco molto bene alcuni di questi) e ci sono in Italia oli di oliva banali o decisamente scadenti (conosco bene anche questi). Veniamo all’articolo di Bloomberg Businessweek.

Innanzitutto, non è corretto confrontare un olio di oliva californiano (o di qualunque altro Paese), commercializzato dalle aziende che lo producono direttamente dalle olive, con oli prodotti industrialmente come miscele di oli di varia origine. L’articolo cita correttamente Jean-Louis Barjol, direttore del Consiglio Oleicolo Internazionale (Coi), che ha detto “è un problema di differenze fra produzioni di massa e produzioni specializzate”.
Per essere più espliciti: quando parliamo di prodotti di massa la chiave competitiva è il prezzo, mentre quando parliamo di produzioni specializzate ciò che conta è la qualità. Si tratta di segmenti commerciali diversi per obiettivi, tecniche, management e struttura del business. Su questo punto suggerirei comunque un atteggiamento di maggiore attenzione e cautela poiché anche il blending di oli extra vergini di oliva di diversa origine è una vera arte e può dare luogo a prodotti di straordinaria qualità se attuato da produttori competenti e onesti.

E’ vero tuttavia che alcuni blend di oli di oliva commercializzati in America con nomi italiani (che non sempre corrispondono a società italiane) e con definizioni improprie (light, pure, supervirgin…), con la attiva e interessata collaborazione di importatori e aziende di distribuzione americane, sono talora scadenti. Ciò non solo rappresenta un inganno nei confronti dei consumatori americani, ma anche un grave danno a tutti gli oli buoni o eccellenti prodotti in Italia.

Vorrei correggere l’affermazione di Gregory Kelly, direttore generale della California Olive Ranch, secondo cui “gli Europei hanno venduto per tanto tempo i loro prodotti peggiori agli sprovveduti americani”. No, Mr Kelly! In primo luogo non sono gli europei, ma gli americani che vendono oli scadenti ai consumatori americani. In secondo luogo le garantisco che commercianti senza scrupoli vendono cattivi oli anche ai consumatori europei e italiani “sprovveduti”, cioè incapaci di distinguere un olio cattivo da un olio buono.

La parte centrale dell’articolo è dedicata al confronto della olivicoltura super intensiva secondo il modello del California Olive Ranch con la tradizionale olivicoltura vecchio stile dell’Italia.
In questo confronto la produzione italiana è ridicolizzata citando il caso ipotetico e bizzarro di una “oliveta di 50 olivi coltivati sopra antiche catacombe”. Questo modo di argomentare è scorretto.

Molti olivicoltori italiani possiedono olivete specializzate e moderne, che coltivano con grande cura e competenza, preservando la naturale “architettura” della pianta di olivo. Essi non solo producono oli extra vergini eccellenti, ma sono impegnati a conservare la biodiversità dell’olivo, la straordinaria varietà di profili sensoriali dell’olio e l’altrettanto straordinaria combinazione di oli e cibi nelle tradizioni culinarie regionali e locali. Oltre a questo, essi sono costantemente impegnati a conservare la bellezza dei paesaggi caratterizzati dall’olivo nelle colline di Umbria o Sicilia o Puglia e così via.

La California Olive Ranch presenta il suo modello di olivicoltura con queste parole: “La società ha 2.200 acri di oliveta , una vera meraviglia industriale (sic!). Un milione e trecentomila piante sono allevate come cespugli alti 6-10 piedi (2-3 metri) piantati in filari serrati. Tale densità consente la raccolta meccanizzata con macchine alte come case di due piani che passano a cavallo del filare di olivi e strappano (strip away) le olive facendole cadere in un nastro trasportatore che le scarica in un camion, che le trasporta ad un frantoio che si trova nello stesso luogo dell’oliveta e può estrarre fino a 3200 galloni (oltre 12 hl) di olio all’ora. Le olive non sono mai toccate con le mani …”

Non nego che in questo modo si possa produrre un olio extra vergine di oliva buono o molto buono. Tuttavia il confronto con il modello italiano avrebbe dovuto essere fatto in modo diverso, ponendosi o, forse più correttamente, ponendo ai potenziali consumatori, domande di questo tipo:

1. Preferite che gli olivi siano coltivati come fitte siepi di arbusti di olivo oppure secondo la naturale architettura di struttura e forma determinata dalla varietà e dalle condizioni pedoclimatiche?

2. Preferite uno standard di olio uguale in tutto il mondo, derivante da due o tre varietà di olivo, oppure preferite conservare la biodiversità dell’olivo e la straordinaria varietà dei profili sensoriali, con gli infiniti abbinamenti delle tradizioni e delle invenzioni dell’arte culinaria?

3. Preferite l’uso di raccoglitori meccanizzati alti come case a due piani che passano a cavallo della siepe di olivi strappandone le olive, oppure preferite il lavoro più lento della raccolta manuale o con agevolatori operati manualmente, capaci di proteggere l’integrità della pianta e delle olive?

Devo dire che l’espressione usata in questo articolo “nessuno tocca le olive con le mani” sembra inventata per suggerire un falso titolo di merito, dato che è priva di qualunque giustificazione di carattere igienico. Molto più importante ai fini della qualità dell’olio è preservare l’integrità delle olive.

Infine vorrei far notare che alcune affermazioni sul confronto fra gli oli californiani e italiani sono basate su uno studio condotto all’Olive Centre dell’Università di California a Davis. Io sono molto affezionato a questa Università dove ho trascorso un periodo lontano (e molto felice) della mia vita come ricercatore. Sono anche buon amico dell’Olive Centre e del suo direttore Dan Flynn. Ma non posso evitare di osservare che il California Olive Ranch è uno dei maggiori finanziatori di questo centro, come l’articolo di Bloomberg Businessweek ammette esplicitamente. La trasparenza di questa dichiarazione è ammirevole, ma certo l’obiettività e la legittimità del confronto ne risulta seriamente compromessa.

Negli scorsi mesi di gennaio e febbraio ho partecipato proprio alla Università di Davis a discussioni sulle prospettive di una disciplina che sta diffondendosi in alcune Università di grande prestigio: il “Food Design”. Si ammette, con consenso generale, che le scelte alimentari dominate da motivazioni di puro profitto si devono confrontare ormai con motivazioni più complesse riguardanti valori biologici, ambientali, sociali, etici e perfino estetici. Se mi si perdona una battuta patriottica, vorrei riassumere le discussioni svolte all’Università di Davis nei mesi scorsi dicendo che lo stile italiano di pensare, progettare e produrre gli alimenti, i piatti e le diete, è più vicino alle attese e alle preferenze del consumatore, soprattutto di quello americano, dell’approccio industriale in stile California.

La foto di apertura è di Luigi Caricato

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