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Tutto quel che serve sapere sugli oli Dop e Igp

Un nome e un cognome: l’identità degli oli Dop e Igp. Le produzioni a denominazione sono sinonimo di garanzia per il consumatore finale, di impegno e di attenzione, che costa molta fatica sotto svariati aspetti. In un ricco dialogo che ha visto come protagonisti Laura Turri, Chiara Del Vecchio, Giorgio Lazzaretti e Michele Riccobono alla dodicesima edizione di Olio Officina Festival, si è svolta un’importante analisi sul settore e sugli attori che lo compongono per far luce sulle criticità e sull’immensa portata che potrebbero avere sul mercato tali extra vergini, a cui non viene ancora rivolta la giusta attenzione

Olio Officina

Tutto quel che serve sapere sugli oli Dop e Igp

«Ci sono gli oli extra vergini di oliva e poi ci sono gli oli con un nome e un cognome».

È così che Laura Turri in rappresentanza del Consorzio di tutela dell’olio Dop Garda introduce il suo discorso alla dodicesima edizione di Olio Officina Festival durante l’incontro Lo stato di salute degli oli a marchio Dop e Igp in merito all’importanza delle denominazioni per valorizzare e proteggere tali produzioni.

«Gli oli che hanno una propria carta di identità, come nel caso dell’olio Garda Dop, non possono essere banalizzati chiamandoli solo “extra vergini”. Questo perché l’olio Evo può essere realizzato ovunque – continua Laura Turri – ma l’olio del Garda lo si può ottenere solo all’interno di un territorio ben definito, le cui caratteristiche consentono di ottenere la certificazione a marchio Dop».

Come spiega la titolare di Olio Turri, in Italia esistono quarantacinque Dop di extra vergini. Questo fa presumere che a ogni denominazione appartengano determinate peculiarità che rendono l’olio in questione unico per via dei profumi, degli aromi, del colore, e di conseguenza abbinabile ad alcune pietanze rispetto ad altre: c’è ancora molto lavoro da fare prima di trasmettere l’idea che anche l’olio, oltre al vino, debba essere scelto secondo precisi criteri.

L’incontro, che si è svolto lo scorso 3 marzo, ha messo in dialogo produttori provenienti da più areali italiani – Veneto, Emilia-Romagna, Liguria e Sicilia – per restituire una visione dettagliata di quelle che sono le sfide affrontate costantemente dagli attori del comparto in merito alla tematica delle denominazioni.

A prendere parola è così Chiara Del Vecchio, direttore sviluppo divisione food Palazzo di Varignana.

«In Emilia-Romagna, l’olivo ha iniziato a essere coltivato all’epoca dei romani fino a metà del Settecento a causa di una importante gelata, spiega Del Vecchio. Dopo una lunga sospensione, la coltivazione in questa zona, a sud della via Emilia, è ripresa e nel 2017, diversi piccoli agricoltori hanno costituito la rete “Olio extra vergine di oliva colli di Bologna” di cui Palazzo di Varignana fa parte dal 2018».

L’intento delle aziende aderenti alla rete è molto chiaro: dare identità all’olio dei colli bolognesi – prodotto da Rimini fino alla provincia ovest di Bologna – attraverso l’ottenimento di una Igp a nome “Colli di Bologna”.

L’iter per la certificazione intrapreso dalle aziende della rete è molto lungo, e ad oggi «noi di Palazzo di Varignana, con l’azienda agricola Agrimar, come driver della rete, in quanto realtà importante in termini di dimensioni, in collaborazione con l’Università di Bologna e il Cnr, siamo a un quarto del percorso intrapreso» spiega Chiara Del Vecchio.

Giorgio Lazzaretti, direttore del Consorzio di tutela dell’olio Dop Riviera Ligure, è convinto che più extra vergini a marchio Dop e Igp ci saranno sul mercato, più si potrà far percepire al consumatore la differenza con gli altri oli. Ma per far crescere gli oli dei territori, trasmettere la loro importanza, servono ancora tante energie che devono confluire in progetti e iniziative.

Lazzaretti si sofferma sul grosso problema degli oli dei territori: la produzione. Quando non ci sono olive non si può ricorrere ad altre tipologie, in quanto per imbottigliare a marchio Dop occorrono varietà specifiche di un territorio in particolare, con l’annata di produzione riportata in etichetta e tutti questi elementi sono sinonimo di estrema garanzia per il consumatore in quanto non vi è un’autodichiarazione ma è un ente terzo che certifica tutti gli elementi riportati.

«Ma c’è un problema ancora più grande – prosegue Giorgio Lazzaretti – e riguarda la sostenibilità sociale ed economica nel territorio in cui sorgono le aziende e il caso della Riviera Ligure, reduce da una annata tragica, lo dimostra».

In questi lunghi vent’anni, però, sono state realizzate dal Consorzio tante iniziative che hanno fatto avvicinare i giovani all’olivicoltura e la grande fortuna della Liguria è il grande mercato dell’oliva Taggiasca.

«Resta ugualmente il fatto che si stanno inanellando campagne produttive veramente scarse, e per questo faccio un forte richiamo alle istituzioni e ai centri di ricerca perché sviluppino ulteriori conoscenze e le condividano con un settore che, dal punto di vista dell’innovazione, è ancora arretrato» conclude il direttore del Consorzio.

L’evoluzione dell’olio dipende anche dalla narrazione che vi è dietro e che ha accompagnato fino ad oggi il comparto.

«C’è un problema di comunicazione e di educazione del consumatore – afferma Michele Riccobono, responsabile dell’organismo di controllo e certificazione oli dell’Istituto regionale del vino e dell’olio di Sicilia – dove anche i ristoratori hanno delle responsabilità: l’olio proposto è spesso conservato male fino al punto di rovinare la pietanza a causa di un cattivo sapore e, soprattutto, non viene prestata attenzione a quale offrire al commensale».

Soffermandosi, invece, sull’Igp Sicilia, Riccobono è molto positivo. L’indicazione di origine nasce sei anni fa e il brand è capace di attirare molto i mercati riscuotendo un successo importante.

Quest’anno, gli effetti del cambiamento climatico sono stati avvertiti in alcuni areali di produzione in particolar modo, mentre in altri non sono state alterate le proprietà degli extra vergini. Riccobono racconta che «tra i tanti campioni analizzati in questa annata difficile, alcuni hanno riscontrato diversi problemi dal punto di vista qualitativo e organolettico e non è mai successo che a novembre non superassero l’assaggio».

Serve, quindi, portare avanti una incessante attività di ricerca, e noi come ente pubblico abbiamo un ruolo chiave in questo contesto ma non solo: è necessario organizzare attività di promozione soprattutto per far conoscere le realtà più piccole che «hanno capito quanto sia determinante per la qualità operare seguendo alcune strategie. Un primo passo è quello di rivolgersi a impianti di trasformazioni con tecnologia avanzata che preservino e lavorino in modo ottimale l’oliva».

Ci sono buone prospettive per la Sicilia, dove le piccole e medie aziende stanno sempre più imponendosi grazie a una conduzione giovane ed entusiasta.

Come conclude Michele Riccobono, l’ulivo è una pianta bella ma difficile, ma tanto studio e dedizione, uniti a uno spirito che guarda al domani, possono far compiere al settore passi cruciali per una maggiore competitività.

In apertura, foto Consorzio olio dop Garda; all’interno foto di Olio Officina©

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