Corso Italia 7
Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of LiteratureDiretta da Daniela Marcheschi
Il viaggio di Irene. La Pace che attraversa i secoli: da Omero a padre Balducci
Non è facile, in un momento come questo, parlare di pace. Immaginarla, sfiorarla con il pensiero. Nella storia della filosofia occidentale esiste una “filosofia della guerra”, che ce ne restituisce un’idea immediata e concreta. Ma, fino al Settecento, è la “filosofia della pace” che viene a mancare, perché di quest’ultima si parla solo quando la violenza cessa. Eppure, è sempre stata cantata, personificata nella dea Irene, figlia di Zeus, lasciando così che acquisisse tante e diverse sfumature a seconda dei miti, dei racconti, delle epoche storiche. La pace viene costantemente ricercata, in quanto condizione necessaria per l’animo umano
Irene è un nome greco, che significa pace.
Ed è affine ad altri nomi che sono meno diffusi da noi ma che hanno lo stesso significato di pace, ad esempio il germanico Frida, e gli ebraici Salomè e Salomone, che derivano da shalom, che in ebraico significa pace ed è un saluto bellissimo.
Irene è un nome divino: viene dal greco Eirene, che i greci ritennero evidentemente parola tanto bella da diventare il nome di una dea, nome di cui si ignorò l’origine fino a quando uno studioso meraviglioso, Giovanni Semerano, scrisse quattro volumi intitolati L’origine della cultura europea, e in questi volumi che sono stati ignorati a lungo tra gli accademici, Semerano con la forza della parola smascherava un’illusione, come fanno i poeti: smascherava quella specie di trucco linguistico che ci hanno insegnato, il cosiddetto indoeuropeo da cui deriverebbero tutte le nostre lingue ma che in realtà come lingua non siamo affatto certi che sia mai esistita, ed è piuttosto una supposizione che ci consente di trovare le radici del nostro linguaggio.
Semerano invece individuò esattamente le origini delle parole, quelle greche antiche e quelle moderne che usiamo, e le trovò nella lingua degli antichi Sumeri, nell’accadico, e le corrispondenze sono impressionanti.
Eirene, pace, viene dall’accadico aranu, che in ebraico diventa Aron, che significa arca, alleanza.
E allora la pace può significare alleanza, quella volontà collettiva di non oltrepassare il limite della forza senza regole, quell’alleanza che ci ricorda che dobbiamo riconoscerli, i nostri nemici.
La più grande filosofa del Novecento, Simone Weil, richiamandosi a Platone scrisse: “per noi la suprema giustizia è l’accettazione della coesistenza insieme a noi di tutti gli esseri e di tutte le cose che di fatto esistono”.
Anche di quelle che non ci piacciono, anche dei nemici: non è lecito desiderare che non esistano nemici, perché se lo si desidera, si proverà ad annientarli.
È necessario invece, per vivere bene, accettare di avere dei nemici come un male necessario che limita la nostra potenza ed equilibra il mondo.
Diceva il filosofo greco Eraclito: “Il Sole non oltrepasserà i suoi limiti, altrimenti le Erinni, al servizio della Giustizia, lo coglierebbero in flagrante crimine”.
Irene, la pace, può significare quindi la pratica consolidata di chiudere in una sorta di arca, come in uno scrigno di palazzo, i termini scritti di un’intesa, di un’alleanza che consente la pace.
Ma la nostra parola pace deriva invece dal latino pax – pacis, che corrisponde all’accadico-sumero pashu, che significa riposarsi, essere in pace, pacificato.
E l’origine di questa parola richiama anche altre parole sumere come pahu, che hanno il significato di chiudere, serrare: e nell’antica Roma un segnale di pace erano le porte di Giano, il dio bifronte, che venivano serrate in tempo di pace, e si aprivano invece quando si dichiarava guerra.
Queste due etimologie, queste origini, sembrano quasi svelare due vesti di Irene, due diversi modi di vestire la Pace: uno è quello ricco e lucente, cucito da un’alleanza che eviti i conflitti, l’altro è quello bianco, come un peplo greco, che si stende su uno stato di pacificazione e riposo, mentale e spirituale.
Ma nel mondo delle potenze divine, quello degli dei di cui Irene fa parte, non esiste contraddizione, e il primo vestito – quello dell’alleanza – anche se è cucito dagli umani, con le leggi dei mortali, è soltanto un arricchimento superficiale del secondo, come dei monili o delle stoffe pregiate a ricoprire quel peplo bianco del riposo, quella veste divina fatta di una stoffa universale, e quindi pura, virginale e incontaminata.
Nell’Iliade di Omero, nel primo libro, quando Achille vuole, nella sua ira, brandire la spada contro Agamennone che lo provoca, Atena lo trattiene e gli dice: “Io vengo dal cielo per porre fine al tuo impeto, se mi vorrai ubbidire. Poni fine alla lite e non brandire la spada”.
Achille le ubbidisce: quello di Atena è un freno morale, insegna la facoltà di trattenere l’energia bestiale, impedendo il male.
A questa situazione si riferisce il comandamento non uccidere, tavola delle Leggi.
Ma Atena non formula un divieto perentorio, il suo intervento impone un limite all’uomo: non è un comando imperioso, è un invito alla riflessione.
Il pensiero greco non amava ammonire con le minacce, non amava il lato punitivo del potere.
Amava piuttosto la persuasione, che non a caso era personificata in una dea, Peithò, che spesso affiancava proprio Atena.
Nel mito greco, Irene, la Pace, è una delle tre Ore, ed è figlia di Zeus e di Themis, ovvero del dio che stabilisce un nuovo ordine cosmico, e della dea della giustizia universale: quando Zeus sconfisse i terribili Titani, creò un ordine nuovo che è quello della vittoria greca sul mondo barbaro, sulla forza bruta e sull’orrore, perché per i Greci la più alta bellezza si trova in questo mondo, dal quale sono sorti gli Dei come la creazione più perfetta.
Zeus sconfisse i Titani e generò gli Dei olimpi con sette spose, l’ultima delle quali fu Hera, che regna con lui sull’Olimpo.
Ma tra tutte le spose, per Esiodo la seconda e per Pindaro la prima, spicca Themis, la Giustizia, la dea dell’ordine legale e delle sacre convenzioni, la buona consigliera.
Themis per Esiodo è la figlia del Cielo e della Terra, di Urano e Gaia, e sorella di Oceano.
Pindaro la descrive mentre alle fonti di Oceano la vanno a prendere le Moire, le dee del destino, che filano le nostre vite. Ed ecco il legame: la giustizia, che è la madre della pace, sta nel destino degli uomini.
E le figlie di Themis, della giustizia universale, sono tre: Irene, la Pace, aveva infatti due sorelle: Eunomia, personificazione della legalità e del buon governo, e Dike, la giustizia morale, la giustizia del diritto, quella che presiede alle leggi degli uomini.
Irene e le sue sorelle erano le guardiane dell’Olimpo e aprono e chiudono le porte del cielo proprio come si aprivano e chiudevano le porte di Giano a Roma, a seconda se si era in pace o in guerra; e furono loro, le tre Ore, ad accogliere Afrodite, la dea dell’amore, mentre nasceva dalla spuma del mare, e la abbigliarono con vesti divine.
Quelle stesse vesti che ricoprono il corpo perfetto di Irene, la dea della Pace, e delle sue sorelle: la giustizia, e il buon governo.
Irene era raffigurata con un ramoscello d’ulivo dentro una cornucopia mentre teneva in braccio un bambino, il piccolo Pluto, che in Grecia era il simbolo della ricchezza e dell’abbondanza, a conferma che ricchezza e abbondanza si possono trovare solo in tempo di Pace.
La statua più celebre di Irene fu collocata nell’agorà di Atene nel 371 a.C. per celebrare la pace comune tra le città greche e ricordare alle città che solo nella pace c’è prosperità.
Irene in Grecia aveva altari e statue dedicate, ma anche a Roma Vespasiano e Domiziano le fecero costruire un tempio, il tempio della Pace, che oggi è uno dei cinque fori imperiali.
La guerra non è un fantasma del passato, e neanche del futuro: è una presenza del presente, una dimensione stabile e ricorrente in tante parti del mondo.
In alcune si combatte con armi convenzionali, e in altre dove apparentemente domina la Pace si combattono invece guerre con armi tecnologiche ed economiche: quando si parla di assalti tecnologici, di operazioni militari, di sanzioni economiche, di servizi segreti, di attività di intelligence e di forze tattiche, sostanzialmente si parla di guerra, anche se la chiamiamo non convenzionale.
Sono tutti termini moderni, quelli della guerra.
E invece per parlare di pace si può cominciare da uno dei suoi significati più antichi, che non si esprime soltanto attraverso una condizione esistenziale sopraggiunta, fissata con un patto.
Ma si illumina nel riposo, nel principio universale che non ha bisogno di scambio, né di accordo: è un accordo in sé, come le note di una musica.
Un accordo divino che precede l’accordo umano, perché l’idea di pace come presupposto da raggiungere attraverso l’allontanamento dai conflitti, attraverso il controllo di ogni possibile situazione conflittuale, è un’idea umana, degli uomini mortali.
Ma deriva da una legge più alta, universale, che ci ricorda che Irene è la dea figlia di Zeus, lo stabilitore di un nuovo ordine cosmico, e di Themis, la dea della giustizia universale, quella su cui si prestavano tutti i giuramenti, quella il cui nome significa l’Irremovibile.
E invece, se analizziamo la storia della filosofia occidentale, ci accorgiamo che esiste una “filosofia della guerra”, ma non esiste una vera e propria “filosofia della pace” condivisa dalle varie culture, almeno fino al Settecento.
Della guerra si ha un’idea immediata e concreta, e si parla di pace invece sempre riferendosi alla guerra: c’è pace quando non c’è guerra.
Del resto, la guerra fa più notizia della pace, e fin dall’antichità è stata elogiata da cantori che ne hanno esaltato la forza, la bellezza, l’eroismo, il coraggio.
Ricordiamoci di Tirteo, il poeta che elogiava i guerrieri di Sparta e cantava la bellezza di morire in guerra per la patria.
Nel nostro tempo di Tirteo ce ne sono ancora parecchi, ma la guerra è molto cambiata: lungo il Novecento è stata guerra fredda, e nel nuovo millennio ha assunto addirittura una funzione umanitaria, diventando perfino guerra preventiva, e si cerca di far passare la guerra come mezzo giusto per tornare alla pace.
Ma di guerra – nel nuovo millennio – si è parlato continuamente: una guerra la questione dei migranti, una guerra la lotta contro il Covid, una guerra quella contro il terrorismo, e una guerra quella sul fronte del clima.
E poi ci sono le guerre fatte di armi e bombe che noi vendiamo, conflitti sanguinosissimi che dimentichiamo, e che si svolgono in paesi come Siria, Yemen, Libia o Afghanistan, proprio per consentire a noi occidentali di restare in una fragile pace.
E invece arrivano anche quei conflitti che ci spaventano davvero, perché li sentiamo alla porta di casa, come quello nella ex Jugoslavia scoppiato nel 1991, o quello, ancor più spaventoso, del 2022 in Ucraina, terra molto ricca e tra i primi esportatori al mondo di grano, mais, oli vegetali, legname, minerali, eppure il Paese più povero d’Europa anche prima dell’invasione russa: già questo dovrebbe porre domande che sconfiggano quella propaganda sorella gemella di ogni guerra.
Perché le verità sono tante, e in una guerra si perdono tutte.
Non è un caso se i Greci, nel loro mito, non hanno mai personificato la Verità in una Dea, come invece fecero – lo abbiamo appena visto – con la Giustizia, Dike, la Persuasione, Peithò, l’Amore, Eros, e la Pace, Irene.
La dea Veritas se la inventarono invece gli Antichi Romani, dalla mentalità imperiale: ma non a caso la raffigurarono nascosta in fondo a un pozzo.
E a metà del Seicento, fu il Bernini a raffigurare la Verità in una meravigliosa scultura, mentre emerge da un panneggio, e non a caso la chiamò La verità svelata dal tempo.
A proposito di Tempo. Sopra tutti gli uomini ma anche sopra tutti gli Dei, operano due entità che formano una coppia inscindibile, ovvero Chronos, il Tempo, e Ananke, la Necessità, la dea senza volto che per Omero ed Esiodo regola tutte le cose, dal moto degli astri ai fatti degli uomini.
Ananke e Chronos avvolgono il cosmo con le loro spire, capaci di stritolarlo, ed “erano due serpenti allacciati già prima che il mondo esistesse”, scrive Roberto Calasso in Le nozze di Cadmo e Armonia.
Figlie di Ananke sono le Moire, che filano i nostri giorni: una svolge il gomitolo, l’altra lo avvolge intorno a un fuso, la terza, quando è il momento, lo taglia.
Né uomini né Dei possono fermarle o influenzarle, perché le Moire garantiscono l’ordine dell’Universo.
Le prime leggi sono queste, inscalfibili: noi siamo dominati dal Tempo e dalle Necessità.
E i nostri continui tentativi di sconfiggere questa legge, per non perdere tempo, per non invecchiare, per non avere più alcuna necessità di cibo, degli altri, della Natura, è la prima radice della tracotanza, del superamento di ogni limite, di quella hybris che per i Greci era il peccato supremo severamente punito dagli dei, e che per noi è sete di dominio, di espansione, di accrescimento senza limiti, che è il padre di tutte le guerre.
Secondo Tucidide, l’antico greco che è considerato l’inventore della storiografia, la principale caratteristica della natura umana è il desiderio inesauribile di accrescimento, che non può essere né limitato né contrastato se non da una forza uguale e contraria.
L’accrescimento (αὔξησις, “áuxesis”), ossia la tendenza ad aumentare la propria potenza, per Tucidide è il tratto caratteristico e indissolubile della società umana organizzata politicamente: di conseguenza, quando all’interno di un territorio circoscritto geograficamente si vengono formando due centri di potere – nel caso greco le due poleis di Sparta e Atene – è certo che queste due entità tenderanno ad accrescere la propria forza, ad espandersi, a sottomettere le poleis più deboli, finché le reciproche sfere di influenza entreranno inevitabilmente in conflitto.
Per Tucidide non sono possibili altri esiti, se non la guerra di annientamento: trattati di pace, accordi di convivenza, alleanze potranno avere luogo, ma solo per tempi e modi limitati, perché il desiderio di accrescimento non può che comportare il desiderio di annientare il rivale.
Così, ancora oggi, il termine più forte è “guerra”, e mette in ombra quella pace di cui si parla continuamente ma più se ne parla e più ci sfugge: se ci fosse, e fosse forte del suo significato originario, quello divino e universale, non ci sarebbe bisogno di parlarne tanto.
Ma anche se oggi come in molte altre epoche, la guerra infuria e la pace è, diciamo, un “pensiero debole”, la pace ha comunque percorso tutta la storia dell’umanità.
Torniamo nell’antica Grecia, all’Iliade di Omero, seguendo l’analisi che ne ha fatto Alessandro Baricco in un volume del 2004.
Una delle cose sorprendenti dell’Iliade è la forza, o meglio la compassione, con cui sono tramandate le ragioni dei vinti.
L’Iliade, che racconta si potrebbe dire la madre di tutte le guerre, sembrerebbe una storia scritta dai vincitori, eppure nella memoria rimangono anche, se non soprattutto, le figure umane dei Troiani.
Priamo, Ettore, Andromaca, ma anche personaggi minori come Sarpedonte.
Questa capacità sacra e sovrannaturale di essere voce dell’umanità tutta e non solo di se stessi, la ritroviamo scoprendo come i Greci, nell’Iliade, abbiano tramandato, tra le righe di un monumento alla guerra, la memoria di un amore ostinato per la pace.
Scrive Alessandro Baricco: “A prima vista non te ne accorgi, accecato dai bagliori delle armi e degli eroi. Ma poi nella penombra della riflessione viene fuori un’Iliade che non ti aspetti. Vorrei dire: il lato femminile dell’Iliade”. E infatti Irene è una dea, e sono spesso le donne a pronunciare, senza mediazioni, il desiderio di pace. “Relegate ai margini del combattimento – continua Baricco – le donne incarnano l’ipotesi ostinata e quasi clandestina di una civiltà alternativa, libera dal dovere della guerra. Sono convinte che si potrebbe vivere in un modo diverso, e lo dicono. Nel modo più chiaro lo dicono nel VI libro dell’Iliade. In un tempo sospeso, vuoto, rubato alla battaglia, Ettore entra in città e incontra tre donne: ed è come un viaggio nell’altra faccia del mondo. A ben vedere tutte e tre pronunciano una stessa supplica, una supplica di pace, ma ognuna lo fa in modo diverso. La madre Ecuba, la regina dei Troiani, lo invita a pregare. Elena lo invita al suo fianco, a riposarsi. E la moglie Andromaca, alla fine, gli chiede di essere padre e marito prima che eroe e combattente. Soprattutto in questo ultimo dialogo, quello tra Ettore e Andromaca, due mondi possibili stanno uno di fronte all’altro, e ognuno esprime le sue ragioni. Più legnose, cieche, violente, e umane, quelle di Ettore: più morbide, compassionevoli, e divine, quelle di Andromaca. Non è mirabile che una civiltà maschilista e guerriera come quella dei Greci abbia scelto di tramandare, per sempre, la voce delle donne e il loro desiderio di pace?”, scrive Baricco.
Ma la civiltà greca nel suo massimo splendore non era poi così maschilista, soprattutto alle sue origini, e perfino Platone nella sua città ideale che immaginava governata da filosofi, auspicava la completa uguaglianza di uomini e donne.
Il più antico poeta greco, Esiodo, che era contemporaneo di Omero, considerava le Muse le più alte tra le divinità, e contrapponeva la pace, l’onestà, le arti e la giustizia, alla guerra e allo spirito di avventura dell’epica omerica.
Poi, nella cultura greca più classica, secoli dopo Esiodo e Omero, Euripide torna a far ascoltare il grido di pace delle donne nella tragedia Le troiane, dove Ecuba e Andromaca, Elena e Cassandra, prese schiave dai Greci vittoriosi, vanno incontro al loro destino di bottino di guerra con un’altezza e una dignità che sottolinea come i grandi eroi greci della guerra – Achille, Ettore, Agamennone, Ulisse – siano in fondo dei barbari, aguzzini spietati in un gioco brutale e senza senso, che è quello della guerra, dei cosiddetti eroi che non accettano di avere dei nemici a limitare la loro potenza, e non vogliono mai riconoscere in se stessi il mostro che hanno davanti: lo vogliono solo uccidere, eliminare, decapitare come Perseo con la Medusa, come Teseo col Minotauro.
Le Troiane di Euripide è un’opera antimilitarista, sta tutta dalla parte della Pace.
Anche nell’opera Le Supplici Euripide esalta la pace e descrive in modo cupo gli orrori della guerra: «per i mortali la pace è meglio della guerra: innanzitutto essa è amatissima dalle Muse e nemica alle Erinni e si rallegra per abbondanza di figli e gode di ricchezza: rifiutando tutto questo noi malvagi scateniamo le guerre e, uomini, rendiamo schiavo l’uomo, e, città, le città».
E se Eschilo, nelle sue tragedie, elogia la pace, e nell’opera I Persiani rimpiange perfino il vecchio sovrano di Persia Dario, che «procurò pace a tutti gli amici», è Sofocle, nella sua Antigone, a far risaltare la statura altissima della protagonista contro la crudeltà guerrafondaia del re di Tebe Creonte, quando Antigone – che disubbidisce alle leggi del re ma non a quelle degli dei – dice di essere nata non per diffondere odio, ma per diffondere amore.
La voce delle donne alla ricerca della pace la troveremo forte nel corso di molti secoli: saltiamo subito al Novecento, con Virginia Woolf, che proprio ispirandosi ad Antigone vedeva gli orrori della guerra legati stretti a quel maschilismo fatto di aggressività e competitività sfrenata.
Virginia Woolf, allo scoppio della Seconda guerra mondiale, scrisse: “Nella guerra attuale lottiamo per la libertà, ma la otterremo solo se distruggiamo gli attributi maschili, la violenza, e l’idolatria del potere. È compito della donna, ed è la sola speranza di pace”.
Un grande cambiamento culturale quindi, quello necessario per raggiungere la pace.
E anche la filosofa francese Simone Weil, nello stesso periodo, ha fatto della pace il filo conduttore del suo pensiero: Simone Weil ha avuto una vita breve ma molto intensa, affrontando sia il ruolo di filosofa e pensatrice che quello di operaia, attivista e perfino soldatessa nella guerra civile di Spagna: questo per toccare con mano che cosa significava la fabbrica, che cosa significava la guerra.
Nata a Parigi nel 1909 e morta a soli 34 anni nel 1943, ha vissuto in un periodo denso di sconvolgimenti politici, dilaniato da due guerre, e poco prima di lasciarsi morire scrisse “Quasi ovunque l’operazione di prendere partito, di prendere posizione pro o contro, si è sostituita all’obbligo del pensiero”.
Ed ecco che sopra queste parole la dea della Pace si erge in tutta la sua grandezza: è l’obbligo del pensiero che consente di superare le divisioni, le posizioni, l’umana sete di potere e di dominio, è l’obbligo del pensiero critico che porta la pace.
Simone Weil si interrogava incessantemente sulla condizione di sofferenza umana, quella sofferenza che scaturisce dalla guerra, e la guerra, per lei era il più grave fallimento dell’agire umano su questo pianeta.
Ecco cosa scrive a proposito dell’equilibrio tra Stati in Europa e dell’egemonia di uno Stato sull’altro nel nome della sicurezza: “C’è una contraddizione interna nell’idea di sicurezza; infatti, sul piano della forza, non c’è altra sicurezza che quella d’essere un po’ più forte del popolo che si ha di fronte, il quale ne è allora privato; così subordinare l’organizzazione della pace a una sicurezza generale, significa dichiarare impossibile la pace.”
Ce n’è da riflettere, oggi che la sicurezza è diventata un’ossessione.
La grande poetessa Emily Dickinson, nell’America di fine Ottocento, scrisse in un suo verso: “L’acqua è insegnata dalla sete, la pace dai racconti di battaglia”.
E certamente, se non ci fossero racconti di battaglie non ci sarebbe bisogno di parlare di pace, la dea della Pace regnerebbe sovrana e splendente come il principio universale che porta con sé.
Ma non si sconfini nel campo dell’utopia: se la Pace è una divinità, un principio sacro, quel che bisogna conservare è la sua intoccabilità.
Il filosofo Immanuel Kant, l’unico filosofo ad aver scritto un trattato sulla Pace, nel 1795, scriveva: “Una guerra di sterminio, in cui la distruzione può colpire contemporaneamente entrambe le parti e ogni diritto venire soppresso, darebbe luogo alla pace perpetua unicamente sul grande cimitero del genere umano. Una simile guerra deve essere pertanto assolutamente vietata”. E avvertiva: “delle tre forze, l’esercito, l’alleanza e il denaro, è il denaro lo strumento di guerra più certo”.
Gli dei che hanno a che fare con la guerra, nel mito greco, sono due divinità olimpiche tra le principali, ovvero Ares e Atena.
Ma mentre Ares, che a Roma fu molto venerato come Marte, è il dio della guerra, della battaglia cruenta, del corpo a corpo, della lotta tra la polvere, il sangue e la violenza, Atena è la dea della sapienza, e della strategia, quella che in guerra suggerisce ai suoi protetti le astuzie più raffinate e anche subdole per vincere.
Fu lei a mettere nella testa di Odisseo l’idea del cavallo di Troia, ma fu sempre lei – come abbiamo visto – a frenare l’ira terribile di Achille quando brandisce la spada per uccidere Agamennone.
Però Atena nacque dalla testa di suo padre Zeus, il re degli dei, la testa gli si aprì e Atena nacque già armata di tutto punto: lei, la dea della strategia in battaglia, non conosce madre.
E quindi, nonostante sia una dea vergine e intoccabile, sta tutta dalla parte del maschio.
Invece il sanguinario Ares, in Grecia, era anche raffigurato come un danzatore, e si legò in una unione divina con la dea dell’amore, con Afrodite.
I loro figli furono Deimos e Phobos, ovvero il Terrore e la Paura, ma ebbero anche una figlia, e si chiamava Armonia.
A conferma che anche il violento dio della guerra, quando è accompagnato dall’amore, può generare armonia.
Che è un principio femminile.
Tutto si mescola, quindi: il corpo a corpo può trasformarsi in una danza di pace e armonia, e la strategia mentale può invece essere la guerra più subdola.
Da qui si parte, per cercare quel compromesso umano necessario a restituire alla pace il suo vestito bianco: molti e diversi, nei secoli, i tentativi.
Eccone alcuni.
Era moltissimo tempo fa: era il 1285 avanti Cristo, e anche allora c’erano due grandi potenze che si fronteggiavano.
Da una parte gli Egizi, il faraonico impero, e dall’altra gli Hittiti, che si erano allargati tra Turchia e Siria in tutto il Medio Oriente.
Queste due grandi potenze si fronteggiavano da tempo, in una lunga guerra di predominio, che li stava sfiancando.
Ma il conflitto si acuì fino alla battaglia più grande, quella che avrebbe dovuto essere decisiva, e che è passata alla Storia come il primo grande conflitto tra potenze: la battaglia di Kadesh, combattuta nel 1274 a.C. sulle rive del fiume Oronte nell’attuale Siria.
Non si è mai saputo chi avesse vinto, ma quel che si sa di certo è che dopo questa tremenda battaglia fu firmato il primo trattato di pace di cui si abbiano notizie storiche, tanto che viene chiamato Patto Antico.
Fu firmato dai due sovrani, quello hittita Hattusili III, e quello egizio Ramses II, che si giurarono buona pace e fraternità eterna, e diceva così: «Questi patti sono scritti su tavolette di argento del paese hittita e del paese di Egitto. Chi dei due contraenti non li osserverà, mille Dei del paese degli hittiti e mille Dei del paese degli egizi gli distruggano la casa, la terra, i sudditi. Al contrario, chi osserverà questi patti, egizio o hittita che sia, mille Dei del paese degli hittiti e mille Dei del paese degli egizi, facciano che egli viva in buona salute e con lui la sua casa, il suo paese, i suoi sudditi».
Con questo patto, giurato davanti agli dei, i due sovrani si promettevano aiuto reciproco.
Nella Grecia del VII secolo a.C. c’erano invece due città, Eretria e Calcide, in guerra per il possesso totale della pianura di Lelanto.
Fu una guerra strana, poiché nonostante l’ostilità militare, le due città non cessarono i loro rapporti di scambio, neppure durante il tempo delle battaglie.
Per questo, anziché combattersi duramente, le due città fissarono alcune regole per lo scontro, regole che furono incise sulla stele di Amarinto, e vietavano l’uso di armi troppo pericolose, che al tempo erano quelle da getto.
Fu il primo esempio storico di una “guerra regolata da accordi”, che impedì la distruzione delle due città.
Nella Roma del 494 a.C. esisteva un enorme divario tra patrizi e plebei.
I plebei avevano diritto di voto, ma non avevano rappresentanti al senato perché una legge vietava loro di essere eletti. Inoltre, c’era il divieto di matrimonio tra loro e i patrizi, e i plebei erano anche esclusi dalla ripartizione delle ricchezze in caso di vittoria in una guerra.
Il malcontento dei plebei alla fine esplose, ma non fu toccata un’arma.
La protesta sfociò nel primo metodo di lotta non violento della Storia: i plebei abbandonarono in massa la città di Roma, per costringere i patrizi a concedere loro quello che chiedevano.
E lasciando la città, i plebei non svolgevano più nessun compito, né civile né militare, non c’era più né lavoro né esercito, non c’era cibo da comprare o difesa da preparare, non c’erano artigiani e nemmeno cortigiane.
Tutti i plebei si ritirarono sull’Aventino.
I patrizi erano sconvolti, e anche i capi militari: per le guerre contro gli Etruschi, gli Equi e i Volsci, Roma aveva bisogno di assoldare strati sempre più larghi della popolazione, compresi i plebei.
E così, la carenza di soldati nell’esercito e la paralisi della vita sociale costrinsero i patrizi a cedere parte dei propri poteri politici ai plebei.
Non solo, oltre al diritto di avere propri rappresentanti al senato (i cosiddetti Tribuni della plebe), i plebei riuscirono, con la loro forma di lotta nonviolenta, a far approvare la cosiddetta “Legge Canuleia”, che aboliva il divieto di matrimonio fra persone di classi diverse.
Dunque, accordi, trattati, e compromessi: dopo una guerra o dopo una protesta non violenta.
Dunque davvero, come diceva il greco Eraclito, la guerra è «padre e re di tutte le cose»?
Prima di tutto, Eraclito diceva padre e re. E non madre o regina.
E poi, anche in Grecia c’erano uomini e donne che difendevano e chiedevano la pace, e la intendevano come valore universale e non come assenza di guerra.
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