Primo dramma di una triologia fortunata, La Reginetta di Leenane ha consacrato il successo dell'autore di origine irlandese, Martin McDonagh. La struttura del testo, non la trama, ricorda il Trovatore, melodramma verdiano dove l'azione pur essendo quasi inesistente ha un moto circolare di autodistruzione.
I personaggi sono quattro come nel repertorio dell'opera. McDonagh, memore del teatro di Ionesco e di Beckett, mette di suo l'ironia tagliente che diventa comicità che trasmoda in cattiveria.
Come spesso accade gli attori mettono in gioco loro stessi accentuando coll'espressione le parole del testo. La madre (Ivana Monti) sembra fare di tutto per sabotare la felicità della figlia (Ambra Angiolini), trattenendola a sé con stratagemmi meschini. La mamma riceve da subito il disprezzo del pubblico mentre la figlia, la simpatia. Ma nel finale si mette tutto in discussione perché la verità indaga nel non detto.
Come in una poesia di Berthold Brecht si staglia una mite luce che mistifica la violenza. Disagio sociale e disperazione vorrebbero significare ribellione o fuga. I vincoli morbosi del sangue trattengono i protagonisti in rituali fatti di squallori e abiezioni. Si soffoca davanti a una stufa perennemente accesa e complice degli inganni. Un tempo c'era mai stata armonia? Forse no. Ora la soppressione di un personaggio innesca la sostituzione del presunto carnefice. La storia privata e marginale di un villaggio remoto irlandese diventa così l'emblema di una terribile nemesi storica del presente. Il carnefice è sempre lì con motti sadici e comici a ricordare di finire il lavoro, di richiamare sangue al sangue senza pietà e senza umanità.
Il regista Raphael Tobia Vogel è impeccabile nella ricostruzione degli ambienti e degli oggetti di un mondo perduto. Si incastrano in un moto interiore dei protagonisti pronti a brandire la disperazione. La fragilità si spoglia e non sa cercare se non la disperazione
In apertura, foto di @ Tommaso Le Pera per Teatro Franco Parenti