L’agricoltura europea è in affanno. Pesano le tensioni geopolitiche. L’invasione russa dell’Ucraina ha fatto alzare i costi energetici e dei carburanti. E ha provocato aumenti dei prezzi delle materie prime e delle commodities, dei fertilizzanti e dei mangimi. Le fragilità spesso non emergono perché, nella comunicazione, si tende a confondere l’agricoltura con l’aggregato agroalimentare.

L’Unione europea importa derrate, le trasforma in prodotti alimentari e poi esporta. È fortemente dipendente dalle importazioni di proteine vegetali per la produzione di mangimi: circa il 70% del fabbisogno europeo è importato, mentre il 60-70% della terra coltivata è già dedicato alla produzione di alimenti per l’allevamento animale.

In Italia, la situazione è ancor più disastrosa: il divieto di semina di piante OGM, ma la libertà di importare derrate geneticamente modificate per alimentare gli animali che daranno poi origine ai prodotti agroalimentari, ha mandato il nostro comparto dei seminativi fuori mercato. In futuro, l’Ue vedrà aumentare anche le importazioni di ortofrutta. Siamo autosufficienti solo per frumenti e orzo, carne, olio d’oliva e prodotti lattiero-caseari. Per questo, la risposta alla minaccia di Trump di imporre all’Ue dazi del 30% non può che essere la ricerca di nuovi accordi commerciali. L’Italia deve favorire tale percorso, ratificando l’accordo Ue-Mercosur. Esso rende più sicura l’importazione di prodotti che ci servono e apre nuove opportunità di esportazione.

L’agricoltura europea è in affanno anche per le alte temperature registrate negli ultimi anni. Il cambiamento del clima ha sconvolto i cicli biologici delle piante coltivate, delle infestanti, dei parassiti, dei patogeni. Nel tempo, determinate varietà non saranno più adatte ai tradizionali territori di coltivazione. Il Cannonau potrebbe sparire dalla Sardegna a favore dei territori viticoli francesi. La viticoltura potrebbe ridursi in Italia e Spagna ed espandersi in Inghilterra.

Le sfide che dovranno affrontare le agricolture e i sistemi alimentari europei richiedono essenzialmente due cose: rafforzare la sicurezza alimentare e salvaguardare le risorse per le generazioni future. Le risposte a tali esigenze possono venire solo da un approccio basato sulla scienza, su dati e pratiche di dimostrata validità, come l’intensificazione sostenibile, l’agricoltura rigenerativa, le innovazioni applicate al miglioramento genetico.

Il primato italiano nel miglioramento genetico delle piante

Il 50% degli aumenti di produzione che si sono avuti negli ultimi 60 anni dipende dal miglioramento genetico. L’Italia vanta una lunga tradizione in tale ambito. Negli anni ’30, il genetista Nazareno Strampelli sviluppò varietà di grano a calibro ridotto incrociando il grano tenero con cultivar esotiche semi-nane, ancor prima del famoso lavoro di Norman Borlaug. Gian Tommaso Scarascia Mugnozza introdusse l’applicazione della mutagenesi vegetale mediante radiazioni ionizzanti e Francesco Salamini guidò il miglioramento genetico nell’era della genetica molecolare e delle biotecnologie.

Le prime colture geneticamente modificate in Europa furono testate sul campo principalmente in Italia e Francia tra il 1992 e il 2004. I tratti modificati includevano oltre una dozzina di caratteristiche di tolleranza o resistenza in 24 diverse specie vegetali. Inizialmente, il mondo politico italiano mostrò interesse per le biotecnologie in agricoltura, con investimenti pubblici nella ricerca. A Trieste nacque il Centro Internazionale di Ingegneria Genetica e Biotecnologia – ICGEB nell’ambito del sistema delle Nazioni Unite. Si sviluppò anche un settore privato dedicato all’agrobiotecnologia.

Il blocco della ricerca 

Con l’inizio del nuovo millennio, si verificò un improvviso arresto nell’uso delle tecnologie del DNA ricombinante e il blocco della ricerca sulle piante. Da una parte, il movimento ambientalista cavalcava i timori dell’opinione pubblica per l’impatto di queste tecnologie sugli ecosistemi e l’avversione dei consumatori verso le multinazionali. Dall’altra, incominciavano a coagularsi interessi economici contrari agli OGM. I motivi erano diversi: il ritardo tecnologico delle aziende europee di breeding, il potenziale impatto dei nuovi tratti genetici sulla produzione europea di agrofarmaci, la competizione per i sussidi agricoli dell’Ue.

Nel 1997, la ministra della Salute, Rosy Bindi, aveva firmato un divieto temporaneo sulla coltivazione di mais Bt, sulla base del timore che l’inserimento del gene dell’endotossina Bt potesse generare resistenza in insetti non bersaglio, causando potenzialmente un’alterazione dell’ecosistema. Tre anni dopo, il governo Amato sospese temporaneamente la commercializzazione di farine di mais Bt in Italia.

Queste decisioni politiche scatenarono la reazione di centinaia di scienziati italiani. Il 13 febbraio 2001, si riunirono nella biblioteca della Camera dei Deputati per opporsi a quelle che percepivano come politiche oscurantiste sugli OGM. L’evento fu ampiamente coperto dai media ed ebbe un impatto significativo sul dibattito politico.

Nel frattempo, l’Ue decise di regolamentare l’uso degli OGM adottando la Direttiva 2001/18/CE, caratterizzata da un forte approccio precauzionale. In Italia, tale normativa venne recepita in modo restrittivo. Fu, infatti, introdotta una valutazione del rischio obbligatoria per il rilascio di piante geneticamente modificate a fini scientifici, ignorando così le critiche di un gran numero di scienziati. Soprattutto, furono previste sanzioni fino a tre anni di reclusione per chiunque piantasse una coltura geneticamente modificata senza previa autorizzazione.

E così il nostro Paese è passato da 300 promettenti sperimentazioni in campo tra il 1992 e il 2004 a zero nei 20 anni successivi. Solo una sperimentazione in campo con ciliegie, ulivi e kiwi geneticamente modificati presso l’Università della Tuscia è proseguita fino al 2012, ma solo perché prevedeva il rinnovo automatico delle vecchie autorizzazioni. Nel 2012, Eddo Rugini, il ricercatore principale di quei progetti di ricerca, è stato costretto a distruggere i suoi alberi geneticamente modificati, che stavano appena iniziando a produrre risultati scientifici.

Finalmente sono arrivate le TEA 

Poi sono state inventate altre tecniche di ingegneria genetica. Vanno sotto il nome collettivo di tecniche di editing del genoma, all’estero indicate come NGT, New Genomic Techniques, in Italia chiamate TEA, Tecniche di Evoluzione Assistita. La nuova denominazione è stata proposta dalla Società Italiana di Genetica Agraria (SIGA) nel tentativo di migliorare la comunicazione e dissociarsi dalla sigla OGM, ormai invisa all’opinione pubblica. Il termine TEA enfatizza le tecnologie piuttosto che l’organismo in sé, rendendo il termine resiliente ai progressi tecnologici, a differenza della definizione legale di OGM. Tra le poche organizzazioni italiane che hanno sostenuto queste tematiche, un contributo significativo è venuto dall’Associazione Luca Coscioni per la Libertà di Ricerca Scientifica.

Nel 2023, a seguito del documento della Commissione Europea del luglio 2023 sui NGT e con il supporto di Cia, Coldiretti e Confagricoltura, il Parlamento italiano ha deciso di sostenere l’editing genetico nel miglioramento genetico vegetale.

Le TEA sono precise, relativamente economiche e rapide e permettono di effettuare mutagenesi mirata. Sono utilizzabili nelle piante il cui genoma sia ben conosciuto, a oggi per esempio frumento, vite, pomodoro, riso; questo perché se si conosce quale sia la funzione di un certo gene si sa anche cosa succede spegnendolo, è il caso dei geni di suscettibilità a certe malattie che possono essere inattivati. Poter ottenere piante resistenti a determinate malattie fungine consentirebbe la riduzione dell’uso di fungicidi.

Sono già state avviate le prove in campo per il riso resistente al brusone da una collaborazione dell’Università Statale di Milano, o le viti resistenti alla peronospora di uno spin-off dell’Università di Verona, tutte malattie fungine piuttosto dannose. Anche il miglioramento qualitativo è preso in considerazione nelle sperimentazioni. Ne è un esempio il pomodoro arricchito di provitamina D3 del CNR in collaborazione con il John Innes Center o dell’utile amminoacido GABA.

L’innovazione in agricoltura ha bisogno di un ambiente fertile in cui diversi soggetti dovrebbero fare la loro parte. Gli agricoltori e i ricercatori dovrebbero raccontare il proprio lavoro nei campi e nei centri di ricerca. I politici dovrebbero promuovere investimenti e regole semplici, basate sulla conoscenza ed abilitanti. I giornalisti e i comunicatori dovrebbero informare correttamente i cittadini per evitare che si formino pregiudizi e allarmismi ingiustificati.

In apertura, foto di Olio Officina