«La forma compiuta delle scienze dev’essere poetica».
Novalis [1]
La scienza, la poesia, la fiaba. Cosa hanno in comune? Un dio sopra la terra, scrisse Cristina Campo, uno spirito ardente che attraversa le mura. «Vince nella fiaba il folle che ragiona a rovescio, capovolge le maschere, discerne nella trama il filo segreto, nella melodia l’inspiegabile gioco d’echi; che si muove con estatica precisione nel labirinto di formule, numeri, antifone, rituali comune ai vangeli, alla fiaba, alla poesia»[2]. E alla scienza, o così dovrebbe essere. Perché anche la scienza si muove come in una fiaba: dice il come, non il perché. Il perché è un incantesimo, come la danza degli storni, il frutto dagli alberi, le crespe inafferrabili che il vento alza sull’erba. E la bellezza, scrisse Emily Dickinson, non ha causa: esiste.
Quel folle che vince nelle fiabe, che indaga in precisione estatica, è lo scienziato ed è il poeta, che per molto tempo sono stati un tutt’uno: credono alla parola, e da essa traggono concreti prodigi. Da Talete ed Empedocle fino a Camillo Sbarbaro e Primo Levi, passando per Goethe e Gottfried Benn.
Di questa ‘folle’ compagine fa parte Margherita Rimi, poetessa, medico, neuropsichiatra infantile, che ha da poco dato alle stampe la sua raccolta di poesie Restitutio ad integrum, formula medica che indica la guarigione, il ritorno all’integrità del malato.
Le parole la visitano di notte, come la Musa visitava Anna Achmatova. E la Musa e il muscolo della lingua, nelle poesie di Margherita Rimi, fanno insieme il sangue del verso. Le parole scorrono: sono vene, arterie, organi pulsanti. Così la poesia libera la scienza: costruisce un corpo vivo, meccanismo perfetto e fragile, che è sempre minacciato da virus e batteri, ma «resiste per natura. / Non tenta di cercare scuse / accetta cure / mentre / fa miracoli / il suo stato immunitario».
Ecco che la scienza si fa poesia-letteratura e viceversa, perché davvero non c’è più alcuna ragione per distinguerle, né al mondo, né nel nostro corpo/mente. Non è forse anche questa la restitutio ad integrum (magari sotto il segno di Talete)?
È un darsi verità reciproca: la parola viene liberata «dalle abbreviature / dagli inganni matematici / dalla possessione / romantica», perché – come sottolinea nella quarta di copertina Gandolfo Cascio – il lessico si infiamma nella precisione scientifica, che usa, mette insieme e mette a posto termini medici, lingue che poesia e scienza condividono nella tradizione, come il greco e il latino, e frammenti sanguigni in siciliano. Perché tutte le parole contano, lanciate come sono dall’alto: dalla freccia di Diana, scrisse Amelia Rosselli, e il poeta le raccoglie a valle, e le mette proprio lì dove devono stare, come gli elementi nella tavola periodica, come ogni organo nel nostro corpo.
Per Hofmannsthal, perfino gli scienziati che stanno lontani dalla poesia «è il poeta che cercano, senza nominarlo. Così il poeta è là dove non sembra si trovi, e si trova sempre in un luogo diverso da quello in cui lo si pensa»[3].
Il doppio sguardo di Margherita Rimi, scienziato e poeta, concilia ciò che apparentemente è opposto: il regno dove si indaga l’indagabile e si venera serenamente l’imperscrutabile.
Così:
«La parola deve valere la lingua
Impressionare i papaveri
Consegnarsi alla preghiera
Alla fine tutti a fare silenzio:
tutti a guardare qualcosa
che esce fuori dal rigo».
MARGHERITA RIMI
Restitutio ad integrum. Poesie 2015-2024
Marsilio, pp.140, euro 19,00
[1] Novalis, Del poeta regno sia il mondo, a cura di S. Mati, Bologna, Pendragon, 2005, p. 91.
[2]Cristina Campo, Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1987, p. 41.
[3]Hugo von Hofmannsthal, L’ignoto che appare. Scritti 1891-1914, a cura di G. Bemporad, Milano, Adelphi, 1991, p. 257.