Mio padre soffre di una grave malattia al pancreas – sin dal 1978, in Svizzera. Ogni mese circa ha per vari giorni crisi violente: febbre, tremori, dolori lancinanti, collassi.
Ci siamo abituati, in famiglia – noi figli siamo cresciuti con la costante presenza di questa malattia.

Non siamo soliti farci carezze, nella mia famiglia contadina – è stato sempre così, niente di nuovo per noi.
Oggi però, vedendo mio padre tremante nel letto, gli ho accarezzato la testa – era come assente nel suo dolore. Eppure ha trovato la forza di dirmi con gli occhi chiusi e con voce esile: “Nun me tuccà ca me dola tutto” (“Non mi toccare che mi fa tutto male”).

Ho partecipato a tanti funerali, nelle mie contrade, e solo ai funerali ho visto baciare e accarezzare persone morte che in vita si erano sottratte al contatto fisico con una durezza che rasentava l’insensatezza.

Sin da ragazzo la mia rivoluzione è stata quella di combattere questa durezza contadina con il calore.
Ho continuato ad accarezzarlo sfidando una grande civiltà cadente con la mia civiltà minore, sentimentale, e dunque fragile, decadente.

Lui è sì più forte, ma io non ho torto.