Riportiamo l’intervento di Alfonso Pascale al convegno “Connessioni città-campagne e pianificazione del territorio nella regione mediterranea”, incontro che si è svolto il 28 ottobre 2025 a Roma.
“Culture contadine del Mediterraneo e agricolture nell’attuale rivoluzione tecnologica”
Un grazie agli organizzatori – Cerealia, Insor, Fidaf e Confagricoltura – per avermi invitato a questa bella iniziativa. Innanzitutto, mi preme sottolineare l’importanza dell’argomento, posto al centro della giornata di studio, nell’attuale contesto geopolitico.
Per un mediterraneismo italiano
Il Mediterraneo diventò un mare globale dall’apertura del canale di Suez. Quell’evento coincise con l’unificazione dell’Italia. Essa era stato centro passivo del mondo mediterraneo (antico, medievale e moderno), dove si erano scontrati gli imperi e poi le grandi nazioni. E divenne soggetto attivo nelle vicende europee e snodo di un sistema geopolitico tra l’Atlantico e l’Oceano indiano.
Trovarsi in tale collocazione, comporta che tutti i paesi mediterranei devono in qualche modo rapportarsi con l’Italia, sia quando si ragiona sulle possibilità di sviluppo, sia quando bisogna fronteggiare i conflitti e le emergenze umanitarie.
E, per il nostro paese, comporta la consapevolezza di dover svolgere la funzione dinamica di centralità comprimaria del Mediterraneo. Naturalmente senza alcuna pretesa di egemonia culturale, linguistica o economica ma con grande umiltà e con una marcata disponibilità al dialogo.
Si tratta di collaborare con ciascuno Stato della regione con la coscienza che ogni cultura nazionale ha il suo modo precipuo di guardare al Mediterraneo.
Ebbene, questa iniziativa contribuisce a creare un nostro mediterraneismo che deve confrontarsi con quello degli altri paesi, partendo dalle nostre specificità.
La nostra “cultura del Mediterraneo” dovrebbe poggiare su tre pilastri:
a) la consapevolezza che il nostro paese affonda le sue radici in mondi rurali molteplici di origine millenaria;
b) la coscienza che tale eredità è un bene pubblico vitale per guardare al futuro;
c) la convinzione che tale bene pubblico serva come lievito per umanizzare l’attuale salto tecnologico.
I mondi contadini millenari e la “ruralitudine” italiana
Condizioni di estrema miseria caratterizzavano i mondi rurali del passato. Ma erano accettate dalle popolazioni con “dignità”. E tale accettazione costituiva una filosofia di vita, come afferma Friedrich George Friedmann. Una filosofia riconducibile ai pensatori presocratici e, in particolare, a Parmenide, vissuto nella città magnogreca di Elea e considerato da Karl Popper il fondatore della tradizione della riflessione critica.
Si trattava di culture associate a pratiche comunitarie di diverso tipo: dai riti di ospitalità nei confronti soprattutto dei più indigenti alle veglie serali dedicate a quella che oggi chiamiamo “intergenerazionalità”; dallo scambio di mano d’opera tra le famiglie nei momenti di punta dei lavori aziendali all’idea di vicinato coi suoi riti di reciprocità; dagli usi civici delle popolazioni sui terreni di proprietà collettiva alle associazioni locali, diffuse soprattutto nel Sud, come chiese ricettizie, confraternite, monti frumentari, monti di pietà, fino alle società di mutuo soccorso.
Erano forme concrete di relazionalità con cui gli individui si aiutavano vicendevolmente. Una sorta di “ruralitudine”, rimasta inconsciamente nei nostri caratteri di fondo.
Se oggi siamo quelli che siamo, lo si deve ad alcuni semi che abbiamo ereditato: senso della libertà individuale che si concilia con lo spirito comunitario; intangibilità della dignità umana che si integra con lo spirito di fraternità. Semi rafforzati e stabilizzati, sul piano teologico e filosofico, dalla cultura giudaico-cristiana e dal suo incontro con il mondo greco-romano.
E, in più, ci caratterizza quell’atteggiamento dubbioso ed esigente che ci proietta sempre verso nuove mete e quel vitalismo che si unisce al senso della misura, al rispetto, all’attenzione a non violare l’àperion, ossia l’illimitato.
I mondi rurali da cui proveniamo sono tipici del Mediterraneo. Un mare che unisce. Un luogo sincronico che esalta la distinzione contro la tragica opposizione. E la capacità di integrare tradizioni culturali diverse e anche contrapposte.
Non erano tanto le produzioni agricole a condizionare quei mondi. Ma l’agricoltura in quanto tale. Questa, intesa come produzione di cibo, è frutto di un’evoluzione molto graduale. Per migliaia di anni raccolta di frutti spontanei e coltivazione di specie addomesticate sono coesistite. E nel tempo la prima è diminuita nella misura in cui è cresciuta l’importanza dell’altra.
L’agricoltura non viene inventata per produrre cibo. Nasce come attività dell’uomo per adattare la terra e le acque a forme più civili di convivenza umana. Accanto alle comunità nomadi, sorgono le comunità stanziali. E con l’agricoltura nascono le religioni, la filosofia, la scienza, la scrittura, i numeri e le prime forme di statualità.
Nel Mediterraneo non sono le città a nascere dalla campagna: è la campagna a nascere dalle città. Una campagna che è appena sufficiente (o addirittura del tutto insufficiente) ad alimentarle. Ma un territorio reso stabile, bonificato, curato mediante l’opera costante dell’uomo, è un elemento di sicurezza delle città.
I contadini mediterranei hanno sempre voluto vivere negli agglomerati urbani (le città contadine) – i luoghi degli scambi – dove poter svolgere attività molteplici e avere rapporti continuativi e fecondi con altre città.
Se si legge attentamente il poema di Esiodo Le Opere e i Giorni, scritto tremila anni fa, si può notare che l’attività agricola è considerata come un servizio, un rito religioso. Nell’attività agricola c’è un asservimento ai tempi dettati dal clima, alla resistenza del terreno, alle norme per preservare la fertilità del suolo.
Anche nella Bibbia, “coltivare” si dice “abad” che letteralmente significa “servire”. Adamo ha ricevuto in dono il giardino con la finalità di servirlo. “Abad” indica il servizio alla terra e viene tradotto anche con il verbo “lavorare”.
La “ruralitudine” come bene pubblico
L’Italia, dunque, è sempre stata un arcipelago di culture di cui la terra è l’elemento essenziale. “Humilemque videmus Italiam” esclama, sollevato, Enea quando giunge nelle acque calme del mar Tirreno. Questa frase dell’Eneide non va tradotta “vediamo l’umile Italia”. L’umiltà dell’Italia è semplicemente un richiamo alla “terra”, all’humus, a quello splendido avverbio humi che sta a indicare l’atteggiamento di chi poggia “a terra” l’orecchio quasi a cogliere il pulsare profondo del sottosuolo dove oscuramente germina la vita.
L’umiltà delle nostre origini non è servile, ma dignitosa, indica culture che sono state alla base delle grandi svolte tecnologiche che hanno liberato i contadini dalla fatica e dalla fame e fatto progredire la società.
Le metropoli planetarie del nostro paese sono cresciute con l’apporto determinante di gruppi umani provenienti, a più riprese, dalle regioni centro-meridionali.
Per questo, gli italiani si possono considerare un “popolo di contadini”.
Quelli, infatti, che migravano dalle campagne nelle città industriali non entravano in un limbo tra una cultura che si lasciavano alle spalle e un’altra che non li accoglieva.
Come scrive Ferrarotti, le culture contadine hanno fornito “quella base d’identità e quella sorta di ammortizzatore segreto delle crisi sociali, che in altri contesti hanno dato luogo a fenomeni di sradicamento e di alienazione”.
Negli anni Settanta del secolo scorso, viene ripresa un’intuizione di Rocco Scotellaro.
Si cominciò, infatti, a considerare la “ruralitudine”, ereditata dai mondi contadini tradizionali, una risorsa per lo sviluppo, un bene pubblico.
Da una parte, emergeva il fenomeno dei giovani che occupavano le terre pubbliche e il loro incrociarsi con il movimento basagliano per la chiusura dei manicomi. Da quella fusione nacquero le esperienze pioneristiche di agricoltura sociale.
Dall’altra, sorgevano le agricolture di qualità e le prime reti degli artigiani del cibo, promosse e studiate dall’INSOR di Corrado Barberis.
Questi due fenomeni sono andati per conto proprio, in modo parallelo, per decenni. E hanno raggiunto una loro consistenza negli ultimi vent’anni.
Nel frattempo, il quadro si è arricchito di ulteriori esperienze di agricolture civiche o civili, soprattutto nelle aree urbane. È del 2005 il Parere del CESE sull’agricoltura periurbana e del 2006 il primo studio della FAO sulla silvicultura e il verde nelle aree urbane e periurbane dell’Asia occidentale e centrale. Nel 2005 nasce la Rete Fattorie Sociali. È del 2012 il Parere del CESE sull’agricoltura sociale. E nel 2015 viene approvata la legge italiana sull’agricoltura sociale.
Alla radice di queste tendenze c’erano una sensibilità ecologica e una ricerca di senso espresse da laureati e diplomati di provenienza urbana o di estrazione contadina.
Essi guardavano all’agricoltura non più con gli occhi dei padri e dei nonni, scappati via dalla miseria o rimasti in campagna per condurre l’azienda di famiglia.
Erano, invece, incuriositi e affascinati dalle nuove opportunità che, in un contesto di relativo benessere, il settore presentava in termini di diversificazione della qualità dei prodotti e di offerta di nuovi servizi per la società.
Come abbiamo visto, fin dalle origini l’agricoltura ha prodotto beni pubblici che oggi definiamo “servizi sociali e ambientali per le comunità”.
Con le due guerre mondiali, ha preso spessore un ulteriore bene pubblico: la sicurezza alimentare (food security). Pertanto, le politiche agricole del Novecento sono state modellate per soddisfare questa crescente esigenza delle nostre società.
Per produrre cibo sufficiente e di qualità, l’agricoltura si è dovuta collocare in un insieme di relazioni molto intense con l’industria e con la grande distribuzione.
E in tale insieme, raffigurato nell’immagine “farm to fork”, l’anello debole è rimasto il settore primario.
Nell’immaginario collettivo, il cibo s’identifica con “MasterChef”, il format televisivo di pietanze culinarie che evocano l’abbondanza. E, dove c’è cibo in abbondanza, il mangiare è diventato, paradossalmente, qualcosa di molto simile a un’ossessione.
Sicché, nuovi miti e riti sostituiscono quelli di un tempo senza che tali metamorfosi siano vissute consapevolmente.
Non vi è dubbio che tali trasformazioni hanno indotto nell’agricoltura una sua peculiare crisi di senso. Una crisi destinata ad accentuarsi: lo sviluppo tecnologico impetuoso prefigura, infatti, un futuro in cui la produzione di cibo dipenderà sempre meno dalla terra.
Fare le barricate non solo è inutile ma sarebbe anche paradossale se si guarda alla storia millenaria delle campagne e alle origini dell’agricoltura.
Le paure degli agricoltori vanno prese sul serio perché siamo appena agli inizi di una profonda trasformazione. Ma occorre trasparenza e onestà intellettuale nell’interpretare bene il processo che si è aperto.
Se lo si osserva attentamente, esso non comporterà un ridimensionamento dell’agricoltura. Si prospetta, invece, un rimescolamento delle sue funzioni e della rilevanza che ognuna di queste avrà in futuro. Rimescolamento di agricolture diverse da governare con intelligenza.
Contestualmente alla produzione di cibo, che rimane una sua funzione ineliminabile, l’agricoltura, nelle sue diverse declinazioni, dovrà, infatti, continuare a svolgere, in forme da inventare, ruoli che da millenni interpreta senza alcun concreto riconoscimento sociale.
Lo dovrà fare in misura sempre più rilevante perché crescerà nella società una domanda di senso indotta dal salto tecnologico che stiamo vivendo.
E, a fronte di tale domanda, le imprese agricole e le diverse agricolture dovranno sempre più attrezzarsi per generare “ruralitudine”, un bene pubblico con cui la società potrà adattarsi meglio al clima, alla demografia, ai processi migratori e alla rivoluzione tecnologica.
Le agricolture come lievito per umanizzare l’attuale salto tecnologico
L’avvento dell’intelligenza artificiale segna un salto epocale nel rapporto tra l’umanità con la tecnologia. Si tratta di un traguardo denso di opportunità a cui mirare con gratitudine e speranza. L’utilizzo di questa tecnologia può introdurre importanti innovazioni nell’agricoltura, nell’istruzione, nella cultura, nel campo medico. Può generare un miglioramento del livello di vita delle popolazioni. Con le applicazioni dell’intelligenza artificiale le organizzazioni potranno essere aiutate a identificare le persone che si trovano in stato di necessità e a contrastare i casi di discriminazione e di emarginazione.
Occorre riflettere sul salto tecnologico da più prospettive. Una maggiore autonomia comporta una responsabilità più grande per ogni persona nei vari aspetti della vita comune. Inoltre, la qualità delle relazioni umane ne uscirà modificata in modo rilevante. E cresceranno i conflitti tra culture diverse. Soprattutto, ci sarà l’esigenza di valorizzare tutto ciò che è umano al di là delle macchine.
Per questo la società, man mano che prenderà coscienza dei suddetti problemi, dovrà guardare alle agricolture come ad un giacimento prezioso di saggezza a cui attingere.
Eredi di un millenario umanesimo rurale, gli agricoltori sono chiamati a compiere una grande opera di valorizzazione della “ruralitudine”. E così contribuire a quel necessario processo di umanizzazione del salto tecnologico che molti invocano.
Per concorrere ad alimentare un pensiero capace di accompagnare il cambiamento, la “ruralitudine” dovrebbe diventare materia di ricerca non solo agronomica ed economico-agraria, ma anche storica, filosofica, sociologica, etno-antropologica e psicologica.
Occorrerebbe, dunque, farla entrare a pieno titolo, con il suo carattere interdisciplinare, nei programmi degli ecosistemi di innovazione.
La “ruralitudine” dovrebbe, inoltre, trasformarsi in un’offerta di servizi per tutti, dall’infanzia agli anziani, dalle comunità rurali alle comunità urbane. Un’offerta da promuovere con azioni che dovrebbero entrare a pieno titolo nelle strategie delle reti di imprese e componenti della società civile.
Occorre, pertanto, eliminare una sorta di contrapposizione tra agricolture diverse: una tecnologica che guarda ai mercati globali e un’altra tesa a specializzarsi nell’offerta di servizi e proiettata esclusivamente ai mercati locali.
Per facilitare un avvicinamento tra modelli agricoli distinti, bisognerebbe che l’insieme delle agricolture adottino un diverso sguardo etico sull’economia.
Si tratta di acquisire il paradigma dell’economia civile e di adattarlo alle specificità agricole. È una tradizione fondata nel Settecento illuminista da un filosofo ed economista napoletano, Antonio Genovesi, che non distingueva, né tantomeno separava l’economia dalla società. E questa concezione è legata a filo doppio con le millenarie culture agricole del Mediterraneo.
L’economia civile ha molti elementi in comune con l’economia mainstream e, come quest’ultima, ha una molteplicità di declinazioni. L’idea di fondo che lega le diverse espressioni dell’economia civile è che la coesione sociale è la premessa dello sviluppo e non il suo esito.
Insomma, ci vuole una visione unificante che investa sia la sfera della conoscenza, sia l’azione collettiva. Una visione e una proposta che portino ad una modifica profonda del modello di intervento pubblico in agricoltura, nell’Ue e negli stati membri. E ad un dialogo fattivo, su basi culturali e politiche solide, con gli altri paesi del Mediterraneo.
In apertura, foto di Olio Officina