Tra fine di agosto e fine di ottobre ho letto quattro romanzi, molto ma molto diversi l’uno dall’altro. E mi sono piaciuti parecchio, al punto da consigliarne la lettura.

Chiudo la porta e urlo, di Paolo Nori, Mondadori

Terzo e forse non ultimo atto di narrativa dedicata a poeti che Paolo Nori ha molto amato. Prima ci ha parlato di Dovstoevskij, poi di Anna Achmatova e ora della comunità di poeti made in Santarcangelo di Romagna come Baldini, Tonino Guerra e Nino Pedretti. Poeti di vernacolo e non, comunque personaggi eccezionali, mitologici, figli di una provincia che in Italia è ancora linfa, musa, palcoscenico, talamo e tomba di tanta letteratura, cinema, sentimento e arti varie. Nori come al solito parte da sua nonna Carmela e dalle sue vicende cliniche (le grandi ustioni) per parlarci di Pietroburgo, Parma, Bologna e dell’attività fisica quotidiana che gli tocca fare. Parla della palla che gli hanno impiantato per coprire il suo buco in testa per raccontarci a cosa serve la poesia, il linguaggio. Il mestiere segreto e alienante di chi traduce poesia e prosa da altre lingue. Ci racconta cosa significhi essere oggi uno scrittore, un traduttore e un intellettuale che deve pubblicare, magari vendere restando se stesso, cioè molte volte un essere umano inadatto a questo presente. Come forse è capitato a Leopardi, a Luigi Tenco o a Cucinelli (ma quest’ultima è una mia idea personale).

Amo Paolo Nori e il mio desiderio è andare ad ascoltarlo in teatro e poi parlare con lui anche di suo fratello, che lui ha anche un fratello. Ma che non fa lo scrittore. Un fratello al quale per due volte hanno detto che Paolo Nori era morto. Viva Paolo Nori.

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Jezebel, di Irène Nemirovsky, Adelphi

Questo romanzo parla della tossicità materna e di una serie di temi che, porca miseria, non immaginavo fossero così hot già negli anni Quaranta, che forse noi donne sarà dai tempi di Cleopatra che abbiamo le stesse preoccupazioni. Questo libro parla di una signora molto bella e molto ricca che trascorre la sua intensa vita a rincorrere il riconoscimento della propria bellezza da parte degli uomini. Ovviamente (secondo il mio punto di vista) è di origini sudamericane ma educata in Europa e tra feste e relazioni, non fa che andare a caccia dell’ammirazione altrui, del servilismo maschile, della competizione femminile tra mille travestimenti, mistificazioni e frivolezze. Ha anche una figlia che tiene praticamente nascosta e che si ostina ad infantilizzare affinché nessuno possa calcolare i suoi anni (della madre) attraverso il tempo che scorre sulla figlia. A questa figlia fa passare le pene dell’inferno in una gabbia dorata di solitudine e silenzio. Il rapporto con la figlia è drammatico ma mai quanto il rapporto tra la donna e sé stessa.

La sua idea di vecchiaia, le conseguenze di fondare i propri valori sull’apparenza, su quel che si vede, vivere in funzione dello sguardo altrui. Credere di non valere niente oltre quella scocca esterna che ancora tanto ci interessa e ci fa soffrire. A questa donna non rimane niente. E a farne le spese più amare è sua figlia.

Si legge di botto. Ci si consola. Ci si impegna a non essere così. Ma per le donne poco è cambiato. Il patriarcato è un problema, forse l’origine dei problemi. Ma anche la tossicità femminile non è meno cruda e mortifera. Aiutiamoci.

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Morte di un uomo felice, di Giorgio Fontana, Sellerio

La recensione di Paolo Marini, mio maestro di legge: due palle. Non è vero. Questo romanzo parla di un giovane magistrato che negli anni Settanta affronta i brigatisti e le loro malefatte in una Milano di fine estate. È un ragazzo cattolico, sposato con due figli che ama un po’ meno del suo lavoro. Va in bici e a piedi da solo per strade notturne lavorando indefesso cercando di capire come sia possibile che la stessa povertà, disperazione e ingiustizia ci renda comunque carnefici di qualcuno, capaci di uccidere, accecati a tal punto di trovare nella violenza la sola forma di dialogo e protesta.

Fontana è uno scrittore bravissimo, un professionista della narrativa contemporanea. Le sue emozioni, la sua identità di scrittore sono completamente sepolti dalla perizia tecnica della sua prestazione. Non c’è traccia di “pancia” nella sua narrazione. Gli darei un simpatico sganassone per vedere se conosce i moti dell’ira, anche lui, qualche volta. Ma forse sono solo invidiosa perché lui scrive i romanzi e io queste recensioni del cazzo.

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Babysitter, di Joyce Carol Oates, La nave di Teseo

Questo è un romanzo da paura. Nel senso che è nero, a tratti horror sicuramente crime. Ma non è un giallo. Fa semplicemente paura, e talvolta tanta paura perché parla del male, della malvagità e del non senso del male che si insinua nella vita di chiunque, nella quotidianità e spesso nelle vite che sembrano più perfette e luminose. Scrittrici della stessa intensità ce ne sono: Atwood, Shirley Jackson, la nostra Antonella Lattanzi. Ma Oates è un altro campionato. Intanto parla sempre della provincia americana. Delle donne che abitano questa provincia e nel caso di specie i silvestri sobborghi di Detroit ai tempi della Motor City ma anche della Murder City. Perché in città si aggira un maniaco che prende, tortura e uccide i bambini e poi li adagia nudi nella neve. Lavati, con le braccia incrociate sul petto e gli abiti lavati e stirati accanto ai loro cadaveri immacolati e straziati. Bambini non amati e non meritati. Bambini non visti. Fino ad uno, il settimo, che invece è rapito da un bel quartiere. E c’è una donna elegantissima e benestante. Con la borsa di Prada e i tacchi a spillo, due figli stupendi, un marito molto apprezzato al lavoro, ricco, che la ignora e la deride. E c’è una tata silenziosa ed efficiente con la quale e talvolta contro la quale la signora elegante si confronta. Un giorno questa signora elegante e invisibile per suo marito, incontra un uomo enigmatico che le tocca un polso. Da qui un incubo senza tregua scandito da sentimenti tristemente noti almeno per me.

La felicità e il suo prezzo. L’enigma della vita e dei pensieri degli altri, la violenza delle relazioni, anche quelle apparentemente meglio riuscite. La solitudine della maternità. La necessità di essere belle e viste e amate. Una necessità talvolta autocannibalistica se questa parola esiste. Oates è già inquietante pure a vederla nelle foto. Tutto il resto lo lascia alla scrittura. Ma opera e autore sono sempre così distanti o coincidono inevitabilmente o sono queste solo quisquiglie di cui parlare nei podcast della Bignardi? La risposta non la ho, ma se per caso in questo periodo siete particolarmente di buon umore come me, è un buon periodo per leggere Oates.

In apertura, opera di Taisuke Koyama esposta al Palazzo Reale di Milano (settembre 2016), in una foto di Olio Officina; all’interno foto di Valentina Cardone