Nelle elezioni regionali in Veneto, Campania e Puglia erano chiamati alle urne 11 milioni e mezzo di elettori. Hanno votato in media meno del 45% degli aventi diritto. Nel solo Veneto l’astensionismo è cresciuto di 17 punti rispetto alle precedenti consultazioni regionali. A conferma di una tendenza sempre più accentuata a tenersi lontano dalle urne e che non riguarda solo l’Italia. È questo il dato politico che merita di essere discusso. 

I cittadini sono innanzitutto stufi di campagne elettorali che si susseguono ormai sempre più in modo ripetitivo. In particolare, sono stanchi di questa estenuante verticizzazione della politica a livello nazionale, anche quando si vota nelle regioni e nei comuni. I riflettori mediatici sono ossessivamente puntati solo sui leader e capi (spesso assoluti) dei rispettivi partiti. Capo e tifoseria: in mezzo poco o nulla. 

Ci sono poi ragioni economiche, sociali e psicologiche del malessere. Ragioni che la politica evidentemente non riesce né a intercettare né a comprendere né a risolvere. 

In molte zone dell’osso e nei quartieri più periferici delle grandi città, ci sono milioni di persone che si sentono abbandonate, incomprese e tradite dalla politica. Dunque, si preferisce astenersi e rifuggire il gioco democratico. Si tratta di un’apatia che nasce dalla rabbia e dalla frustrazione. 

Va peraltro considerata una condizione che appare quasi oggettiva. Molti cittadini si vanno sempre più convincendo che la politica incida sempre meno sui nostri destini personali. La domanda che essi si fanno è: perché votare se colui che scelgo come mio rappresentante potrà fare poco o nulla di ciò che promette e di ciò che mi interessa? Questo interrogativo non attiene ad un sentimento di sfiducia nei confronti della classe dirigente. Ma ad una sorta di rassegnazione di stare ormai in un mondo dove le potenze economiche sembrano diventate così forti da non poter essere condizionate dalla politica. I partiti dovrebbero raccogliere questo segnale per dotarsi di un pensiero e sviluppare un’azione all’altezza di tale sfida. Ma non ci pensano nemmeno. 

Inoltre, l’astensionismo è l’esito indesiderato di un utilizzo sempre più diffuso dei social come canale di partecipazione alternativo a quelli tradizionali. Coi social, tra un clic e un like, si vota ogni giorno, si prende posizione, si ha una soggettività politica, per quanto virtuale e lasca, non più assicurata da partiti che hanno perduto i propri legami con il territorio. Basta avere un account è ognuno di noi si auto-percepisce come se fosse un partito, del quale si è insieme ideologo, segretario, tesoriere e portavoce. 

Infine, l’allontanamento dalle urne dipende dal processo di invecchiamento della popolazione. Sono sempre più numerose le persone che vivono da sole e hanno problemi di mobilità: votare, cioè uscire da casa, è una fatica che si compie solo se davvero ne vale la pena. 

Eppure, basterebbe permettere a queste persone di votare on line per ottenere una maggiore partecipazione elettorale. La tecnologia esiste già, SPID, CIE, sistemi biometrici, piattaforme blockchain, crittografia end-to-end: li usiamo già per beni e dati ben più sensibili di una scheda elettorale. 

Si ha il timore di brogli? Ma già oggi esiste tale rischio. Le schede si possono falsificare, gli scrutini manipolare, i verbali alterare. La differenza è che nel sistema analogico questi rischi sono opachi, affidati alla buona fede di migliaia di operatori. Nel sistema digitale sarebbero tracciabili, verificabili, certificabili da crittografia e audit indipendenti. 

A queste obiezioni, i leader dei partiti rispondono scrollando le spalle. Più si riduce la partecipazione elettorale e meno fatica essi fanno a conquistare un consenso che diventa sempre più un’abitudine stanca e rara. Una democrazia senza partecipazione non è più liberale.

In apertura, foto di Olio Officina