L’Unione europea (Eu) è sicuramente una potenza economica ma non è ancora un soggetto geopolitico. In un mondo in cui le regole stabilite dopo la seconda guerra mondiale si sono sgretolate e il potere globale è determinato sempre più dalla forza e dalla rapidità, l’Ue appare irrilevante. L’ostacolo principale che impedisce la sua evoluzione in un ente sovranazionale sovrano, benché privo di statualità, è l’inefficacia del suo sistema decisionale. Lo si è visto chiaramente durante le crisi plurime degli anni Dieci e Venti. E questa situazione di difficoltà si è manifestata nonostante la sfida di una destra nazionalista in ascesa e nonostante le proposte avanzate da associazioni di cittadinanza e organizzazioni civili. Proposte confluite nella Conferenza sul futuro dell’Europa (con il suo Rapporto finale del maggio 2022). Le stesse istituzioni europee avevano elaborato, già nel corso degli anni Dieci, documenti che prevedevano di introdurre riforme nel funzionamento dell’Ue, delineando cinque scenari per il suo sviluppo (si veda “Commission’s White Paper” del 3 luglio 2017).

Un Gruppo di lavoro promosso dai ministri degli esteri della Francia e della Germania ha infine concordato una strategia di riforme che prevede la riarticolazione dell’attuale Ue in quattro gruppi di stati impegnati a realizzare forme di collaborazione a diversa intensità di integrazione (“Franco-German Working Group on Eu Institutional Reform”, 2023). Eppure, dopo il Trattato di Lisbona del 2009, poco o nulla è stato fatto per rendere l’Ue più efficiente e democratica, o semplicemente per adeguarla al nuovo contesto politico. E ancora di meno è stato fatto per renderla in grado di affrontare sfide esistenziali come quella rappresentata dal nazionalismo imperiale russo.

Cosicché il mancato completamento dell’integrazione europea e, in particolare, l’assenza di una unica politica europea di difesa e sicurezza (e, conseguentemente, di una unica politica estera europea) impediscono all’Unione di proporsi come nuova forza geopolitica capace di rifondare l’ordine mondiale liberale. Lo dimostra la disastrosa trattativa sui dazi che si è conclusa con un accordo imposto da Trump al 15 per cento fortemente penalizzante per l’Ue. E ancor più il tentativo cinese, effettuato nel settembre scorso a Tianjin, di trasformare la Shanghai Cooperation Organization (Sco), nata nel 2001, in un’organizzazione antioccidentale capace di attrarre il sud globale.

Un ordine mondiale cinese?

La Sco è un’organizzazione di dieci stati membri (guidata dalla Cina, con paesi come India e Russia), con altri quindici stati ad essa associati. Sebbene il suo retroterra sia euroasiatico, dopo l’arrivo di Trump alla Casa Bianca, essa si è posta obiettivi globali. Il suo rilancio è la dimostrazione della crisi dell’ordine internazionale liberale.

Quell’ordine fu costruito dall’America nell’immediato secondo dopoguerra con lo scopo di normare, sul piano internazionale, le relazioni tra gli stati nazionali, così da rendere difficile la guerra tra di loro. La Guerra Fredda confinò l’ordine internazionale liberale solo alla parte occidentale del mondo. Finita la Guerra Fredda, quell’ordine fu esteso al resto del mondo.

Si trattava di un ordine che derivava dall’internazionalismo liberale e dal suo obiettivo di introdurre uno “stato di diritto” in un sistema politico internazionale privo di statualità. Di qui la diffusione di Corti e Tribunali incaricati di supervisionarne il funzionamento sul piano della legalità internazionale. Una legalità favorita anche dalla struttura decisionale multilaterale in cui le decisioni vengono prese all’interno di procedure e regole condivise. Il multilateralismo costruito dagli Stati Uniti era la proiezione del sistema multilaterale interno basato sulla distribuzione e la separazione dei poteri.

Certamente, l’America ha esercitato una evidente egemonia all’interno di quell’ordine. Ma le democrazie hanno accettato tale egemonia perché essa risultava da processi che non escludevano gli “interessi legittimi” degli altri stati. Non solo. Le democrazie riconoscevano all’America di perseguire la sua egemonia costruendo il più articolato e vasto sistema di alleanze mai esistito nella storia. Sistema che ha potuto consolidarsi e svilupparsi grazie ad un modo di pensare condiviso dai membri delle varie alleanze. Un modo di pensare basato sui valori della cooperazione e del mutuo riconoscimento. Si è trattato di alleanze in positivo, perché ogni membro di queste ultime ha riconosciuto la legittimità delle richieste degli altri membri.

Ciò non ha impedito all’America di utilizzare la logica del dominio, invece che dell’egemonia, in particolari crisi o contesti. Ma, prima o poi, il dominio è stato messo in discussione, all’interno degli Stati Uniti e all’esterno, nel sistema multilaterale.

L’America è stata una potenza liberale, anche se, talvolta, ha avuto comportamenti imperiali. Una differenza che l’antiamericanismo non ha mai capito.

Poi è arrivato Trump. Il presidente americano ha messo in discussione il sistema che aveva garantito l’egemonia americana per ottant’anni. Non si è mai visto un paese egemone che distrugge le condizioni che hanno garantito la propria egemonia. I perni dell’ordine liberale (il multilateralismo e il sistema di alleanze) sono stati interpretati come vincoli, e non più risorse, dal nuovo nazionalismo americano. L’America si è isolata senza essere isolazionista.

Il processo di sganciamento degli Usa dal vecchio ordine liberale è emblematizzato da un evento e da una data: la fuga americana da Kabul dell’agosto 2021. È da allora che non vi è più un paese in grado di proteggere le istituzioni liberali dell’ordine internazionale. E siamo così precipitati in un “mondo di nessuno”.

È in quel contesto che Putin ha pensato di perseguire le sue ambizioni imperiali. Ambizioni che derivano da un nazionalismo etnico che non solo mira a ricostruire la Grande Russia, ma anche ad affermare il suo diritto ad esercitare il controllo imperiale su un’area più vasta della Grande Russia.

Nel passaggio dall’ordine al disordine si è quindi inserita la Cina, dapprima sostenendo l’invasione russa dell’Ucraina e poi tentando, come si è già detto, di trasformare la Sco in un’organizzazione antioccidentale, con cui riempire i vuoti di potere lasciati dall’America.

La Cina sta cercando di ricondurre alle sue strategie nazionaliste paesi altrettanto nazionalisti: non solo la Russia, ma anche stati come l’India e l’Iran.

Tuttavia, il nazionalismo non è compatibile con la costruzione di un sistema stabile di alleanze. A Tianjin si è formata un’alleanza in negativo, caratterizzata dall’avversione verso l’internazionalismo liberale piuttosto che dalla condivisione di valori e regole ad esso alternativi.

Poiché la politica internazionale di un paese riflette la sua politica interna, la Cina non potrà promuovere un’alleanza tra pari, vista la centralizzazione gerarchica del potere al suo interno. Una predisposizione incompatibile con il nazionalismo degli altri stati, la cui ragione d’essere risiede nel difendere i propri interessi prima di quelli degli altri.

Il comunismo poteva offrire un’ideologia universalistica, anche se nei fatti ha fornito la giustificazione per promuovere gli interessi nazionalisti della potenza-madre (l’Urss). Ma un’ideologia universalistica non potrà scaturire dal nazionalismo, che per sua natura è particolaristico. Nella storia, tutte le alleanze in negativo sono fallite, proprio perché costituite sulla convenienza contingente e non sulla condivisione sostanziale.

La “guerra della memoria”

La parata militare del 3 settembre scorso a Pechino, organizzata per l’80° anniversario della vittoria contro il Giappone, non è stata solo una dimostrazione di potenza militare. Essa si inserisce nella “guerra della memoria” avviata da Xi nel 2015. La decisione di commemorare l’anniversario della “guerra globale contro il fascismo” intende contribuire a consolidare la narrazione della “grande guerra patriottica” come precedente storico fondativo della Repubblica popolare cinese, funzionale a legittimare le ambizioni geopolitiche di Pechino, in particolare il controllo su Taiwan. La ricorrenza evoca infatti anche il ritorno di Taiwan alla Cina, dopo mezzo secolo di occupazione nipponica.

Va, inoltre, ricordato che il mito della “grande guerra patriottica” è promosso anche da Putin, che lo ha utilizzato per legittimare l’annessione della Crimea nel 2014 e l’aggressione dell’Ucraina. E ora intende sfruttarlo per sostenere la propria pretesa di avere voce in capitolo sull’espansione della Nato e dell’Ue.

Promuovendo tali miti, Cina e Russia propongono una lettura alternativa della storia, contrapposta alla narrazione occidentale della vittoria degli Alleati, più centrata sul ruolo determinante degli Stati Uniti e dell’Europa occidentale.

Questi sforzi volti a ridimensionare la narrazione occidentale sono finalizzati a sostenere l’idea di preservare un ordine internazionale del dopoguerra che non coincide con quello liberale, riconosciuto dalle democrazie.

È noto che tre accordi, negoziati durante e dopo il conflitto, si contendono il ruolo di fondamenti dell’ordine successivo: la Dichiarazione del Cairo (1943), la Dichiarazione di Potsdam (1945) e il Trattato di pace di San Francisco (1951). La Dichiarazione del Cairo e la Proclamazione di Potsdam assumono oggi un valore strategico per Pechino e Mosca. Con la parata militare, Cina e Russia hanno voluto allineare i loro messaggi non solo sul significato della vittoria nella Seconda guerra mondiale, ma anche sulla necessità di preservare quello che loro considerano l’ordine postbellico.

Dinanzi a questi tentativi, la cultura storica occidentale non ha reagito con sollecitudine e non ha teso a ribadire quanto finora acquisito dalle fonti archivistiche. Dimostrando così che non solo l’ordine mondiale liberale è in crisi, non solo le istituzioni democratiche appaiono rinunciatarie, ma anche pezzi della nostra società civile si mostrano cedevoli dinanzi alla minaccia delle autocrazie di guidare il mondo.

Nel videomessaggio alla 51esima edizione del Forum Ambrosetti di Cernobbio, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha fatto appello al coraggio delle istituzioni europee di compiere “un salto in avanti verso l’unità” per “la difesa della civiltà europea – tutt’uno con lo sviluppo della sua società e della sua economia -“. “Il mondo ha bisogno dell’Europa – ha continuato il capo dello Stato – per ricostruire la centralità del diritto internazionale che è stata strappata. Per rilanciare la prospettiva di un multilateralismo cooperativo. Per regole che riconducano al bene comune lo straripante peso delle corporazioni globali – quasi nuove Compagnie delle Indie – che si arrogano l’assunzione di poteri che si pretende che Stati e Organizzazioni internazionali non abbiano a esercitare”. E mettendo il dito nella piaga ha affermato: “L’incrocio tra le ambizioni di quelle, e l’impulso di dominio, di impronta neo-imperialista, che si manifesta da parte dei governi di alcuni Paesi, rischia di essere letale per il futuro dell’umanità”.

Una politica europea di difesa e sicurezza prima di tutto

Dinanzi al cambio di paradigma nello scenario geopolitico mondiale, l’Ue appare frastornata. Non comprende che per vincere la sfida esistenziale deve rapidamente abbandonare la logica intergovernativa che caratterizza la sua governance in materia di politica di difesa e sicurezza.

Oggi questa politica viene realizzata sulla base del coordinamento volontario tra i membri dei governi nazionali (nei Consigli dei ministri degli affari esteri e della difesa), i quali monopolizzano il processo decisionale. Infatti, la Commissione europea è relegata a svolgere funzioni tecniche. E il Parlamento europeo e la Corte europea di giustizia sono collocati ai margini di quel processo.

La politica europea di difesa e sicurezza e la politica estera europea consistono di atti politici piuttosto che legislativi (come sono invece le direttive e i regolamenti), atti poi implementati dalle rispettive amministrazioni dei governi nazionali. All’interno dei Consigli (in particolare del Consiglio europeo), il processo decisionale si basa sul consenso o unanimità, così riconoscendo un potere di veto ad ogni ministro o capo di governo rispetto alla decisione da prendere. Un potere di veto che, durante la guerra russa all’Ucraina, è stato regolarmente esercitato o minacciato da alcuni governi nazionali, come quello ungherese di Orban.

La natura intergovernativa del processo decisionale nella politica estera e di sicurezza ha impedito all’Ue di dotarsi delle risorse dell’”hard power”, risorse rimaste gelosamente sotto il controllo dei governi nazionali, e di dare vita ad un embrionale sistema europeo di difesa.

Il prevalere della logica intergovernativa nella governance dell’Ue è certamente dovuto ai condizionamenti interni ai sistemi nazionali, con potenti gruppi di interesse istituzionale (nella diplomazia, nella difesa, nella classe politica, nei media) impegnati a preservare lo statu quo. Ma dovuto, anche e soprattutto, alla logica processuale del funzionalismo, secondo il quale le istituzioni europee sono il risultato delle politiche. Non è così. Se l’Ue deve garantire autonomamente la propria sicurezza (per poter difendere le sue libertà, la sua democrazia, il suo welfare), deve esprimere una capacità di difesa che solo un’organizzazione sovranazionale può mettere in campo.

La difesa europea non dovrà consistere nella fusione delle difese nazionali, bensì dovrà caratterizzarsi come un nucleo di capacità e risorse che si aggiunge a queste ultime, con lo scopo di affrontare minacce collettive che nessuno stato potrebbe singolarmente affrontare. Gli stati possono conservare le loro difese nazionali, anche se esse dovranno essere razionalizzate così da non ostacolare la difesa sovranazionale, cui dovrà corrispondere una politica industriale per tecnologie di rilevanza militare. La difesa europea dovrà agire in coordinamento con la Nato e dovrà essere alimentata da risorse fiscali autonome e non da trasferimenti finanziari nazionali. L’autonomia strategica dell’Europa integrata implicherà anche la necessità di parlare con una voce sola all’interno delle principali organizzazioni internazionali. La difesa europea richiederà anche la costruzione di un’autorità di politica militare, oltre che di politica estera e di sicurezza. Tuttavia, tale autorità non dovrà necessariamente acquisire le caratteristiche di uno stato per poter esercitare i suoi compiti.

Tra Meloni e Draghi una via italiana alla politica europea di difesa e sicurezza

Al meeting di Comunione e Liberazione, tenutosi a Rimini nell’agosto scorso, l’Europa è stata al centro degli interventi sia di Giorgia Meloni che di Mario Draghi. Pur condividendo un’interpretazione critica dell’Ue, la quale continua ad essere “spettatrice” delle vicende geopolitiche mondiali, essi hanno però espresso visioni diverse su come renderla protagonista.

Assumendo quelle visioni come i due poli della cultura europea dell’Italia, può essere utile verificare se vi è uno spazio condivisibile tra di esse.

Per quanto riguarda Meloni, i tre anni di governo hanno cambiato il suo rapporto con l‘Ue. Sono state messe sotto il tappeto le dichiarazioni antieuropee del recente passato (“con noi, a Bruxelles finirà la pacchia”), così come non si afferma più che i Trattati dell’Ue “debbono essere considerati subordinati alla Costituzione italiana”, così come non si dice più che l’Ue è un’organizzazione “sovietica”, guidata da una casta di funzionari “sradicati”.

A Rimini, invece, Meloni si è dimostrata preoccupata di “un’Unione europea che sembra sempre più condannata all’irrilevanza geopolitica, incapace di rispondere efficacemente alle sfide di competitività poste dalla Cina e dagli Stati Uniti”. Per la presidente del Consiglio, “sono saltati i paradigmi su cui abbiamo visto costruire l’Ue e democrazie decidenti, (in quanto) autocrazie ciniche ci sfidano ogni giorno”. Per questo motivo, occorre creare una difesa europea, dopo che “per decenni abbiamo appaltato agli Stati Uniti la sicurezza europea, a costo di una inevitabile dipendenza politica”. E bisogna “andare oltre il dibattito un po’ stantio tra più Europa e meno Europa. Perché la vera sfida è un’Europa che faccia meno e che lo faccia meglio, che non soffochi gli Stati nazionali, ma ne rispetti i ruoli e le specificità”.

Si tratta dell’Europa confederale, un’associazione di stati priva di organismi sovrastatali, proposta nel manifesto di Fratelli d’Italia per le elezioni del Parlamento europeo dell’anno scorso. Tuttavia, quella proposta non risolve il problema, se si considera che, storicamente, tutte le confederazioni sono regolarmente fallite proprio per la loro incapacità decisionale. È legittimo sostenere che l’Ue debba fare di meno, ma ciò non può essere nel campo della difesa. È legittimo sostenere che debba fare meglio, ma nella difesa ciò non può avvenire attraverso il coordinamento tra stati, di cui due sono potenze nucleari e gli altri no, se non si vogliono gerarchie. Per rendere l’Ue un attore geopolitico, occorre una sovranità europea nella politica estera e di difesa, preservando quella nazionale in altre politiche. Il confederalismo non serve.

Passando ora ad analizzare l’intervento riminese di Draghi, si deve innanzitutto notare la conferma di alcuni suoi precedenti giudizi: “L’Europa è poco attrezzata in un mondo dove geo economia, sicurezza e stabilità delle fonti di approvvigionamento—più che l’efficienza— ispirano le relazioni commerciali internazionali. La nostra organizzazione politica deve adattarsi alle sfide del suo tempo quando esse sono esistenziali”. La soluzione non può essere quella di ritornare indietro, perché “è chiaro che distruggere l’integrazione europea per tornare alla sovranità nazionale non farebbe altro che esporci ancor di più al volere delle grandi potenze”. Occorre “prendere atto che la forza economica è condizione necessaria ma non sufficiente per avere forza geopolitica”. Per questo motivo, l’Ue deve costruire una propria soggettività politica, a partire dalla difesa. “Dopo quasi ottant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, la difesa collettiva della democrazia è data per scontata da generazioni che non hanno il ricordo di quel tempo”. Non possiamo più farlo. Per Draghi, “l’Ue deve mutare la sua organizzazione politica, che è inseparabile dalla sua capacità di raggiungere i suoi obiettivi economici e strategici”. Come aveva sostenuto nel discorso tenuto al Parlamento europeo il 18 febbraio scorso, per Draghi l’Ue “deve agire come se fosse un unico Stato per affrontare le sfide crescenti che ha di fronte”, un concetto ripetuto più volte successivamente.

Draghi sembra pensare che lo stato costituisca l’unica “forma istituzionale” disponibile per prendere decisioni efficaci e legittime. Non è così. Anche perché la costruzione di uno stato federale, oltre alle resistenze che solleverebbe, richiederebbe una tale mobilitazione di risorse istituzionali e politiche da renderne l’esito minaccioso per le libertà individuali e sociali. Anche una Unione può prendere decisioni efficaci e legittime nel campo della sicurezza europea, e in altre politiche comuni, se si dota di un meccanismo sovranazionale, senza che ciò implichi una riduzione dei “diritti degli stati” in altre politiche. Lo statalismo non serve.

Tra le visioni di Meloni e Draghi c’è, dunque, lo spazio per delineare una prospettiva comune. Gli stati sono necessari per alcune politiche, non sono sufficienti per altre. In una fase storica di grandi cambiamenti, un consenso nazionale sul futuro dell’Europa ci renderebbe più forti come paese. Chi prende l’iniziativa per costruire un siffatto consenso trasversale su una posizione comune del Parlamento italiano?

Raccogliere la domanda di “pari dignità” che viene da molti paesi dell’economia globale

L’Italia il secondo paese industriale europeo, subito dopo la Germania. E ha, pertanto, tutto l’interesse ad un rapido completamento dell’integrazione europea. Non solo un sistema di difesa e sicurezza europea e una politica estera europea, ma anche una unione bancaria, una unificazione del mercato dei capitali, una unione energetica e una politica agricola che sia effettivamente europea. Si tratta di liberare l’Ue da competenze improprie, come gli aiuti al reddito degli agricoltori e di lasciare agli stati membri la facoltà di occuparsene liberamente, in base alle esigenze specifiche dei propri territori. La Pac deve sostenere uno sviluppo delle campagne europee nella dimensione dell’economia civile e dell’economia della felicità, coniugando innovazione tecnologica e relazioni sociali, mercati di comunità e mercati globali.

L’Italia è anche tra i primi sette paesi esportatori su scala mondiale. E ha, dunque, l’interesse che l’Ue sappia raccogliere la domanda di “pari dignità” che viene da molti paesi dell’economia globale. Di fronte al neoprotezionismo dell’attuale amministrazione americana, è l’Ue che deve difendere la libertà dei mercati attraverso accordi di libero scambio. In questo contesto grande rilievo assume la sottoscrizione ormai prossima dell’Accordo Ue-Mercosur per la realizzazione della più grande area di libero scambio su scala mondiale. Così come va nella stessa direzione l’avvio dei colloqui tra Ue e India. Scelte che evitano di irrigidire le contrapposizioni tra le diverse aree del mondo e di costruire, invece, un ordine mondiale più libero e più giusto.