Uno stile tipico di noi vecchi è ripeterci. Una nostra specialità. Che non è sempre spia di un cervello in declino. Cos’era, infatti, la ripetizione di un racconto nella tradizione orale, nel tramandare storie da una generazione all’altra? E perché i bambini chiedono ogni sera la medesima storia e pretendono che questa sia raccontata sempre con le stesse identiche parole?

Il desiderio di identicità che la ripetizione soddisfa forse è all’origine dell’invenzione della scrittura. Tuttavia, ripetere non è riprodurre copie di un originale, come fanno gli amanuensi o gli stampatori. Ma è interagire, mediante un’energia archetipica, per dare imperitura importanza ad un fatto o ad un pensiero.

Giambattista Vico diceva che il mondo funziona per ricapitolazioni, ricorsi, ripetizioni. E noi vecchi, ripetendoci, svolgiamo il ruolo di portavoce degli antenati.

L’importanza della ripetizione non sta nel narratore, che può essere variamente motivato. Essa risiede nella vitalità della narrazione, nella potenza della storia raccontata, nella reinvenzione di una tradizione arcaica. Riesumando e rivitalizzando questa forza archetipica, ci prendiamo cura di noi stessi e sopravviviamo. Per questo, quando ci scambiamo i nostri racconti gli uni gli altri, dovremmo curarcene come doni preziosi.

La ripetizione è un aspetto della forza del nostro carattere, come scrive James Hillman. Nulla è più tedioso di un film visto al rallentatore: ogni fotogramma, preso in sé nella sua ripetitività, sembra assolutamente inutile e banale. Ma quando lo vediamo nel suo scorrere normale, quelle ripetizioni minime ci restituiscono il valore dell’opera.