La difesa contro il pericolo esterno (Unione sovietica) e interno (nazionalismi sopravvissuti ai drammi delle due guerre mondiali e dell’Olocausto) e la sicurezza alimentare (riduzione della dipendenza dalle importazioni di derrate mirando all’autosufficienza) erano elementi fortemente intrecciati nel pensiero politico dei leader che avviarono l’integrazione europea. Nello stesso tempo, essi avevano ben chiara la differenza tra “internazionale” e “sovranazionale”. “Internazionale” è la logica del negoziato, delle relazioni internazionali, del coordinamento intergovernativo, fondata sul potere degli stati. “Sovranazionale” è la logica della condivisione-potenziamento. Contrariamente agli statisti che, dopo la prima guerra mondiale, cercarono di costruire un nuovo ordine europeo basato sulla cooperazione tra stati (seppure nell’ambito della nuova Società delle nazioni, istituita nel 1920), i leader dell’Europa democratica, emersa dopo la seconda guerra mondiale, sapevano che la buona volontà dei governi nazionali non basta se non viene istituzionalizzata all’interno di un sistema sovranazionale.
Questa consapevolezza fu all’origine della Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950, considerata l’atto di nascita dell’Europa integrata. Da quella Dichiarazione emersero tre progetti sovranazionali distinti, ma collegati. Il progetto della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca), il progetto della Comunità europea di difesa (Ced) e il progetto della Comunità europea dell’agricoltura (Cea).
La Ceca fu creata con il Trattato di Parigi del 18 aprile 1951 su iniziativa di Francia, Germania e Italia con lo scopo di mettere in comune le produzioni di carbone e acciaio in un’Europa di sei Paesi: Belgio, Francia, Germania Occidentale, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi. Essa fu rapidamente accettata da tutti i Paesi che ratificarono il Trattato in meno di un anno. Entrò in vigore il 23 luglio 1952. Si trattava di una istituzione sovranazionale posta al di sopra dei singoli stati, con poteri propri e con una propria Assemblea. L’aspetto economico, in realtà, celava la volontà di riunire i Paesi che si erano combattuti nella seconda guerra mondiale controllando la produzione delle materie prime dell’industria bellica.
Il Piano per una difesa europea venne presentato dal presidente del Consiglio francese René Pleven all’Assemblea nazionale francese il 24 ottobre 1950, divenuto quindi la base della Conferenza diplomatica per la Ced, convocata dal governo francese il 26 febbraio 1951, che elaborò un Rapporto inviato il 27 luglio 1951 ai sei governi che avevano aderito alla Ceca. Il premier italiano Alcide De Gasperi, consigliato da Altiero Spinelli, fece introdurre nel Trattato istitutivo della Ced la creazione di un’Assemblea eletta su basi democratiche. Gli Stati Uniti premettero molto perché l’Europa si desse una propria politica di sicurezza. Purtroppo, il 30 agosto 1954, l’Assemblea nazionale francese, con un “escamotage” tecnico, decise di non-votare il Trattato, sotto la spinta dell’opposizione sia della sinistra comunista che della destra gollista.
La Cea fu proposta nel marzo 1951 dal ministro dell’agricoltura francese Pierre Pflimlin con organi simili a quelli della Ceca. Ma già nel novembre 1950, Sicco Mansholt, nelle vesti di ministro dell’agricoltura olandese, aveva proposto l’istituzione di una “Alta autorità agricola sovranazionale europea”. Nel 1952, la Francia organizzò a Parigi una riunione dei ministri dell’agricoltura per preparare una Conferenza europea sull’organizzazione dei mercati agricoli. Questa si tenne in due sessioni: una nel 1953 e l’altra nel 1954. Ma non si pervenne ad alcuna decisione poiché nel frattempo la Ced si era arenata. Il 25 marzo 1957 si istituì a Roma la Comunità economica europea (Cee), nel cui Trattato, già nei Principi, all’art. 3, è menzionata “l’instaurazione di una politica comune nel settore dell’agricoltura”, contestualmente, alla creazione del Mercato comune europeo. Quando i parlamenti nazionali ratificarono il Trattato sulla Cee, le sinistre socialista e comunista francese si dichiararono contrarie, mentre, in Italia, i socialisti si astennero e i comunisti votarono contro. La pregiudiziale anti-comunitaria del Pci, che nel 1968 sarebbe sfociata anche nella richiesta della sospensiva totale del mercato comune agricolo, sarebbe caduta soltanto nel 1972.
La prima fase della Pac fu caratterizzata da due elementi: 1) l’eliminazione del groviglio di barriere commerciali preesistente tra gli stati membri; 2) l’adozione di misure di protezione del mercato interno per contribuire a raggiungere l’autosufficienza alimentare. Quest’ultima fu raggiunta in pochi anni. La Comunità europea passò dalla condizione di primo Paese importatore di prodotti alimentari a quella di secondo Paese esportatore, dopo gli Usa. Se si esclude la Gran Bretagna, notoriamente paese importatore per ragioni legate al colonialismo, la Comunità diventò di fatto il primo Paese esportatore.
La sconnessione tra la difesa contro il pericolo esterno ed interno e la sicurezza alimentare dette all’integrazione europea un’impronta diversa da quella originariamente pensata dai suoi padri fondatori. I Trattati di Roma del 1957 celebrarono, infatti, la nuova divisione del lavoro. Gli americani pensavano alla sicurezza comune (attraverso il ruolo preponderante esercitato nella Nato), gli europei ad un mercato comune, divenuto quindi singolo. Con la fine della Guerra Fredda (1981-1991) le cose cambiarono. Se nei tre decenni precedenti la politica di sicurezza (militare ed estera) era rimasta nei ministeri nazionali, il Trattato di Maastricht del 1991 istituì un Pilastro intergovernativo per la Politica estera e di sicurezza (Pesc), al cui interno fu inserita (a partire dal 1999) la Politica di sicurezza e di difesa comune (Psdc). Un altro Pilastro intergovernativo nacque per la Coesione economica e sociale che includeva lo sviluppo rurale. Rimase sovranazionale il Pilastro del mercato singolo, che includeva la Pac ma con una modifica radicale della modalità di intervento (riforma Mac Sharry): i pagamenti compensativi sostituivano parzialmente la vecchia politica dei prezzi dei prodotti agricoli. Veniva così introdotta una politica che aveva molto a che fare con quelle di competenza esclusiva degli stati membri. Con la riforma Fischler del 2003 si introdusse il pagamento unico aziendale, un “aiuto al passato”, non a comportamenti e strategie per il futuro. Una rendita associata all’ettaro eleggibile, ad una condizione di status, al soggetto e non al suo progetto. Insomma, si incominciò a “coltivare il contributo”, come scrive Franco Sotte nella sua Storia della politica agricola europea. Nel 2007 il Trattato di Lisbona classificò la politica agricola non più una competenza esclusiva dell’Unione ma una competenza concorrente. E con la programmazione 2014-2020 la Pac cessò di essere una politica comune e si frantumò in 27 politiche nazionali.
Non c’è, dunque, da stupirsi se, per il prossimo bilancio pluriennale, la Commissione prevede un unico strumento giuridico che accorpa l’agricoltura e la coesione. Sono entrambe competenze concorrenti esercitate mediante piani nazionali. Il limite di questa proposta è che non è inserita in un processo di vera riforma del bilancio che dovrebbe dotare l’Unione di risorse proprie ricorrendo al debito comune. Solo in questo modo si potranno finanziare altre politiche comuni, a partire dalla difesa e sicurezza e dagli investimenti in competitività e innovazione. Ma alcuni stati membri, a partire dalla Germania, non vogliono questo processo di riforma. E così la Commissione è costretta a proporre di tagliare le politiche tradizionali, come l’agricoltura e la coesione, per finanziare le nuove.
La reazione degli stati membri e delle organizzazioni di rappresentanza dell’agricoltura non si è fatta attendere e il capro espiatorio è stato individuato, com’era da aspettarsi, nella sola Commissione. Ma i veri responsabili dei tagli sono gli stati membri che non vogliono riformare il bilancio. E senza riformare il bilancio non si può completare l’integrazione europea e costruire una sovranità europea.
La stessa cosa è avvenuta al termine della trattativa sui dazi condotta da Ursula von der Leyen con il presidente americano Donald Trump. L’America è andata alla negoziazione con l’unica voce del proprio capo politico (responsabile non solamente della politica commerciale, ma anche di quella della sicurezza), mentre l’Ue vi è andata con voci discordanti e tra di loro confliggenti. È vero che il commercio è una competenza esclusiva della Commissione europea, ma la politica di sicurezza continua ad essere una competenza esclusiva dei governi nazionali. Poiché Trump considera le due politiche interdipendenti, è stato inevitabile che la Commissione europea abbia dovuto coordinarsi con i governi nazionali lungo la trattativa. Molte voci, molte divisioni. Mentre in America la negoziazione interdipendente è stata centralizzata nelle mani di un presidente dotato di una sua legittimazione elettorale, ciò non è il caso dell’Ue. Se Trump ha una constituency elettorale cui rispondere (quella di “Make America Great Again”), una constituency creata attraverso un lungo processo elettorale (primarie ed elezioni generali), von der Leyen non ha alcun elettorato cui rispondere, essendo la sua constituency rappresentata dai leader nazionali. Il Parlamento europeo ha un ruolo secondario, peraltro lei non ne è neppure membro. L’Ue ha una pluralità di presidenti, ma nessuno che la rappresenti in quanto tale.
L’Ue non ha una testa politica perché ha difficoltà a definire un proprio interesse collettivo. Nell’Ue, ogni governo nazionale ritiene che il proprio interesse coincida con quello europeo. L’interesse europeo può emergere solamente da un processo elettorale sovranazionale (un parlamento bicamerale, cioè anche con una camera degli stati, che elegge un esecutivo). Per questo lo scontro sui dazi e qualsiasi altro conflitto vedranno l’Ue, purtroppo, sempre soccombente.
Se all’avvio dell’integrazione europea c’era un pensiero che sosteneva l’azione dei leader, oggi non c’è alcuna idea su cui costruire una strategia politica. Senza un pensiero, l’Ue non è stata in grado di condurre una campagna delle idee per contrastare la narrativa trumpiana. Mentre il presidente americano ha costantemente denunciato l’Ue per essersi arricchita ai danni dell’America, per aver succhiato sicurezza e benessere dall’America, nessuna contro-narrazione è stata promossa dalle autorità politiche dell’Ue. La Commissione è andata alla negoziazione con Trump come un organismo tecnocratico privo di una strategia politica.
Oggi manca un pensiero anche sull’agricoltura. La Pac nacque sull’idea forte che l’Europa avrebbe dovuto costruire la sua sicurezza alimentare. E quella politica fu progettata e attuata anche se in una condizione di debolezza rispetto, ad esempio, dell’alleato americano. In Europa difesa esterna e interna era stata sconnessa dalla sicurezza alimentare, mentre negli Stati Uniti le due politiche erano tenute insieme. Nel momento in cui le sfide dell’Unione europea sono diventate esistenziali, si ripropone lo stesso problema di settant’anni fa.
Ma tale problema si può risolvere se la rappresentanza agricola europea scioglie un nodo che si è creato nell’evoluzione della Pac. Si dovrebbe aprire, infatti, una riflessione sulla materia “agricoltura” per ripartire le competenze tra l’Ue e gli stati, senza più dannose sovrapposizioni e reciproci condizionamenti.
Gli aiuti diretti dovrebbero prefigurarsi come una competenza esclusiva degli stati. In tal modo, sotto i riflettori delle opinioni pubbliche nazionali, sarebbe più facile selezionare, con criteri di equità e appropriatezza, soggetti e territori beneficiari. E, nello stesso tempo, diventerebbe più agile ed efficace l’implementazione normativa e burocratica della misura.
La sicurezza alimentare e l’intensività sostenibile del settore (dalla ricerca all’innovazione, dalla gestione dei rischi e regolamentazione dei mercati alla progettazione strategica) dovrebbero, invece, tornare ad essere una competenza esclusiva dell’Ue. E questi aspetti dell’agricoltura potranno così essere affrontati in forte connessione con le politiche di difesa e sicurezza e con quelle per la competitività e la sostenibilità.