Nella parte più settentrionale del Salento – la penisola pugliese che per la sua conformazione e collocazione geografica è definita simbolicamente “il tacco d’Italia” – spicca la bellissima Ostuni, la “città bianca”.
L’areale vanta una solida tradizione agricola, in buona parte affiancata, ora sempre più spesso soppiantata, dal turismo, che negli ultimi decenni ha collocato Ostuni tra le mete predilette dai viaggiatori internazionali.
Dal punto di vista vitivinicolo il periodo di maggior fortuna risale alla seconda metà dell’Ottocento quando, per rimediare alla crisi produttiva causata dalla fillossera in alcune aree della Francia e del Nord Italia, si richiese un incremento della coltivazione della vite. Contestualmente sorsero i primi moderni impianti per la pigiatura delle uve e la vinificazione in loco, realizzati spesso in prossimità della ferrovia per agevolare gli scambi commerciali. Una pratica che però non ha favorito la valorizzazione del territorio e dei suoi vitigni identitari.
Il riconoscimento della Doc Ostuni nel 1972 fotografa un momento di stanchezza del settore, ma preserva l’attenzione nei confronti di alcune varietà tradizionali a bacca bianca come Impigno e Francavidda, insieme all’originalissimo Ottavianello, a bacca nera, vitigni che tuttora costituiscono l’ossatura del disciplinare di produzione.
A differenza dei primi due, l’Ottavianello non ha origini locali. Per cercare le sue radici occorre andare in Francia nella regione del Rodano meridionale, dove è conosciuto con il nome di Cinsault. La sua capacità di adattarsi ai climi caldi e siccitosi ne ha favorito la diffusione nelle colonie francesi di Algeria e Marocco, facendolo approdare anche in Sudafrica con il nome di Hermitage. Da notare che quella di Ostuni è l’unica Doc italiana a prevedere questa specifica varietà.
Il paradosso sta proprio qui: malgrado il nome stesso della denominazione rappresenti un vero e proprio marchio territoriale, il suo utilizzo non ha mai registrato una grande attrattiva nella produzione vitivinicola locale, al punto che la Doc ha rischiato più volte di essere revocata.

Dario De Pascale
Per fortuna operatori illuminati credono e investono ancora nel territorio: è il caso di Dario De Pascale, ostunese Doc come il suo vino, che nel 2015 ha dato vita al progetto Amalberga insieme all’amico Roberto Fracassetti, imprenditore bergamasco del settore tessile. A loro si è aggiunto in seguito Roberto Candia, di origini vicentine e attivo nell’ambito dell’arredamento. Il progetto di produrre grandi vini nella Selva di Ostuni è supportato da un team di spessore, guidato dagli enologi Gloria Battista, moglie di Dario, e Valentino Ciarla.

Da sinistra: Roberto Fracassetti, Gloria Battista, Dario De Pascale, Roberto Candia
L’azienda dispone di una decina di ettari vitati, integrati da altrettanti di proprietà di conferitori, con un potenziale produttivo non ancora compiutamente espresso, ma i primi passi lasciano presagire un radioso futuro. Oltre alle due referenze della Doc Ostuni (il Bianco e l’Ottavianello), la gamma comprende alcune varietà tipiche vinificate per lo più in purezza, come Verdeca, Francavidda, Susumaniello, Negroamaro e Primitivo, a cui si affianca un simpatico vino quotidiano, il cui blend cambia ogni anno in funzione della vendemmia.
L’ospitalità rappresenta un fiore all’occhiello: per questo motivo la funzionale cantina interrata è stata integrata da un accogliente punto vendita con annesso ristorante e wine bar.

Sotto la lente mettiamo il raro Ostuni Ottavianello, le cui uve provengono da impianti di cinquant’anni allevati a guyot, adagiati a circa 300 metri di altezza su terreni di argilla e limo, con marcata presenza di scheletro.
La vendemmia si effettua nella seconda metà di settembre, con raccolta manuale in cassetta. Le uve diraspate sono avviate a una pigiatura soffice, dopodiché il mosto fermenta in acciaio a temperatura controllata, senza mai superare i 25 °C per preservare intatto il corredo aromatico, con macerazione sulle bucce per 10 giorni. La fase di maturazione dura circa 6 mesi, sempre in acciaio, cui segue l’affinamento per un paio di mesi in bottiglia.
Mette in evidenza un manto rubino chiaro e trasparente, intarsiato da vivaci riflessi porpora. Profuma di ciliegia, ribes rosso, fragoline di bosco e violetta fresca, con lievi accenni di erbe mediterranee. Il sorso è caratterizzato da eleganza, freschezza e facilità di beva, grazie a una misurata dotazione alcolica accompagnata da tannini delicati e setosi.
Servito alla temperatura canonica di 16 °C si abbina perfettamente alla carne al fornello, tipica della vicina Valle d’Itria, ma se abbiamo il coraggio di abbassare la temperatura a 12-13 °C e di infrangere il concetto dell’abbinamento del vino rosso con la sola carne, il mare del Salento offre innumerevoli opportunità.
Ostuni Ottavianello Doc Stùne 2023 – Amalberga
Ottavianello 100% – 12% vol.
In apertura e all’interno, foto di Ilaria Santomanco